Scuola a pezzi, scuola che resiste
Riesco
a spiegarlo qualche volta ai bambini. “Io sono un maestro giostra”. Ho
iniziato così il mio anno scolastico. Mi sono presentato in questo modo
ai miei nuovi alunni di seconda elementare. Sono proprio come i
giostrai. Voi li conoscete: arrivano con le autopiste, il calcinculo una
volta ogni tanto. Sistemano le loro roulotte […]. Vi fanno divertire,
ma poi se ne vanno. E chissà se torneranno il prossimo anno. Ecco, io
sono un maestro giostraio. Giro tutti i paesi. Arrivo, conosco voi, i
vostri genitori, il sindaco, il prete. Se riesco, cerco di insegnarvi
facendovi anche divertire perché non amo una scuola dove i bambini
sbuffano al solo pensiero di venirci. Ma a giugno smonto la mia
“giostra” e me ne vado senza sapere se potrò tornare nel vostro paese».
Alex Corlazzoli, autore di La scuola che resiste (Chiarelettere, pp. pp.
176, euro 13), è uno dei 116mila precari che girano in lungo e largo
l'Italia. Una volta all'anno si incontrano davanti agli uffici
scolastici provinciali, gli ex provveditorati agli studi, per scegliere
l'incarico. In ordine di graduatoria sono chiamati ad accettare una
destinazione da un elenco di scuole. «Ognuno di loro ha un numero. Io
l'ultima volta ero il 124. Arrivano da ogni parte: da Palermo, da
Napoli, da Bari, da Catania. Qualcuno arriva il giorno stesso, con la
valigia e l'intera famiglia […]. I più sprovveduti arrivano con in mano
una cartina geografica. Scusa – mi ha chiesto una volta una collega
maestra giostra – dov'è Offanengo, potrei scegliere di andare lì?». Ogni
giorno schiere di maestre vestono i panni delle pendolari e percorrono
in treno anche centinaia di chilometri. Tra i principali bacini di
provenienza delle maestre delle scuole elementari, ad esempio, ci sono
le province meridionali del Lazio, Latina e Frosinone, ma anche il
casertano. All'inizio di ogni anno scolastico, più o meno in questo
periodo, affrontano il momento dell'assegnazione della sede con una
carta della città. Le più gettonate sono le scuole vicino alle fermate
delle due linee metropolitane, la A e la B, le meglio collegate alla
stazione ferroviaria. Ma sulle tratte pendolari non viaggiano soltanto i
precari con incarico annuale. Alle cinque del mattino le banchine delle
stazioni di provincia si riempiono anche dei precari senza incarico che
sperano in qualche supplenza breve, anche solo di pochi giorni.
Prendono il treno, arrivano a Roma e aspettano una telefonata seduti in
sala d'attesa. In genere la chiamata per sostituire un docente in
malattia arriva intorno alle otto e se il supplente accetta, deve
presentarsi nell'istituto interessato per quel giorno stesso, in
mattinata o al più tardi nel pomeriggio. Se invece non arriva nessuna
telefonata, non resta che saltare sul treno successivo e fare ritorno a
casa. Il gioco non finisce qua. Ammesso che all'inizio dell'anno
scolastico si riesca ottenere l'incarico, non è però scontato che la
destinazione coincida con una singola scuola. È tutt'altro che raro che
una maestra precaria sia costretta a rimbalzare nell'arco di una
settimana da un paese all'altro. «Ho spiegato così la mia condizione di
precario – scrive Corlazzoli – volevo che anche loro, nonostante
avessero solo sette anni, sapessero fin dall'inizio che non avrei potuto
accompagnarli in terza, e nemmeno in quarta. Il maestro “giostra” non
c'è neanche tutti i giorni: sedici ore le dedica alla scuola di
Casaletto Vaprio e otto a Dovera. Non c'è sempre. È un mago. Arriva il
lunedì, sparisce il martedì, riappare il giovedì». Acrobazie, destrezza,
dinamismo. «Arriva il primo settembre nel nuovo istituto e nel giro di
pochi giorni deve conoscere tutto ciò che hanno deciso i collegi docenti
precedenti». Salta su un treno già in corsa, «si mimetizza
immediatamente, come fosse una lucertola, con tutti gli altri. Deve
saper insegnare tutto: storia, geografia, matematica, educazione
motoria, educazione all'immagine, informatica, sostegno ai bambini
diversamente abili, alternativa alla religione, scienze, italiano. Lui
sa tutto, anche quando non lo sa». In questi anni, però, è cambiato
anche il lavoro dei docenti di ruolo. La riforma Gelmini ha introdotto
il maestro unico o, almeno, questo era l'obiettivo sbandierato. «Le
istituzioni scolastiche della scuola primaria – si legge nell'articolo 4
della legge - costituiscono classi affidate a un unico insegnante e
funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali. Nei regolamenti
si tiene comunque conto delle esigenze, correlate alla domanda delle
famiglie, di una più ampia articolazione del tempo-scuola»
(http://www.tecnicadellascuola.it/index.php?id_tip=34&view=norm&id=24068).
«Più ampia articolazione» dell'orario sta per i diversi moduli di
permanenza dei bambini a scuola (24, 27 o 30 ore). L'orario più lungo è
il tempo pieno (40 ore), in difesa del quale il movimento contro la
Gelmini scese sul piede di guerra. Ebbene, «il tempo-scuola della
primaria è svolto […] nei limiti delle risorse dell'organico assegnato; è
previsto, altresì, il modello delle 40 ore, corrispondente al tempo
pieno» (Decreto del Presidente della Repubblica n.89 del 20 marzo 2009).
Il tempo pieno che l'ex ministro dell'istruzione asseriva di non voler
abolire, è formalmente riconosciuto. Di fatto, però, oggi le scuole lo
garantiscono solo se compatibile con il numero di insegnanti assegnato
al singolo istituto. Non solo. Il modello dell'insegnante unico ha
mandato in soffitta «il precedente assetto delle compresenze». Sotto
l'apparente tecnicismo si nasconde un dispositivo che da due anni a
questa parte ha cambiato in profondità il lavoro di chi insegna nella
scuola elementare, rendendolo più frammentato e parcellizzato. Prima
della riforma, infatti, due delle 22 ore dell'orario settimanale di un
maestro elementare erano dedicate alla «compresenza» con il collega
nella stessa classe. Oggi non è più così: in una classe è presente
sempre e soltanto uno degli insegnanti che ruotano al suo interno, mai
due nello stesso tempo (se non in rare circostanze). Le due ore un tempo
destinate alla compresenza oggi vengono utilizzate per andare a coprire
buchi nell'organico o le assenze dei colleghi. Con un semplice
espediente aritmetico, per ogni ventidue insegnanti si liberano
d'incanto ventidue ore. L'equivalente dell'orario settimanale di un
singolo maestro elementare. Ecco spiegato il taglio del numero di
insegnanti nella scuola primaria su scala nazionale. Le classi si
trasformano in veri porti di mare. Maestri che vanno, maestri che
vengono, alla faccia dell'insegnante unico che voleva il ministro
Gelmini. Fatta eccezione per le ventidue ore settimanali della maestra
prevalente, nel resto del tempo gli alunni assistono all'avvicendarsi di
altre due, se non tre insegnanti. La continuità didattica è un
miraggio. «Effetto Maria Stella Gelmini – scrive sempre Corlazzoli –
nessuno di coloro che vivono nel mondo della scuola potrebbe pensare che
l'ex ministro della pubblica istruzione qualcosa di buono sia riuscito a
farla. Forse non lo sa nemmeno lei, ma grazie alla sua riforma molti
genitori si sono svegliati, hanno deciso di non fare solo i papà e le
mamme, bensì di diventare difensori dell'istruzione pubblica. La Gelmini
è riuscita in diverse parti d'Italia a mettere in moto una carovana
d'iniziative che non è terminata con il 2008, ma è rimasta nel tempo».
Sono segnali di una scuola che resiste, che magari prova un «senso di
inadeguatezza» di fronte a una società che cambia. «Ci sono da qualche
anno i migranti: indiani, peruviani, albanesi, romeni, marocchini,
tunisini. Sono i figli degli stranieri arrivati con i barconi. Non sanno
nemmeno come il loro padre sia venuto in Italia. Parlano l'arabo e
l'italiano. Mangiano il kebab e gli spaghetti. Pregano Allah o Ganesh,
ma non s'infastidiscono per il crocefisso in classe. La scuola è il
mondo». Per insegnare geografia ci vuole il mappamondo a portata di mano
o, meglio ancora, google maps sull'iPad del maestro. Basta un clic per
atterrare su Tunisi o su Marrakech, su New York o Mumbay. «I nostri
ragazzi viaggiano troppo poco», «spiegare il grande fiume Po senza
andare a vederlo è inimmaginabile, quando si abita nella provincia di
Cremona. Pensate per un giorno di entrare nei 460.000 metri quadrati del
porto: c'è il raccordo ferroviario, ci sono gru capaci di portare 50
tonnellate e altre della portata do 400. Si scopre che i binari arrivano
fin dentro la Tamoil, e le pagine che raccontano del petrolio che
arriva dall'Africa e attraversa l'Italia diventano realtà». A scuola si
può insegnare anche la politica. «Ho iniziato a parlare della politica
portando in classe un tabellone elettorale, uno di quei manifesti con
tutti i partiti e le liste dei candidati alla Camera e al Senato. Volevo
far capire la destra e la sinistra, ma una solerte collega me lo
strappò: “Non si può parlare di politica in classe”. Vietato! È reato.
Vietato anche far entrare a Montecitorio i ragazzi sotto i dodici anni».
La scuola che resiste. «Forse dovremmo riconquistare il ruolo del
maestro. Per troppo tempo siamo stati bistrattati, considerati degli
operai della scuola, uomini e donne alla catena di montaggio
dell'istruzione».
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