Tra Sparta e Atene, Winter is coming
Non condivido i toni di soddisfazione che mi sembra prevalgano nei
commenti alle recenti elezioni. Solo con l’ironia che il Bardo mette in
bocca a Riccardo III nell’incipit della tragedia posso convenire che
l’inverno del nostro scontento si sia mutato in estate splendente sotto
i raggi del sole elettorale, e che siano sprofondate le nubi che
incombevano sul nostro capo. Certo, ad Atene piangono lacrime amare:
sconfitta dell’agenda-Monti, seppellimento di quell’eterno Walking Dead
che era l’agenda-Berlinguer-D’Alema (in attesa del prossimo sequel),
scomparsa di un certo numero di facce che infastidivano la vista e la
digestione; sottolineerei anche l’ennesima cantonata presa da Eugenio
Scalfari, chissà perché reputato analista politico di valore, che a
questo punto potrebbe essere sospettato con qualche legittimità di
portare sfiga; e di quello Scalfari in minore che è Flores d’Arcais.
Infine, il dissolvimento (verrebbe voglia di dire: lo smacchiamento) del
patrimonio di consensi e credibilità accumulato da Vendola in 8 anni
di governo della Puglia, e il ridicolo in cui è caduto il
pentapartitino affastellatosi attorno ad Antonino Ingroia. Su questi
ultimi due eventi possiamo di sicuro rivendicare un ruolo attivo,
soprattutto nell’incessante lavoro di controinformazione sulla gestione
vendoliana dell’Ilva di Taranto, e sulla presenza di movimenti di
lotta che hanno fatto deflagrare le contraddizioni del Governatore
rosso amico di padron Riva.
Per il resto, sono più interessato a capire perché anche a Sparta non c’è da ridere.
A partire dalla constatazione che i no alle politiche europee, alle
agende dettate dalle banche, alla carota dell’austerity dietro la
minaccia del bastone ellenico sono espressione di un rifiuto reattivo,
non critico, da parte dell’elettorato. E la scelta del mezzo – il
successo del M5S – ha tratti di forte inquietudine: non saprei dire se
mi inquieta più Grillo, o il consenso che gli deriva da tanti nostri,
non solo ex, compagni di strada, ma certo non sorrido. Cerco di
comprendere, ma proprio per questo non posso essere estraneo alla
tristezza delle passioni che vedo diffondersi sotto forma di
indignazione e odio. Detesto ripetermi, ma l’avevo già detto dopo il 15
ottobre 2011: Winter is coming. Perché oltre ad Atene e Sparta, c’è Tebe: e a Tebe c’è la peste.
Dell’ingovernabilità
L’ingovernabilità, dicono molti compagni, è il dato più positivo di
queste elezioni. Sarà: curioso che proprio mentre vado a scrivere queste
note, giunga notizia
che «l’alta finanza promuove il Movimento Cinque Stelle: Jim O’Neil,
il ‘guru’ di Goldman Sachs che ha inventato l’acronimo ‘Bric’, dice di
trovare “entusiasmante” l’esito elettorale italiano. Il Paese, spiega,
ha “bisogno di cambiare qualcosa di importante” e forse il risultato
del movimento di Grillo è il “segnale dell’inizio di qualcosa di
nuovo”». In attesa dell’endorsment di Tony Soprano, questa dichiarazione è un segnale rilevante – ma facciamo un passo indietro.
Chi dice che “crisi” e “ingovernabilità” siano dei valori in sé? Non
certo il pensiero della critica dell’economia politica, che sa
riconoscere nella crisi non un evento che accade al capitale, ma la
natura strutturale del capitale stesso: il capitale non va in crisi, il capitale – anche e soprattutto quello finanziario, ci diciamo da Crisi dell’economia globale, “il nostro Operai e Stato” disse qualcuno – è crisi.
E nella crisi si trova bene, se la crisi non è l’esito di cicli di
lotte destrutturanti e disarticolarizzanti: dell’autovalorizzazione di
soggettività antagoniste.
Non sarò certo io a negare che le lotte siano assenti: ma proprio per
la professione di realismo (di empirismo critico) non riesco a vedere
questi tratti presenti nell’attuale ingovernabilità.
Posto che di ingovernabilità si debba parlare. È poi vero che l’ingovernabilità parlamentare sia un cuneo nei processi di governance
sovranazionale? Io credo si debba paventare, piuttosto, il rischio che
l’attuale stallo parlamentare, che prelude a governi con maggioranze
variabili e risicate, sia assai gradito al governo delle banche e della
finanza. In prima battuta, non ci sono i numeri e la forza parlamentare
(posto che ci sia la volontà politica) per modificare quanto tra
Berlusconi e Monti (tagli alla scuola, riforma-Brunetta
dell’amministrazione, collegato lavoro di Sacconi, blocco dei contratti
pubblici, inserimento del pareggio di bilancio nella Costituzione,
abrogazione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori, legge di
revisione di spesa). Giusto per dare un’idea di cosa succede, il governo
dimissionario in un paio di giorni ha bloccato la progressione
stipendiale nel pubblico impiego per un altro anno, e decretato la fine
dell’emergenza umanitaria per i profughi del nord-Africa (che hanno
ricevuto 500€ e sono stati gettati fuori dagli alloggi, in pieno
inverno): un comportamento che non sorprende, e che allude al modo in
cui i processi di governance sono sempre più spesso
concretizzati con atti amministrativi con valore di legge, e conseguente
svuotamento delle costituzioni formali.
La governance finanziaria, quella che viene evocata come “la
minaccia dei mercati” sotto cui cadrebbe l’Italia in caso di elezioni
anticipate, non ha alcuna ragione per mancare di continuare ad
esercitare non la minaccia, ma i fatti concreti già adesso, proseguendo
la linea di appropriazione della ricchezza sociale sotto forma di
aumento dei tassi, allargamento dello spread, inflazione reale, ecc., mentre l’effetto performativo dei dati quantitativi sull’economia – taci, lo spread
ti ascolta! – si estende alla stessa possibilità di esercitare il
diritto di voto, subordinato al consenso dei “mercati”: mentre il ruolo
di fatto di “guardiano della Costituzione” (nel senso schmittiano
dell’espressione) del presidente della repubblica cresce bypartisan. Insomma, per dirla col tenente Nicholas Holden (Tony Curtis) di Operation Petticoat, nel torbido si pesca meglio,
almeno per la finanza mondiale che mal sopporta le stolide strategie
di Draghi e Monti, bacchettati sulle dita come alunni poco capaci dal
severo maestro O’Neil.
Ovvio (ma non banale) che questo scenario alluda a una strategia di lotte che mettano al centro il lavoro vivo (come ci ricorda Benedetto Vecchi) e la precarizzazione dell’esistente (come sottolineano Morini e Fumagalli)
e pongano bilancio e fiscal compact al centro dei propri interessi. Ma
questo, al momento, ancora non si dà. Il vecchio muore, ma il nuovo, pour cause, ancora non si vede.
Chi rappresenta chi?
Come dicono nell’intervista al “manifesto” del 1 marzo i Wu Ming
(che hanno dato vita sul proprio blog a un imprescindibile dibattito),
«i movimenti non hanno saputo trovare vie d’uscita dalla crisi che li
ha colpiti una decina d’anni fa, non c’è stato un lavoro
riorganizzativo, e i cicli di lotte che si sono susseguiti non hanno
radicato senso comune». Di conseguenza, il voto a Grillo «personifica
il fallimento dei movimenti, è principalmente su questo che dobbiamo
interrogarci».
La crisi della rappresentanza politica si è concretizzata nel voto al
M5S, che ha fatto proprio nelle piazze lo slogan dei movimenti “Non ci
rappresenta nessuno”. Cosa significa questo slogan urlato davanti a un
miliardario guidato dal proprietario milionario di un’agenzia
pubblicitaria (anche queste sono soggettività)? Quell’enunciato dei
movimenti allude a un’azione costituente che salti la mediazione della
rappresentanza; lo stesso enunciato viene ora decontestualizzato,
ricontestualizzato e risemioticizzato: “non ci rappresenta nessuno di
voi perché adesso ci rappresenta LUI”. E il “lui” in questione enuncia
una prassi politica nella quale la dimensione costituente è titillata,
solleticata, masturbata, mai concretamente praticata: la democrazia digitale è possibile solo se e quando il Grillo ex machina clicca sull’interruttore o inserisce la password.
In altri termini, la crisi della rappresentanza ha luogo all’interno
delle forme stesse della rappresentanza, e ne assume le aberrazioni
peggiori, ancorché classiche: leaderismo, delega, prevalenza
dell’individuo sui contenuti. Grillo porta al massimo grado di
efficienza e performatività questi aspetti, ma non è certo il primo, né
l’unico, a cercare di giovarsene. Qui non mi interessa ritornare sulle
peculiarità di questa crisi nelle forme peculiari del campo della
destra: mi interessa interrogarmi sul perché i movimenti abbiano la
tendenza a farsi invischiare in questi terreni.
Se facciamo mente locale al clima che si respirava all’inizio
dell’estate 2011 – referendum su nucleare e beni comuni, piazze
tematiche, rivoluzioni arancioni in diversi grandi comuni – possiamo
accorgerci di quante occasioni siano state sprecate. Uno dopo l’altro,
dall’ipotesi di una Syriza dall’alto scaturita da accordi di
vertice tra un piatto di strascinate con le cime di rape,
un’amatriciana e una sarda in saor; ai movimenti arancioni; alla
parabola di ALBA fino al décalage di “cambiare si può”; per finire nella
farsa di Rivoluzione Civile: non c’è apparato di cattura dei movimenti
che non abbia palesato, nella breve durata consentita a queste
operazioni di politica politicante, la momentanea capacità di arrestare
il movimento e fermare l’azione costituente riportandola sul terreno
della rappresentanza.
Guardiamo quella che poteva essere una campagna elettorale messa fuori quadra dal proseguire delle lotte: imbavagliati, in stand by
o in attesa di vedere quel che succede, o mobilitati nelle piazze
dello Tsunami Tour, nessuno dei movimenti (scuola, precari della
logistica, Ilva, beni comuni) ha rotto la tregua elettorale – salvo,
come sempre, i mai troppo lodati valsusini, che hanno con esemplare
correttezza politica deciso di far sentire la propria voce a
prescindere dal riorientamento tattico del proprio voto, imponendo la
propria il/legalità su quella delle truppe d’occupazione: dimostrando
di aver assimilato nel proprio bios cos’è la “società dei governati”.
E allora diventa lecita la domanda: perché i movimenti, salvo rare
eccezioni, hanno questa dannata predisposizione a farsi captare? La
risposta non ce l’ho: ma la domanda l’ho ben chiara. Perché fino a
quando non si rompe nella prassi il circolo della rappresentanza, ogni
rottura al suo interno equivarrà a un nuovo soggetto decisore,
in nome di una politica improntata sulla diade amico/nemico piuttosto
che sulla potenza costituente del comune.
The Grasshopper Lies Heavy
Com’è noto ai cultori di Dick, The Grasshopper Lies Heavy è il titolo del libro misterioso al centro del capolavoro dell’utopia negativa del grande Philiph K. La svastica sul sole, o L’uomo nell’alto castello. La traduzione italiana (La cavalletta attacca)
non è fedele, e non consente di cogliere quello che oggi si palesa a
noi come un inquietante gioco di parole (colto dal blogger Franco Senia). La sua traduzione più corretta potrebbe essere Il grillo si trascina pesantemente: si tratta di un passo del Qohelet,
XII, 5 («Also from the high places they will fear, and terrors on the
road, and the almond tree will blossom, and the grasshopper will drag
itself along», recita una traduzione inglese). Ma quell’insetto che si
trascina con pesantezza, alludendo all’età senile, può anche avere un
diverso significato, se si considera la polisemia del verbo to lie: il Grillo mente pesantemente.
In che senso questo Grillo mente?
Un primo esempio lo abbiamo già visto: l’appropriazione della parola d’ordine “non ci rappresenta nessuno”.
Un secondo esempio è l’appropriazione di un’altra parola d’ordine:
quella del “reddito di cittadinanza”. Quale che sia la prospettiva (in
una chiave diversa dalla nostra, ma con la quale si può interloquire,
penso a quella giuridica di Rodotà) , il reddito minimo di cittadinanza è
sempre stato pensato all’interno di un cambiamento strutturale e
radicale dell’esistente, non di una riforma dello Stato sociale: non è
mai pensabile come un sussidio, men che meno legato alla dimensione
dello scambio tra lavoro e salario (questo ci ricordano i compagni di
San Precario).
Qui interviene Grillo, in tre step: dapprima propone un Sussidio di disoccupazione garantito (programma M5S, pag. 1); in un secondo momento, verificato il consenso che ha conquistato nel campo della sinistra, si appropria di una dell’enunciazione “reddito di esistenza” sganciandola dal suo riferimento materiale e risemiotizzandola, con un effetto retorico attestato da quanti oggi dicono: “ma è quello che chiedevamo noi!”; infine, aggancia questa enunciazione a un nuovo riferimento materiale: abolizione degli stipendi dei pubblici dipendenti. Il che significa taglio degli stipendi pubblici del 30-60% (con buona pace di chi impreca al paragone Mussolini-Grillo, è quello che fece Mussolini: taglio del 22% dei salari per conseguire la “quota 90″, e ulteriore taglio del 20% con la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore):
Qui interviene Grillo, in tre step: dapprima propone un Sussidio di disoccupazione garantito (programma M5S, pag. 1); in un secondo momento, verificato il consenso che ha conquistato nel campo della sinistra, si appropria di una dell’enunciazione “reddito di esistenza” sganciandola dal suo riferimento materiale e risemiotizzandola, con un effetto retorico attestato da quanti oggi dicono: “ma è quello che chiedevamo noi!”; infine, aggancia questa enunciazione a un nuovo riferimento materiale: abolizione degli stipendi dei pubblici dipendenti. Il che significa taglio degli stipendi pubblici del 30-60% (con buona pace di chi impreca al paragone Mussolini-Grillo, è quello che fece Mussolini: taglio del 22% dei salari per conseguire la “quota 90″, e ulteriore taglio del 20% con la riduzione della giornata lavorativa a 8 ore):
«Ogni mese lo Stato deve pagare 19 milioni di pensioni e 4 milioni di
stipendi pubblici. Questo peso è insostenibile, è un dato di fatto, lo
status quo è insostenibile, è possibile alimentarlo solo con nuove
tasse e con nuovo debito pubblico, i cui interessi sono pagati
anch’essi dalle tasse. È una macchina infernale che sta prosciugando le
risorse del Paese. Va sostituita con un reddito di cittadinanza» (Gli italiani non votano mai a caso, “Il blog di Beppe grillo”, 26 febbraio).
Qui non contano i dati sparati a casaccio (gli stipendi pubblici sono
circa 14 miliardi al mese): conta l’effetto performativo, che mira a
riprendere il frame delle due società (hai!, professor Asor Rosa:
giungeremo mai al fondo dei danni provocati da quelle tue poche pagine
del ’77?): garantiti contro non garantiti, vecchi contro giovani,
conservatori dello status quo contro costruttori di una nuova Italia
sulle macerie.
E rieccole, le macerie: metafora preferita dai leghisti nei primi
anni Novanta, sono l’incarnazione stessa della decontestualizzazione e
risemiotizzazione come metodo. Anche quando le cita un miliardario che
ha fretta di rimuoverle per ricostruire, perché ha bisogno di un
parcheggio per il Suv o di un molo per lo yatch. Possiamo dire che
questa dinamica sia la natura stessa del M5S; lo sottolinea bene il
nostro attuale editoriale:
«Una parte qualitativamente consistente è formata da giovani ma non
giovanissimi, tra i 25 e i 40 anni, perlopiù rappresentativi di un ceto
medio ormai declassato o in via di impoverimento, che non trovano una
corrispondenza tra titolo di studio e posizione occupata dentro il
mercato del lavoro. Sono i precari di prima generazione, di cui
esprimono alcune delle caratteristiche principali (dal rifiuto delle
forme di rappresentanza tradizionali all’utilizzo innovativo della
comunicazione). [...] Il dato politico è che si tratta in buona misura
della composizione che nella vicina Spagna ha fatto le acampadas.
[...] Però nel ciclo dei movimenti “occupy” vi è una corretta
individuazione del carattere strutturale della corruzione, in quanto
consustanziale al capitalismo finanziario e al divenire rendita del
profitto. [...] Dentro il M5S e più complessivamente nelle tendenze
giustizialiste la corruzione viene invece ridotta alla moralità dei
comportamenti individuali: la via d’uscita alla crisi della
rappresentanza è identificata nella supposta incorruttibilità di un
soggetto astratto, l’opinione pubblica. Al tempo del web 2.0, essa viene
a coincidere con un ceto medio divorato dall’angoscia del presente e
dall’ansia per il futuro. In assenza di prospettive di ricomposizione,
il rancore diventa la sua passione dominante. Il M5S si configura così,
tra le altre cose, come una sorta di spazio di espressione di un ceto
medio che tenta disperatamente di difendersi dai processi di
declassamento e da una proletarizzazione ormai compiuta».
In altri termini, il M5S si appropria delle potenzialità del
precariato cognitivo, e le reindirizza in chiave messianica, o rancorosa
e reattiva: vedi l’uso del tema dell’insolvenza declinato in chiave
individualistica (rapporto unilaterale Italia-creditori), anti-europea
(referendum per l’uscita dall’euro), nostalgica (ritorno alla lira) e
vagamente bucolica (decrescita). Ne esalta il potenziale costituente, ma
solo per catturarlo e depotenziarlo. Non da oggi, in tutta evidenza:
una delle ragioni (una ragione, non la ragione) per
cui non c’è in Italia non dico un movimento Occupy, ma neanche una
Syriza “dal basso”, è la connessione tra l’incapacità dei movimenti di
uscire davvero dal circuito della rappresentazione, e la potenza
comunicativa di questo nuovo soggetto politico in grado di catturarne le
aspettative e riterritorializzarle su terreni che non fuoriescono
dallo stato di cose esistente: in fondo, ciò che Grillo vuole è far
funzionare “bene” questo Stato e questo stato di cose, non sovvertirlo.
Lo stesso mito del popolo della rete, costitutivo dell’identità che i
grillini si danno, rimanda a quella dimensione dell’anima bella e
della differenza pura: «numerosi sono i pericoli di richiamarsi a
differenze pure, liberate dall’identico, divenute indipendenti dal
negativo. Il pericolo più grande è di cadere nelle rappresentazioni
dell’anima bella ove, lungi da lotte sanguinose, non convivono che
differenze conciliabili e armonizzabili», scrive Deleuze in apertura di Differenza e ripetizione.
Nondimeno, quella del M5S è una dimensione reattiva, rancorosa,
triste: l’indignazione, e talvolta l’odio, che sobilla, private dalla
dimensione costituente e riterritorializzate sul terreno del grande
Altro (o forse del Modello dell’Io) che, nascosto dietro lo schermo
opaco, illumina questo o quel piccolo oggetto designandoli come degni di
essere liberamente e autonomamente odiati o desiderati da parte di
soggettività, sono passioni passive, che esprimono non la libertà, e
nemmeno un processo di liberazione, ma uno stato di servitù della mente.
Quella servitù inconsapevole, molto vicina al microfascismo di cui
parlava Foucault, che alberga in chi crede che fare politica e
rimboccarsi le maniche significhi aprire una pagina facebook, o
scaricarsi sull’i-phone gli skeetch di Crozza: esisteva prima di Grillo, e rimarrà dopo. Ma il grillismo la rilancia e la potenzia.
Stupisce (o forse no) che taluni poco fini analisti politici (absit invidia verbo) dicano
oggi che «Grillo è riuscito a fare quello che non siamo riusciti a
fare noi»: quello che Grillo ha fatto noi non siamo riusciti a farlo
perché quello che volevamo, e non siamo riusciti a fare finora, era
cosa ben diversa da quella che Grillo ha fatto e fa. Realizzare nel
concreto delle lotte, sul terreno del lavoro vivo, della
precarizzazione, dell’ambiente e del diritto alla vita e alla salute,
su quello dei commons e del comune significa – non può significare altro che – confliggere non solo, ma anche
con i disegni di Grillo, creando nel concreto le condizioni perché le
contraddizioni, i non detti, le ambiguità e le esplicite inclinazioni
reazionarie esplodano. Impedire la saldatura della imprenditorialità
ex-leghista, del ceto medio in cerca di ricollocazione politica, con il
precariato, cognitivo e non, che costituisce il corpo di questo
movimento, di dimensioni spropositatamente ridotte rispetto al suo
elettorato – dunque desideroso di nuove inclusioni e ibridazioni.
E che il pope Gapon, una volta di più, s’impicchi!
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