Non
è una scossa isolata e occasionale. Le recenti elezioni segnano,
invece, una svolta violenta. Che modifica profondamente i confini fra
politica, società e territorio. Segno del cambiamento è, soprattutto, il
voto al M5S.
Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica:
1) la prima colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”.
2) la seconda afferisce alla struttura sociale ed economica del voto, crisi esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento.
L’identità sociale – per non dire di “classe” – delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata : il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo”, e anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” la base. Entrambi sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità.
Il quale ha canalizzato gli effetti di due crisi, enfatizzate, a loro volta, dalla crisi economica:
1) la prima colpisce il legame con il territorio. È resa evidente dallo “sradicamento” dei partiti principali nello loro zone “tradizionali”.
2) la seconda afferisce alla struttura sociale ed economica del voto, crisi esplosa alle recenti elezioni, dopo una lunga incubazione. Centrosinistra e centrodestra hanno perduto la loro base sociale di riferimento.
L’identità sociale – per non dire di “classe” – delle principali forze politiche risulta sensibilmente ridimensionata : il centrodestra “popolare” ha perduto il suo “popolo”, e anche il centrosinistra e la sinistra si sono “perduti” la base. Entrambi sono rimasti senza profilo. Cioè, senza identità.
Oggi in Italia i due principali partiti,
PdL e Pd, prevalgono, in particolare, tra le componenti “esterne” al
mercato del lavoro. Il PdL: fra le casalinghe (36%). Il Pd: fra i
pensionati (37%). Quelli che guardano la tivù…
Il M5S, invece, ha assunto una struttura sociale interclassista. Da partito di massa all’italiana.
Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica.
Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%).
Fra i “liberi professionisti” (31%) e fra gli studenti (29%) – dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”. Distribuito in tutto il territorio.
Come la Dc e il Pci della Prima Repubblica.
Primo fra gli imprenditori e i lavoratori autonomi, fra gli operai (40%), ma anche fra i disoccupati (43%).
Fra i “liberi professionisti” (31%) e fra gli studenti (29%) – dunque fra i giovani.
In più, ha un impianto territoriale “nazionale”. Distribuito in tutto il territorio.
Ciò induce a usare prudenza nel considerare il voto delle recenti elezioni come un evento violento, ma transitorio.
Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”.
Che è possibile riassorbire con strategie tradizionali. Attraverso grandi alleanze, tra vecchi e nuovi soggetti. Oppure integrando nell’area di governo gli “ultimi arrivati”.
Non è così.
Perché il retroterra stesso delle tradizionali forze politiche, dopo
una lunga erosione, è franato. Le stesse fratture politiche che hanno
improntato la Seconda – ma anche la Prima – Repubblica oggi non riescono
più a “dividere” e ad “aggregare” gli elettori.
Siamo entrati in un’altra Storia.
I partiti “tradizionali”, per affrontare la sfida del M5S, non
possono inseguirlo sul suo terreno. Blandirlo. Sperare di integrarlo.
Scommettere sulla sua dis-integrazione.
Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.
Al Pd, per primo. Non basta rinnovarsi, ringiovanire. Il Pd. Deve cambiare.
Ilvo Diamanti - la Repubblica
Analisi del voto e vecchi fantasmi
Le analisi di Ilvo Diamanti sono sempre interessanti, a volte illuminanti. Quasi sempre a dispetto delle sue interpretazioni, chiaramente volte a “suggerire” al Pd linee di comportamento politico peraltro sempre disattese.
È così anche stavolta, in
occasione di un'analisi sociologico del voto di febbraio.
Non riassumiamo l'articolo, perché ve lo proponiamo qui di seguito.
Interveniamo direttamente sulla lettura dei dati.
La “scossa” è stata davvero violenta e segnata da un rifiuto della classe
politica fin qui dominante, delle sue pratiche, del suo cinismo. Lo sforzo di
creare un bipolarismo forzoso – sostenuto acriticamente anche da Repubblica –
ha prodotto un ovvio risultato abnorme: l'impossibilità di distinguere davvero,
sul piano dei programmi politici, i due schieramenti principali. Nella
percezione popolare centrodestra e centrosinistra si differenziavano soltanto
per gli scandali berlusconiani, contro cui il Pd cercava di rappresentare la
“faccia seria” del far politica di governo. Anche qui Repubblica ha
avuto un grande ruolo nella costruzione di un immaginario di centrosinistra
svuotato di ogni contenuto concreto e popolato solo di “senso morale”.
Frantumato defintivamente con lo scandalo MontePaschi.
Non può dunque stupire che grosse quote di entrambi gli schieramenti,
abbindolate per anni con promesse elettorali regolarmente smentite alla prova
di governo, abbiano colto esattamente questo (basso) livello di critica del
malaffare politico come l'unico problema del paese, quello che “impedisce”
uno sviluppo economico e sociale. Del resto, se il sistema economico (il
capitalismo) è descritto come esente da pecche strutturali, se le crisi sono
sempre descritte come effetto di “devizioni” dalla leggi di mercato e ruberie
individuali (delle banche, dei politici, delle mafie, ecc), è una conseguenza
necessaria che sei anni di peggioramento costante delle condizioni e delle
aspettative di vita debbano trovare una spiegazione semplice quanto deviante: c'è qualcuno
che ruba e sono i politici.
Che i politici facciano da sempre un uso disinvolto del denaro pubblico, è
certo. Ma la quantificazione di queste ruberie, degli “sprechi”, anche nei
calcoli più arcigni e malevoli, difficilmente raggiunge il 2% del prodotto
interno lordo (che viaggia, in Italia, intorno ai 1.500 miliardi annui). Un po'
poco per “spiegare” la crisi, anche se decisamente troppo per una classe che
non è affatto “dirigente”, priva com'è – da oltre venti anni - di qualsiasi
velleità “dirigente” o “dirigista”. E che si è distinta soltanto per la supina
acquiescenza alle direttive europee, col brillante risultato di smontare la
proprietà pubblica di industrie strategiche e banche, mentre i competitor
principali – Germania, Francia e Gran Bretagna – se ne guardavano bene.
Comunque sia, il “rifiuto della politica” ha inevitabilmente preso la
scorciatoia classica: “sono tutti uguali”. E a beneficiarne è stato il
Movimento 5 Stelle.
Contrariamente a quanto Diamanti scrive, però, il grillismo non ha affatto una
“base sociale” o territoriale definita. Anzi, proprio l'indeterminatezza del
messaggio “costruttivo” (i 20 punti del programma) e l'ossessiva semplicità di
quello “distruttivo” (“mandiamoli tutti a casa”) è stata fin qui la chiave
della resistibile ascesa di Beppe Grillo & co. Un dispositivo comunicativo
che è pensato per “sciogliere” quallsiasi legame collettivo, lavorativo,
territoriale; che si rivolge all'indiciduo “semplice”, prima di qualsaisi altra
determinazione concreta, sociale, storica. Si rivolge insomma al “consumatore
frustrato”, costretto a fare un acquisto (anche elettorale) ma perseguitato dal
sospetto che ci sia una fregatura.
In questo non c'è alcuna somiglianza con l'interclassismo della Democrazia
Cristiana, che invece riconosceva le differenze “di classe” ma le “ricomponeva”
all'interno di un quadro sistemico ed ideologico in cui ad ognuna veniva
riconosciuto un ruolo, una funzione, un'adeguata retribuzione.
Per questo, dunque, l'ideologia grillina ha una grande potenza semplificatrice
e quindi nessuna potenzialità “costruttiva”. Il M5S "raccoglie" uno
stato d'animo, ma non rappresenta ceti e classi. Ha più punti di
contatto con una visione "tecnica" del funzionamento della società
(per quanto illusoria) che non con una visione critico-politica.
E risulta quindi paradossale – ancorché “renziano” - il suggerimento di
Diamanti al Pd: “cambiare” per diventare più simile a Grillo
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