Romiti dà lezioni a Marchionne
«Uno dei principali colpevoli è il sindacato assente che, tranne la
Fiom, non ha fatto nulla» per contrastare le scelte del management del
Lingotto
Che se ne volesse andare, chi segue la Fiat lo sa da tempo. Ma anche
lo stile s’è perso nel passaggio al nuovo management . O forse qualcosa
di più, che riguarda in profondo l’idea di «impresa», e persino di
sviluppo, progresso. Tecnologico e non. La nonchalance con cui Sergio
Marchionne – a.d. di un gruppo che vede ridursi le proprie quote di
mercato in Europa – ha cancellato quel progetto «Fabbrica Italia» su cui
aveva chiesto la complicità dei sindacati (e della «politica»),
l’obbedienza dei lavoratori e l’azzeramento dei contratti nazionali di
categoria, è forse più offensiva del contenuto stesso. Sa molto, come
titolammo allora, di «Marchionne del grillo», à là Monicelli. Ora il
governo si straccia le vesti in pubblico, mostrando poco credibile
sorpresa, soprattutto con i suoi ministri banchieri e «piemontesi», per
consuetudine secolare interni – più che «vicini» – al Lingotto.
Corrado Passera, forse temendo l’arrivo di dossier molto consistenti sui tavoli di crisi del suo ministero, si sbilancia nel dire che è «importante e urgente fare chiarezza al più presto possibile al mercato e agli italiani». E che «faremo tutto il possibile per assicurare che le responsabilità che Fiat ha preso nei confronti del paese vengano rispettate». Ma senza andare oltre «le norme». Se abbiamo capito la filosofia di questo governo, non ci si può aspettare molto di buono. Identico atteggiamento dimesso da parte del ministro del lavoro, Elsa Fornero; che per un verso giura di «voler approfondire con il dottor Marchionne cos’abbia in mente nei suoi piani di investimento» in Italia. Ma subito dopo ridimensiona precisando che «non ho il potere di convocare l’A.d. di una grande azienda, gli ho dato alcune date disponibili». Se trova il tempo…
Corrado Passera, forse temendo l’arrivo di dossier molto consistenti sui tavoli di crisi del suo ministero, si sbilancia nel dire che è «importante e urgente fare chiarezza al più presto possibile al mercato e agli italiani». E che «faremo tutto il possibile per assicurare che le responsabilità che Fiat ha preso nei confronti del paese vengano rispettate». Ma senza andare oltre «le norme». Se abbiamo capito la filosofia di questo governo, non ci si può aspettare molto di buono. Identico atteggiamento dimesso da parte del ministro del lavoro, Elsa Fornero; che per un verso giura di «voler approfondire con il dottor Marchionne cos’abbia in mente nei suoi piani di investimento» in Italia. Ma subito dopo ridimensiona precisando che «non ho il potere di convocare l’A.d. di una grande azienda, gli ho dato alcune date disponibili». Se trova il tempo…
Le reazioni sindacali sono in misura (molto)
diversa atti dovuti. Maurizio Landini, segretario generale della Fiom,
bussa alla porta governativa perché «il nostro paese non si può
permettere che la Fiat se ne vada», con tanto di invito ai sindacati
«complici» a «riflettere sul fatto che subire ricatti non significa fare
sindacato». Il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso arriva a
definire ora il «modello Pomigliano» come «una barbarie». Mentre il
patròn della Cisl, Raffaele Bonanni, difende a suo modo Marchionne,
anche se riconosce che «questi della Fiat non sono dei santi, non sono
filantropi, e forse sono pure un po’…». Ma è dall’imprenditoria più
severa che arrivano però le mazzate più forti. Diego Della Valle si
toglie forse molti sassi dalla scarpa accusando «questi furbetti
cosmopoliti» – un «quartierino» immenso – di fare «scelte sbagliate» o
peggio «quelle più convenienti per loro». Alla faccia di un paese che di
soldi al Lingotto ne ha dati per oltre un secolo.
Tutte prese di
posizione sospettabili in qualche modo di scarsa obiettività. Ma se il
più noto dei predecessori di Marchionne in vetta alla Fiat – Cesare
Romiti – sente il bisogno di indicare i due punti chiave della
«debolezza» attuale, una ragione ci deve essere. Primo: «quando
un’azienda automobilistica interrompe la progettazione vuol dire che è
destinata a morire». E il Lingotto l’ha fatto: da anni non sforna più
nuove tecnologie o nuovi modelli «di massa» prodotti in Italia, solo
«oggetti» di nicchia (Mito, Giulietta, ecc). Secondo: «uno dei
principali colpevoli è il sindacato assente che, tranne la Fiom, non
hanno fatto nulla» per contrastare le scelte del management. Un
riconoscimento di valore «produttivo» al conflito in fabbrica, proprio
da lui… È lo stesso Romiti dei 23.000 licenziamenti in Fiat nel 1980,
quello che quasi distrusse il «sindacato dei consigli» e archiviò la
Flm. Che però incarna un’idea dell’impresa industriale opposta a quella
dei Marchionne e dei Monti, che vedono la dialettica conflittuale con il
lavoro come un ostacolo «alla crescita», esattamente come lo Statuto
dei lavoratori o l’art. 18. Il Romiti che guidava la Fiat negli anni ’70
ha imparato che un sindacato «forte» costringe l’azienda a innovare
prodotto e processi produttivi, mentre i «complici» la convincono che
basta premere sul costo del lavoro (e i diritti) per stillare qualche
goccia di profitto in più. Non è affatto paradossale. È il normale
riconoscimento che l’avversario, se sa fare bene la sua parte, costringe
anche te ad essere migliore. Al contrario, il Monti che rimprovera alla
«spesa pubblica» la «pigrizia» delle imprese e alla forza del movimento
operaio l’ostacolo alla creazione di nuovi posti di lavoro, sogna un
mondo a-conflittuale ( un unico «interesse sociale» al comando) che
soltanto nei sogni – o nei manuali – produce «crescita». Non sappiamo
perché, ma Romiti ci sembra decisamente più «moderno».
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