Il Brasile protesta: "è guerra delle valute"
di Francesco Piccioni, Il Manifesto
Le "iniezioni di liquidità" da parte di Bce, Federal
Reserve e Banca del Giappone sono soltanto una "svalutazione
competitiva" contro i paesi "emergenti".
In natura, spiegano a scuola, ad ogni azione
corrisponde una reazione uguale e contraria. Anche in economia, non solo
in fisica. E la reazione che arriva dal Brasile, per bocca del ministro
delle finanze Guido Mantega, è inequivocabile: «è riesplosa la guerra
delle valute».
Si riferisce alle decisioni prese dalle principali banche centrali del pianeta nelle scorse settimane, quando prima la Bce guidata da Mario Draghi ha annunciato «acquisti illimitati» di titoli di stato dei paesi europei con problemi di rifinanziamento sui mercati, per ridurre lo spread con gli equivalenti titoli tedeschi. Successivamente la Federal Reserve presieduta da Ben Bernanke ha annunciato una nuova ondata di «iniezioni di liquidità» nel sistema, ricorrendo a ben tre diversi strumenti per un totale di 85 miliardi al mese da qui alla fine dell'anno; e comunque anche oltre, fin quando «sarà necessario» per risollevare l'occupazione interna agli Stati Uniti.
A stretto giro ha fatto qualcosa di simile anche la Banca del Giappone (acquisti di titoli di stato per quasi 100 miliardi di euro). Ci si aspetta un'analoga iniziativa da parte della Banca di Inghilterra e anche quella cinese continua dall'inizio dell'estate a «pompare» denaro per sostenere il ciclo. La Turchia ha abbassato i tassi di interesse.
Perché il Brasile protesta? Per un ottimo motivo, sottaciuto da tutti coloro - «mercati »in testa - hanno brindato ai quantitative easing delle banche centrali come «soluzione» alla crisi finanziaria: le iniezioni di liquidità altro non sono che stampare moneta supplementare. La conseguenza è ovvia: si favorisce il deprezzamento della moneta che viene stampata e il corrispondente aumento di valore delle altre monete. Sul piano mercantile, le merci Usa (ed europee o giapponesi) diventano più competitive sui mercati esteri, mentre quelle dei paesi che non hanno stampato nuova moneta diventano istantaneamente più costose.
È insomma una vera e propria «svalutazione competitiva», come quelle cui era solita ricorrere l'Italietta democristiana con la liretta ballerina. Ma su una scala planetaria, perché Usa, Europa e Giappone costituiscono quasi il 50% del Pil mondiale; colossi che cercano di scaricare parte della loro crisi sugli «emergenti».
Proprio il Brasile ha smesso di crescere vertiginosamente dall'inizio della crisi del 2007-2008. Fin lì aveva tenuto un passo quasi cinese (oltre il 7% annuo), il che gli ha consentito - prima con Lula, poi con Roussef - di far sviluppare anche i consumi interni, facendo salire anche i salari. Nel 2012 si fermerà presumibilmente a un modesto +1,6%. E non sembra una boutade che qualche «osservatore» europeo abbia colto al balzo l'occasione per suggerire anche oltreoceano una terapia fatta di «ridisegno del modello economico, in questo momento pieno di rigidità». Salariali.
La reazione brasiliana non si ferma però alle parole. «Non accetteremo un eccessivo apprezzamento del real», dice Mantega, che annuncia «una tassazione sui capitali a breve» che si riversano sul suo paese (non è una benedizione: si tratta di capitali che fuggono da titoli di stato a tasso quasi zero e ambiscono ai tassi molto più elevati che paesi con alta inflazione debbono mantenere). Di fatto, una «tassazione delle operazioni finanziarie» che altrove è solo argomento di discussione.
Più preoccupante ancora, per gli Stati uniti, la decisione di Brasilia di imporre dazi doganali su 100 prodotti statunitensi che vengono importati. Che ha ovviamente provocato a sua volta una reazione yankee contro il «protezionismo» brasiliano che «danneggia le esportazioni Usa».
Dobbiamo tener presente che finora le «iniezioni di liquidità» sono solo materia di annunci. Sia la Bce che la Fed hanno potuto verificare quanto le proprie parole abbiano avuto effetti «calmanti» sui mercati, senza dover mettere in moto nemmeno una rotativa della Zecca. Ma, come dicono gli operatori, ««prima o poi dovranno passare ai fatti» e stampare soldi virtuali, perché l'euro o il dollaro troppo forti impediscono la «ripresa» proprio là dove potrebbe avere ricadute sistemiche più ampie. Alla fin fine, nessuna causa vera della crisi sembra esser stata fin qui rimossa. Si continua a spalare denaro che finisce sotto il tappeto. prima o poi si inciampa...
Si riferisce alle decisioni prese dalle principali banche centrali del pianeta nelle scorse settimane, quando prima la Bce guidata da Mario Draghi ha annunciato «acquisti illimitati» di titoli di stato dei paesi europei con problemi di rifinanziamento sui mercati, per ridurre lo spread con gli equivalenti titoli tedeschi. Successivamente la Federal Reserve presieduta da Ben Bernanke ha annunciato una nuova ondata di «iniezioni di liquidità» nel sistema, ricorrendo a ben tre diversi strumenti per un totale di 85 miliardi al mese da qui alla fine dell'anno; e comunque anche oltre, fin quando «sarà necessario» per risollevare l'occupazione interna agli Stati Uniti.
A stretto giro ha fatto qualcosa di simile anche la Banca del Giappone (acquisti di titoli di stato per quasi 100 miliardi di euro). Ci si aspetta un'analoga iniziativa da parte della Banca di Inghilterra e anche quella cinese continua dall'inizio dell'estate a «pompare» denaro per sostenere il ciclo. La Turchia ha abbassato i tassi di interesse.
Perché il Brasile protesta? Per un ottimo motivo, sottaciuto da tutti coloro - «mercati »in testa - hanno brindato ai quantitative easing delle banche centrali come «soluzione» alla crisi finanziaria: le iniezioni di liquidità altro non sono che stampare moneta supplementare. La conseguenza è ovvia: si favorisce il deprezzamento della moneta che viene stampata e il corrispondente aumento di valore delle altre monete. Sul piano mercantile, le merci Usa (ed europee o giapponesi) diventano più competitive sui mercati esteri, mentre quelle dei paesi che non hanno stampato nuova moneta diventano istantaneamente più costose.
È insomma una vera e propria «svalutazione competitiva», come quelle cui era solita ricorrere l'Italietta democristiana con la liretta ballerina. Ma su una scala planetaria, perché Usa, Europa e Giappone costituiscono quasi il 50% del Pil mondiale; colossi che cercano di scaricare parte della loro crisi sugli «emergenti».
Proprio il Brasile ha smesso di crescere vertiginosamente dall'inizio della crisi del 2007-2008. Fin lì aveva tenuto un passo quasi cinese (oltre il 7% annuo), il che gli ha consentito - prima con Lula, poi con Roussef - di far sviluppare anche i consumi interni, facendo salire anche i salari. Nel 2012 si fermerà presumibilmente a un modesto +1,6%. E non sembra una boutade che qualche «osservatore» europeo abbia colto al balzo l'occasione per suggerire anche oltreoceano una terapia fatta di «ridisegno del modello economico, in questo momento pieno di rigidità». Salariali.
La reazione brasiliana non si ferma però alle parole. «Non accetteremo un eccessivo apprezzamento del real», dice Mantega, che annuncia «una tassazione sui capitali a breve» che si riversano sul suo paese (non è una benedizione: si tratta di capitali che fuggono da titoli di stato a tasso quasi zero e ambiscono ai tassi molto più elevati che paesi con alta inflazione debbono mantenere). Di fatto, una «tassazione delle operazioni finanziarie» che altrove è solo argomento di discussione.
Più preoccupante ancora, per gli Stati uniti, la decisione di Brasilia di imporre dazi doganali su 100 prodotti statunitensi che vengono importati. Che ha ovviamente provocato a sua volta una reazione yankee contro il «protezionismo» brasiliano che «danneggia le esportazioni Usa».
Dobbiamo tener presente che finora le «iniezioni di liquidità» sono solo materia di annunci. Sia la Bce che la Fed hanno potuto verificare quanto le proprie parole abbiano avuto effetti «calmanti» sui mercati, senza dover mettere in moto nemmeno una rotativa della Zecca. Ma, come dicono gli operatori, ««prima o poi dovranno passare ai fatti» e stampare soldi virtuali, perché l'euro o il dollaro troppo forti impediscono la «ripresa» proprio là dove potrebbe avere ricadute sistemiche più ampie. Alla fin fine, nessuna causa vera della crisi sembra esser stata fin qui rimossa. Si continua a spalare denaro che finisce sotto il tappeto. prima o poi si inciampa...
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