martedì 12 marzo 2013

Tutta un’altra Storia di Ilvo Diamanti


Pier-Luigi-Bersani-960x640Non è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano, invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il voto al M5S.
Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica:
1) la prima colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”.
2) la seconda afferisce alla struttura sociale ed economica del voto, crisi esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento.
L’identità sociale – per non dire di “classe” – delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata : il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo”, e anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” la base. Entrambi sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità.
Oggi in Italia i due principali partiti, PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti “esterne” al mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù…
Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista.­ Da partito di massa all’italiana.
Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica.
Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%).
Fra i “liberi professionisti”­ (31%) e fra gli studenti (29%) – dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”. Distribuito in tutto il territorio.
Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio.
Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”.
Non è così.
Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno improntato la Seconda – ma anche la Prima – Repubblica oggi non riescono più a “dividere” e ad “aggregare” gli elettori.
Siamo entrati in un’altra Storia.
I partiti “tradizionali”,­ per affrontare la sfida del M5S, non possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo. Scommettere sulla sua dis-integrazion­e.
Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.
Ilvo Diamanti - la Repubblica 

Analisi del voto e vecchi fantasmi

di  Claudio Conti, Contropiano.org

Le analisi di Ilvo Diamanti sono sempre interessanti, a volte illuminanti. Quasi sempre a dispetto delle sue interpretazioni, chiaramente volte a “suggerire” al Pd linee di comportamento politico peraltro sempre disattese.

È così anche stavolta, in occasione di un'analisi sociologico del voto di febbraio.

Non riassumiamo l'articolo, perché ve lo proponiamo qui di seguito. Interveniamo direttamente sulla lettura dei dati.

La “scossa” è stata davvero violenta e segnata da un rifiuto della classe politica fin qui dominante, delle sue pratiche, del suo cinismo. Lo sforzo di creare un bipolarismo forzoso – sostenuto acriticamente anche da Repubblica – ha prodotto un ovvio risultato abnorme: l'impossibilità di distinguere davvero, sul piano dei programmi politici, i due schieramenti principali. Nella percezione popolare centrodestra e centrosinistra si differenziavano soltanto per gli scandali berlusconiani, contro cui il Pd cercava di rappresentare la “faccia seria” del far politica di governo. Anche qui Repubblica ha avuto un grande ruolo nella costruzione di un immaginario di centrosinistra svuotato di ogni contenuto concreto e popolato solo di “senso morale”. Frantumato defintivamente con lo scandalo MontePaschi.

Non può dunque stupire che grosse quote di entrambi gli schieramenti, abbindolate per anni con promesse elettorali regolarmente smentite alla prova di governo, abbiano colto esattamente questo (basso) livello di critica del malaffare politico come l'unico problema del paese, quello che “impedisce” uno sviluppo economico e sociale. Del resto, se il sistema economico (il capitalismo) è descritto come esente da pecche strutturali, se le crisi sono sempre descritte come effetto di “devizioni” dalla leggi di mercato e ruberie individuali (delle banche, dei politici, delle mafie, ecc), è una conseguenza necessaria che sei anni di peggioramento costante delle condizioni e delle aspettative di vita debbano trovare una spiegazione semplice quanto deviante: c'è qualcuno che ruba e sono i politici.

Che i politici facciano da sempre un uso disinvolto del denaro pubblico, è certo. Ma la quantificazione di queste ruberie, degli “sprechi”, anche nei calcoli più arcigni e malevoli, difficilmente raggiunge il 2% del prodotto interno lordo (che viaggia, in Italia, intorno ai 1.500 miliardi annui). Un po' poco per “spiegare” la crisi, anche se decisamente troppo per una classe che non è affatto “dirigente”, priva com'è – da oltre venti anni - di qualsiasi velleità “dirigente” o “dirigista”. E che si è distinta soltanto per la supina acquiescenza alle direttive europee, col brillante risultato di smontare la proprietà pubblica di industrie strategiche e banche, mentre i competitor principali – Germania, Francia e Gran Bretagna – se ne guardavano bene.

Comunque sia, il “rifiuto della politica” ha inevitabilmente preso la scorciatoia classica: “sono tutti uguali”. E a beneficiarne è stato il Movimento 5 Stelle.

Contrariamente a quanto Diamanti scrive, però, il grillismo non ha affatto una “base sociale” o territoriale definita. Anzi, proprio l'indeterminatezza del messaggio “costruttivo” (i 20 punti del programma) e l'ossessiva semplicità di quello “distruttivo” (“mandiamoli tutti a casa”) è stata fin qui la chiave della resistibile ascesa di Beppe Grillo & co. Un dispositivo comunicativo che è pensato per “sciogliere” quallsiasi legame collettivo, lavorativo, territoriale; che si rivolge all'indiciduo “semplice”, prima di qualsaisi altra determinazione concreta, sociale, storica. Si rivolge insomma al “consumatore frustrato”, costretto a fare un acquisto (anche elettorale) ma perseguitato dal sospetto che ci sia una fregatura.

In questo non c'è alcuna somiglianza con l'interclassismo della Democrazia Cristiana, che invece riconosceva le differenze “di classe” ma le “ricomponeva” all'interno di un quadro sistemico ed ideologico in cui ad ognuna veniva riconosciuto un ruolo, una funzione, un'adeguata retribuzione.

Per questo, dunque, l'ideologia grillina ha una grande potenza semplificatrice e quindi nessuna potenzialità “costruttiva”. Il M5S "raccoglie" uno stato d'animo, ma non rappresenta ceti e classi. Ha più punti di contatto con una visione "tecnica" del funzionamento della società (per quanto illusoria) che non con una visione critico-politica.

E risulta quindi paradossale – ancorché “renziano” - il suggerimento di Diamanti al Pd: “cambiare” per diventare più simile a Grillo

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