Ogni
crisi economica, qualora assuma dimensioni e profondità sistemiche, si
presenta sempre come una crisi che interessa la razionalità di
governo. Si è detto e ripetuto più volte che i governi stanno, quasi
per paradosso, applicando ricette neoliberiste per far fronte alla
stessa crisi del neoliberismo. Dietro questa apparente tautologia,
questa accanita e forsennata insistenza, tuttavia, si nasconde
un’incrinatura, una rottura, che riguarda direttamente il progetto
neoliberale, i suoi modi di presentarsi come discorso egemonico e la
sua forza di penetrare nel tessuto sociale, per ordinarlo. Per
afferrare questo punto conviene fare un passo indietro e chiedersi quale
fosse, se è mai esistita, un’utopia propria del neoliberalismo.
Utopia neoliberale
Karl Polanyi, a cui il titolo di questo testo si
richiama scherzosamente, ha sostenuto che l’utopia del primo liberalismo
economico si era presentata nell’idea dell’autoregolazione del
mercato. La generalizzazione di questo principio organizzativo
all’intera vita sociale, ha comportato effetti distruttivi tali da
innescare una crisi di governo senza precedenti.
C’è da chiedersi quale sia stata, invece, l’utopia
incarnata dentro il discorso neoliberale a partire dalla metà degli anni
Settanta. Come ci ha mostrato Foucault, lo spostamento di asse dal
principio regolatore dello scambio a quello della concorrenza, ha mutato
radicalmente la grammatica della governamentalità liberale.
Si potrebbe affermare che l’utopia specifica del
neoliberalismo non sia stata tanto quella dell’autoregolazione, bensì
quella della completa de-proletarizzazione del corpo sociale. Quando si
dice de-proletarizzazione qui non si intende affatto l’idea che per i
neoliberali non ci dovessero essere disuguaglianze, né rapporti di
subordinazione e dipendenza, ma che questi rapporti, queste differenze
non debbano in alcun modo essere pensati come rapporti di sfruttamento.
Questo il punto: lo Stato deve intervenire attivamente affinché la
società sia segnata da disuguaglianze, anche radicali, condizione questa
necessaria al funzionamento del principio della concorrenza di tutti
con tutti. Tuttavia, il problema per i neoliberali rimane quello di far
fuori l’opposizione tra capitale e lavoro. “Facendo di tutti gli
individui dei capitalisti, istituendo un capitalismo popolare, si
eliminano le tare sociali del capitalismo, indipendentemente dalla
salarizzazione crescente nell’economia. Un salariato che sia a sua volta
anche un capitalista, non è più un proletario.” (Bilger, citato da
Foucault in Nascita della biopolitica)
Il neoliberalismo realizzerà questa sua idea-forza
attraverso due figure principali. Da una parte quella dell’individuo
proprietario. L’individuo proprietario è il rovescio di quella
particolare forma di proprietà che si era sviluppata con la diffusione
dei moderni sistemi di Welfare. Questi, in un certo senso, hanno
rappresentato la risposta capitalistica e di Stato alle lotte contro gli
effetti devastanti della proletarizzazione attraverso una forma,
seppur parziale e verticale, di socializzazione della proprietà: le
assicurazioni sociali (pensioni, assicurazioni contro gli infortuni, la
malattia e la disoccupazione) e i servizi collettivi garantiti dallo
Stato (università, scuola, sanità). Non va dimenticato, tuttavia, che
questa forma di proprietà sociale è stata l’obiettivo di lotte
grandiose, durante gli anni Sessante e Settanta, che ne contestavano la
natura disciplinare, lavoristica e statuale. Questo insieme di
istituzioni e di forme di assicurazione sociale che il neoliberismo
attacca, erano già state in altri termini colpite dai conflitti dal
basso che avevano tentato non solo di estenderle ulteriormente, ma anche
di inserirle all’interno di un progetto di liberazione.
La seconda figura che incarna l’utopia neoliberale è
quella, conosciuta e spesso richiamata, dell’imprenditore di sé. Qui la
società pensata come un insieme di imprese individuali prende il posto
della società segnata dal dualismo e dall’antagonismo che separa e
contrappone il lavoro e il capitale. Le retoriche sul capitale umano
convertono la crisi della società salariale innescata dalle lotte
operaie e proletarie, in quel progetto che sempre Foucault definisce di
«demoltiplicazione della forma impresa». Individuo proprietario e
imprenditore di sé sono quindi i due poli su cui si definisce, non solo
la retorica ma anche la pratica governamentale di quell’utopia che
punta alla completa de-proletarizzazione del corpo sociale.
In che senso la povertà rovescia l’utopia
Ciò che a noi interessa è comprendere come l’attuale
crisi economica, benché continui ad essere curata con le ricette
neoliberiste, abbia incrinato tale utopia e in quale direzione tale
incrinatura possa aprire, o stia già aprendo, processi di
soggettivazione inediti. Per far questo conviene rivolgere lo sguardo ai
processi di impoverimento e declassamento che la congiuntura economica
sta accelerando e massificando. Quando parliamo dell’estensione della
povertà qui non ci riferiamo unicamente agli indicatori tradizionali,
assoluti e relativi, che spesso ne sottostimano la portata. Ci riferiamo
a quello che alcuni studiosi hanno chiamato la «democratizzazione
della povertà», ovvero a quel fenomeno che fa della povertà
un’esperienza trasversale, temporanea o permanente, che finisce per
toccare strati sociali sempre più ampi e variegati e che non si
identifica necessariamente con l’assenza di lavoro. Il carattere
maggiormente innovativo di questa esperienza è che essa si applica
sempre di più a soggettività tutt’altro che isolate, nient’affatto
escluse o prive di risorse (intellettuali o relazionali).
Nonostante gli effetti sociali e politici di questo
fenomeno rimangano ad oggi del tutto ambigui ed imprevedibili, possiamo
già da ora affermare che questi stanno producendo un rovesciamento
dell’utopia neoliberale. Almeno in due sensi. Da una parte la
pauperizzazione si presenta innanzitutto come povertà di potere. Quando
il neoliberismo si propone di distribuire la proprietà, questa
distribuzione, concretamente, si dà sotto la forma del debito e della
finanziarizzazione della vita: l’individuo proprietario, per riprendere
un’espressione di Deleuze, nasconde sempre l’uomo indebitato.
Dalla finanziarizzazione dei fondi pensione
statunitensi nella prima metà degli anni Settanta fino alla recente
crisi dei mutui subprime, è evidente che da tempo siamo entrati in un
regime di differente natura nel quale le classiche pratiche di
disciplinamento hanno lasciato il posto a metodi di prescrizione delle
soggettività e di colpevolizzazione. E la forma del debito, come spiega
benissimo Lazzarato nel suo ultimo libro (La fabbrica dell’uomo indebitato),
porta con sé quella della colpa: da una parte la solitudine
dell’individuo «privatamente» indebitato, dall’altra quella di intere
popolazioni che pagano i costi della speculazione sui debiti «pubblici».
I destini della vita delle popolazioni vengono legate in modo
stringente alle variazioni e alle fluttuazioni dei mercati finanziari.
Ciò che non passa per il comando diretto, si esprime attraverso
dispositivi di potere che vedono nella forma-debito, un potente, benché
non esclusivo, strumento indefinitivamente applicabile.
Dall’altra, il progetto di de-proletarizzazione si è
dato attraverso una mutazione della stessa convenzione salariale. Il
reddito, come suggerisce ad un certo punto Foucault, smette di essere la
contropartita di un lavoro erogato, ma diventa un flusso derivato da
un investimento individuale. Il capitale umano, sociale e intellettuale
che ogni lavoratore possiede, benché in misura differente, è ciò che
viene investito nel mercato e che gli consentirà di avere un reddito.
Marazzi ha mostrato molto bene come questa coincidenza tra lavoro e
capitale nel corpo della forza-lavoro postfordista, ha comportato un
sostanziale disconoscimento monetario del lavoro, in particolare di
quello che risiede nelle conoscenze, nelle relazioni, negli affetti e
nella stessa corporeità. Cioè quello che origina dal comune. Che cos’è
il capitale sociale e intellettuale se non il lavoro prodotto
socialmente e collettivamente, accumulato nel tempo? Che cos’è questo
capitale di cui parlano i neoliberali se non l’immagine capitalistica di
quello che noi possiamo chiamare comune, ovvero le condizioni
collettive della produzione.
Nella crisi economica, proprio quando i meccanismi di
ricompensa di questo investimento vengono meno e nel momento in cui
l’impoverimento della forza lavoro diventa una condizione sempre più
estesa, questo ribaltamento tra il capitale come dotazione individuale e
il comune, inteso come proprietà collettiva, acquisisce una nuova
visibilità. Esso mostra tutta la tensione che esiste tra la deprivazione
materiale a cui siamo sottoposti e la potenzialità produttiva che
vive, e si rende possibile, dentro l’agire collettivo.
Proletarizzazione
Se l’esperienza dell’impoverimento rovescia le due
figure principali attraverso cui il neoliberismo ha costruito il suo
discorso, è possibile interpretare in modo differente le politiche di
gestione capitalistica della crisi. Gli stessi programmi di austerità
che stanno colpendo il Welfare, secondo questa visuale, possono quindi
esser visti come qualcosa di assai più complesso di puri attacchi al
settore pubblico e alle prerogative dello Stato sociale. Molti autori
marxisti hanno ripreso negli ultimi anni, e in modo convincente, il
problema dell’accumulazione originaria proposto da Marx nel Capitale,
vedendo in esso un processo che tende a reiterarsi nella storia del
capitalismo. Secondo Marx lo spossessamento e la recinzione delle terre
comuni ha comportato storicamente l’isolamento dei lavoratori dalle
condizioni di sussistenza e, al contempo, di realizzazione del lavoro.
Questo processo ha reso possibile la proletarizzazione della forza
lavoro stessa. Nella mercificazione spinta dei servizi collettivi
garantiti dal Welfare è in atto un processo molto simile a quello che ha
caratterizzato la cosiddetta accumulazione originaria, laddove però,
come ha sostenuto Marazzi, oggi la vita prende sempre più il posto che
ha svolto storicamente la terra.
L’attacco al Welfare si concretizza su due fronti: da
una parte viene attaccato il Welfare inteso come redistribuzione delle
ricchezze prodotte, cioè vengono attaccate quelle forme di reddito che
non passano per il salario che si scambia con il lavoro, ovvero per
quelle forme che sono, anche se solo relativamente, indipendenti dal
salario. Dall’altra parte il Welfare viene attaccato come produttore di
servizi collettivi quali la sanità, l’istruzione, la cultura, ecc… Il
tentativo di distruzione del welfare dal punto di vista dell’attacco al
reddito sociale e alle istituzioni collettive, alle basi della
sussistenza e alle condizioni sociali del lavoro, può essere forse
interpretato come una riproposizione, anche se con caratteri del tutto
inediti, dello schema storico della accumulazione originaria, cioè di
quello che per Marx è il processo che renderà possibile la
proletarizzazione della popolazione. Con alcune caratteristiche che però
lo rendono non assimilabile alla forma classica descritta dal
marxismo. Da una parte questa proletarizzazione non si dà come una
riduzione dal lavoro complesso a quello semplice: la cognitivizzazione
del lavoro rende impossibile questa riduzione e spinge fino alle
estreme conseguenze la tensione esistente fra la miseria delle
condizioni di vita e la pienezza dell’attività creativa. Dall’altro,
questo processo non produce alcuna unità né omogeneizzazione del corpo
sociale, neanche dal punto di vista della coscienza. Il lavoro di
composizione di questa plebe intellettuale non lo si trova già pronto,
ma occorre costruirlo.
Il neoliberismo nasce con il progetto di spezzare il
potere accumulato dalle lotte durante il fordismo. Questo progetto di
radicale trasformazione della società, ha avuto nell’utopia della
de-proletarizzazione il suo cuore pulsante. Fino ad un certo punto, il
ritorno della povertà in Europa, con il discorso imperante
sull’esclusione sociale, è stato del tutto interno a questo programma.
La crisi recente innesca invece un rovesciamento di questo fragile
rapporto, aprendo nuove strade per le lotte sociali. Siamo solo
all’inizio di una nuova stagione e di una nuova grammatica per i
conflitti di classe.
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