“L’Italia rappresenta una
anomalia in Europa.
È il Pd di
centro-sinistra il più ansioso di applicare l’austerità fiscale
imposta dalla Commissione Europea e dalla Germania,mentre il
Pdl di centro destra è felice di ignorare il
tetto al deficit…”
The Economist, 29 giugno 2013
1. Premessa: la tattica non è tatticismo
Il congresso di un partito
comunista rappresenta il momento più alto di discussione e di creatività di
pensiero della comunità politica di donne e uomini che lo compone. Eppure,
troppe volte i nostri congressi si sono caratterizzati per dibattiti rituali. I
veri temi e le divisioni politiche sono rimasti sottaciuti o sullo sfondo, mentre
il confronto si incentrava sulla composizione degli organismi dirigenti. Per
questa ragione, i documenti congressuali hanno
avuto spesso la tendenza a non entrare o a rimanere sul generico su questioni di
decisiva importanza. Questo modo di procedere, oltre a non favorire la crescita
del partito, ha prodotto una linea incerta e contraddittoria, contribuendo alla
grave crisi in cui ci troviamo. È, invece, molto importante riuscire a definire
l’analisi della realtà e la linea politica che se fa derivare in termini quanto
più chiari sia possibile.
Uno degli aspetti sui quali è
necessario fare maggiormente chiarezza è quello delle alleanze e del posizionamento
che il partito deve assumere sul terreno dello scontro di classe. Entrambi
questi temi sono stati, però, trattati spesso
come una mera questione di tattica. Secondo alcuni, scegliere il posizionamento
o le alleanze politiche del partito è una questione da non definire, in quanto
dipenderebbe dal momento. In sostanza, si preferisce
lasciarsi le mani libere, in modo da poter decidere a seconda del mutare degli
eventi.
In questo modo di pensare ci
sono due difetti. Il primo sta nel fatto che la tattica viene confusa con il tatticismo.
Ciò significa che, se è pur vero che l’azione tattica deve potersi adattare
all’evoluzione della situazione, non è per questo vero che non debba essere
definita, almeno in riferimento ad un certo periodo e nei principi di fondo,
sulla base dell’analisi, per l’appunto, della situazione. In caso contrario, si
consegna l’iniziativa alle altre forze
politiche e ci si condanna ad agire sempre di rimessa sulle iniziative degli
altri e quindi alla subalternità. Il
secondo difetto sta nel fatto di ritenere la tattica come qualcosa di staccato
dalla strategia. Al contrario, la
tattica deve discendere dalla strategia ed essere coerente con essa. Non si può
dire una cosa e agire diversamente nella pratica. In questo modo, si crea
confusione e disorientamento all’interno delle proprie fila e soprattutto fra
la classe lavoratrice, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Infine, se è vero che la tattica è legata al contingente, la politica delle
alleanze e soprattutto il posizionamento del partito nel contesto politico
sono, in parte non indifferente, non contingenti. Infatti, attengono a
valutazioni di fondo sul rapporto intercorrente tra i partiti, le classi e la
fase economico-politica. Per questa ragione, come vedremo meglio alla fine,
assumono il carattere di questioni strategiche.
La mia opinione è che il
documento licenziato dalla Commissione politica per il Congresso straordinario 2013
del PdCI, pur mostrando un tentativo di superare i limiti dei precedenti
documenti, non riesca a farlo sufficientemente su alcuni punti
decisivi. Viceversa, a mio parere, danno un contributo importante a compensare
i limiti del documento gli emendamenti sostitutivi alle tesi 24 e 30 e quello
aggiuntivo (1bis), presentati dal compagno Nobile e firmati da diversi membri
del Comitato Centrale.
2. Un’analisi delle classi
e della fase insufficiente
Da parte degli estensori del
documento si prova a definire una analisi dei partiti politici italiani
principali, che in precedenza era mancata. Tuttavia, questa analisi è ancora
parziale e presenta dei forti limiti. Tali limiti dipendono anche dalla
mancanza, se non per qualche rapido riferimento, di una analisi delle classi
sociali e da una analisi insufficiente e non sempre coerente della fase storica
– caratterizzata dalla mondializzazione e dalla crisi di sovrapproduzione
assoluta di capitale - che sta attraversando l’Europa e il modo di produzione capitalistico
nel suo complesso. Gli esiti disastrosi del processo di unità europea non sono
effetti di una sua gestione sbagliata, basata su politiche “irrazionali” e
sull’egemonia tedesca. Ciò ovviamente non significa che le politiche di
austerity non siano sbagliate e che la Germania non abbia approfittato
dell’euro come leva competitiva contro gli altri Paesi. Il punto, però, è che è
il processo di unità europea è nato specificatamente allo scopo di sconfiggere
il movimento operaio europeo, bypassando i parlamenti nazionali e vincolando le
decisioni nazionali ad una autorità sovrannazionale. L’area euro non è una area
valutaria ottimale, e l’euro è, in sé stesso, un potente strumento di
deflazione salariale. Del resto, la stessa classe salariata tedesca è stata la prima
a pagare l’introduzione dell’euro in termini di caduta del potere d’acquisto
dei salari e con una controriforma del mercato del lavoro, diventata un modello
anche per gli altri Paesi.
Il processo di unificazione
europea, in particolare quella valutaria, e le politiche che ne conseguono sono spiegabili, in primo luogo, con
la volontà da parte della borghesia europea di gestire la crisi di sovrapproduzione
assoluta di capitale, che si manifesta in Europa in forma più accentuata che
altrove, con il taglio dei salario diretto, e
soprattutto differito (pensioni) e indiretto (welfare), in modo da favorire il
rialzo del profitti e costruire economie
basate sull’export di capitali e merci. Il martellare della Confindustria e dei governi sulla riduzione del
costo del lavoro, cioè delle contribuzioni aziendali al welfare, va in questo
senso.
È, quindi, abbastanza curioso
che nel documento congressuale si sposi, con una formulazione ambigua, la riduzione del costo del lavoro
(Tesi n.16), mentre è semma di una ridefinizione dell’Irpef che bisognerebbe parlare.
Necessariamente collegata alla
controriforma del mercato del lavoro e del welfare è la controriforma del sistema politico-istituzionale,
a partire dalla controriforma della Costituzione. Ma c’è un’altra questione decisiva,
perché di carattere strutturale. Nel documento non si colgono né la natura né
soprattutto le implicazioni delle trasformazioni del modo di produzione
capitalistico negli ultimi decenni. Il capitale è diventato prima
multinazionale, nel senso che la dimensione degli investimenti all’estero delle
imprese è diventata prevalente, e poi
transnazionale, nel senso che la stessa proprietà dei capitali è diventata multinazionale.
Si è così creata una classe capitalistica transnazionale che basa la sua forza
sulla forte integrazione sovrannazionale,
soprattutto su base europeo-occidentale e atlantica. Questa classe è il livello apicale della classe borghese ed
è egemone sul piano economico, politico e culturale.
Il processo di unificazione
europea è espressione di queste tendenze del capitale, determinando una situazione certo estremamente
complessa ma in cui vanno distinte le contraddizioni principali da quelle secondarie. Infatti, se la forma
in cui le contraddizioni europee si esprimono è nazionale, la sostanza è di classe. Dunque, la questione
centrale, per noi, non è soltanto e soprattutto il recupero della sovranità nazionale, quanto il recupero
dell’agibilità e dell’autonomia politica della classe dei salariati sul piano nazionale ed europeo. Inoltre,
il problema non sta tanto nel definire le modalità tecniche di uscita
dall’euro, quanto soprattutto
nell’individuare, sul piano politico, l’unione valutaria europea come obiettivo
centrale del contro-attacco della classe lavoratrice. Infatti, l’euro è il
“cavallo di Troia” che ha forzato la resistenza delle classe lavoratrici
nazionali e senza di esso tale attacco verrebbe fortemente indebolito. Parlare
di lotta all’austerity, di rinegoziazione
dei trattati europei, e di reintroduzione del pubblico nell’economia senza risolvere il nodo del ruolo dell’euro è politicamente
debole.
3. Una analisi del Pd e del Pdl carente
Come detto, l’analisi dei
partiti politici è carente. A Berlusconi ed al centro-destra viene riservata
l’analisi più ampia (Tesi 22). Entrambi
vengono presentati come una “anomalia” rispetto alla destra europea, per il carattere mafioso, piduista e
fascistoide, che ha scatenato un riflesso da “fronte democratico” senza, si riconosce, che questo abbia
condotto ad una reale alternatività programmatica. Infine, Berlusconi, il Pdl e
la Lega sono individuati come
rappresentanti del settore più arretrato del capitale italiano: “Ma quello che ancora va denunciato è il
carattere regressivo della proposta economico-sociale della destra, non solo
perché rappresenta la parte più antipopolare ed antioperaia della politica
italiana, ma
per la rappresentanza di
interessi
contrari ad uno sviluppo industriale e produttivo del paese di tipo moderno e
avanzato, fondato
sulla
ricerca, l'innovazione e sul vero rischio di impresa.” La destra, è detto, si
caratterizza per “l’elogio sperticato dell’iniziativa individuale” ed è
“anti-statalista radicale”. Anche l’accentuarsi della spaccatura del Paese tra
Nord e Sud viene imputata a Berlusconi e alla Lega, così come le controriforme
costituzionali ed il federalismo.
Dall’altro lato, al Pd vengono dedicate
appena poche righe (Tesi 24), sebbene alcune valutazioni siano espresse anche altrove (Tesi
21). Il giudizio sul Pd è abbastanza contraddittorio. La relazione del Pd con i “poteri forti” (un termine
ambiguo che andrebbe abbandonato) viene definita come “subalternità” che appare
essere dettata, da una parte, da incapacità, persino da “autolesionismo” (come
nel caso dell’accettazione del governo Monti) e, dall’altra, dal fatto che al
suo interno “una parte crescente è vincolata in modo sempre più organico [a
quei poteri forti].” (Tesi 21) Più precisamente, secondo gli estensori del
documento, il Pd, solo dopo la sconfitta di Bersani, si è legato organicamente
ai poteri forti: “Dopo la sconfitta di Bersani, settori rilevanti del gruppo
dirigente del Pd fanno ormai parte in modo sempre più organico del blocco
moderato e centrista, sia a livello nazionale che euro-atlantico.” (Tesi 24)
L’adesione alle politiche europeiste non sarebbe dettata da una scelta
consapevole politica o da una concezione ideologica, ma dal solito “autolesionismo”
del Pd. Di fatto, l’analisi delle due forze politiche non è molto cambiata
rispetto al passato: Berlusconi rimane il <> mentre
il Pd, al peggio, fa la figura di una congrega di ingenui o di incapaci, i cui
dirigenti paiono meritevoli di un ciclo di terapia di gruppo.
Se andiamo alla sostanza delle
cose, osservando i fatti degli ultimi 20 anni, ci accorgiamo che le cose non stanno esattamente in questo
modo. L’organicità del Pd al progetto di ristrutturazione del capitale non data alla sconfitta di Bersani del
2013 e neanche al governo Monti, ma a molto prima. È dagli anni ’90 che il Pds-Ds-Pd si fa interprete fedele
delle linee-guida della ristrutturazione economica e politica che attraversa l’Europa. Sono dovute a questo
partito: l’introduzione del maggioritario e del bipolarismo all’anglosassone, che rispecchia l’adesione al
principio della “governabilità” e la subordinazione del Parlamento al governo;
la prima controriforma del mercato
del lavoro con il pacchetto Treu, che ha aperto la strada alle successive controriforme; l’allineamento
costante agli indirizzi atlantici, che ha raggiunto il suo picco con i bombardamenti sulla Serbia del
governo D’Alema; e la ridefinizione del modello di difesa italiano, basato sull’aumento delle spese miliari
(più del governo Berlusconi) e sulle operazioni belliche “fuori area”. Inoltre, a proposito di iniziativa
individuale e anti-statalismo radicale, dovremmo ricordare che le
privatizzazioni, che hanno consegnato le imprese
statali ai grandi gruppi italiani e stranieri, sono state effettuate quasi
tutte dai governi di centro-sinistra e la madre di tutte le privatizzazioni,
quella di Telecom, dal solito D’Alema.
Inoltre, l’attacco alla
Costituzione (e alla Resistenza) è stato iniziato dal Pds e la modifica del
Titolo V è passata con l’avallo dei Ds.
Soprattutto, il Pds-Ds-Pd è stato in Italia il più fedele fautore del processo
di unificazione europeo, in
particolare di quello valutario, e del rispetto dei trattati e dei vincoli che
ne sono derivati.
Le decisioni del Pd non possono
essere considerate “autolesionismo”, bensì sono una dimostrazione di coerenza con una linea-guida
strategica precisa, che fa capo a scelte di classe e ad un impianto ideologico precisi le cui basi sono state
poste con la fondazione del Pds. Per molti anni l’antiberlusconismo ha offerto un comodo alibi al Pds-Ds-Pd,
permettendogli di portare avanti la sua linea politica antipopolare. Del resto, tutte le volte che ne avrebbe
avuto la possibilità non ha mai affondato il colpo su Berlusconi, per
preservare il bipolarismo che, con la
trasformazione in Pd, ha tentato di trasformare in bipartitismo. Di fatto, al
di là delle parole di fuoco che si
sono scambiati, il Pds-Ds-Pd e Forza Italia-Pdl hanno condiviso una linea bipartisan sulle questioni decisive per
decine di milioni di lavoratori. La conferma definitiva di quanto diciamo si è avuta, prima, con
la partecipazione dei due partiti al governo Monti, voluto fortemente dal capitale europeo e italiano, che
ha visto il Pd compartecipe delle misure più antipopolari degli ultimi cinquanta anni, tra cui
l’aumento dell’età pensionabile, la controriforma Fornero (difesa recentemente
dal “socialdemocratico” Barca, già
ministro di Monti) e soprattutto l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione. E, in forma più
“pura”, nel governo Letta-Alfano delle “larghe intese”, cui non ha avuto scrupolo di partecipare neanche
l’ala cosiddetta “socialdemocratica”, come dimostra l’incarico di viceministro dell’economia di
Fassina, uno dei maggiori sostenitori del rispetto dei vincoli di bilancio europei.
Un ulteriore aspetto da
considerare, per spiegare la natura di classe di Pd e Pdl, è la composizione
della classe capitalistica in Italia.
Al suo interno lo scontro è stato sempre particolarmente feroce, salvo poi accordarsi, da bravi “fratelli
nemici” contro i lavoratori. Fino ad oggi, il settore del capitale più
importante era quello costituito dalla
cosiddetta “Galassia del Nord”, i componenti del patto di sindacato di
Rcs-Corriere della Sera. Attorno a Mediobanca si raccoglievano i principali
gruppi italiani, tra i quali Fiat, Assicurazioni Generali, Pirelli, Banca
Intesa, Unicredit, legati da partecipazioni azionarie intrecciate tra di loro e
con il capitale transnazionale di cui sono parte organica. Sebbene sia un
capitalista multinazionale, Berlusconi è sempre stato considerato un outsider dal “salotto buono” del
capitale, anche se pochi anni fa è riuscito ad entrare nel patto di sindacato
di Mediobanca. I suoi rapporti con il settore dominante del capitale italiano,
e di conseguenza con quello transnazionale europeo e Usa, sono stati quasi
sempre conflittuali, come dimostrano gli attacchi costanti di The Economist,
nel cui consiglio d’amministrazione siede John Elkann, che fa parte anche del
gruppo Murdoch, principale concorrente di Berlusconi, e sta ora acquisendo il controllo
di Rcs-Corriere della Sera. La defenestrazione, a fine 2011, di Berlusconi,
ritenuto non più adatto a garantire il mantenimento del processo europeo, è
avvenuta proprio sulla spinta del capitale transnazionale, che ha trovato e
continua a trovare in Napolitano un punto di riferimento importante.
Il capitale transnazionale e i
suoi esponenti in Italia appaiono molto più vicini al Pd e al centro-sinistra,
per la linea di politica economica generale ed europeista che questo porta
avanti. Tanto che Bersani ha beneficiato alle ultime elezioni dell’endorsement di The Economist, oltre che del
Corriere della Sera, mentre sono gli uomini di punta del centro-sinistra ad
essere sempre stati presenti ai forum del capitale transnazionale come il
Bilderberg e la Trilaterale, da Romano Prodi a Padoa-Schioppa, a Marta Dassù a
Enrico Letta. Soprattutto questo settore del capitale è caratterizzato, come
del resto tutto il settore transnazionale, dal monopolio e dall’oligopolio,
nonché dalla spiccata finanziarizzazione. Quindi, risulta molto difficile
attribuire caratteristiche di parassitismo e putrefazione, come l’avversione
all’innovazione, al rischio d’impresa e alla libera concorrenza, unicamente al
blocco sociale di centro-destra come fa il documento congressuale. In effetti,
la linea di politica economica del Pd, fatta di privatizzazioni, deregolamentazioni
e liberalizzazioni, ha contribuito fortemente a ricondurci ad una economia
dominata, come nell’immediato dopoguerra, da poche grandi holding italiane e
straniere, corresponsabili della stagnazione dell’economia nazionale. Inoltre, a
voler sottilizzare, del blocco sociale di centro-destra, per sua natura molto
composito, hanno fatto parte anche settori industriali di piccola, media e
grande impresa, non monopolistici e non oligopolistici e certamente non più
chiusi alla concorrenza delle banche e delle corporation transnazionali, e i
settori sopravvissuti delle partecipazioni statali, da Finmeccanica, all’Eni,
all’Enel, che rappresentano la gran parte dell’investimento in ricerca e
sviluppo italiano. Il fallimento del Pdl e soprattutto della Lega sono da collegarsi alla loro incapacità di difendere soprattutto i
settori piccolo e medio borghesi dal capitale transnazionale
e monopolistico.
Con questo
naturalmente non vogliamo dire che la pericolosità del blocco sociale
berlusconiano sia da sottovalutare, ma
che non è possibile effettuare, dal punto di vista della classe lavoratrice e
in questa fase storica, una
distinzione tra i due principali partiti. Del resto, il fallimento del
bipolarismo e del bipartitismo, testimoniato dal
crollo dei voti assoluti di entrambi (sottolineo entrambi) i partiti e dal
crescente astensionismo,
soprattutto di settori del lavoro salariato e della piccola borghesia, dimostra
quanto la percezione di massa
si sia adeguata a questo dato di fatto molto più rapidamente della nostra
capacità d’analisi.
Quando si analizza
un partito, come insegnava Gramsci, bisogna distinguere la “base di classe”,
cioè la classe di cui è
organica espressione, dalla “base di massa”, ovvero il bacino di consenso.
Ebbene, se osserviamo
oggettivamente la condotta del Pd dell’ultimo ventennio, il gruppo dirigente
del Pd nel suo insieme - e non in “una
parte” o in “settori rilevanti del gruppo dirigente” - è espressione organica
degli
interessi di un
settore del capitale, quello transnazionale e monopolistico. Al contempo, la
sua presenza tra la classe operaia e tra il lavoro dipendente privato è
drasticamente diminuita fino a raggiungere livelli uguali o inferiori a quelli
del Pdl.1 Per di più, essendo il settore transnazionale quello apicale e
dominante, e con spiccate caratteristiche imperialiste, è tutt’altro che il
settore del capitale meno pericoloso e aggressivo. Dunque, non è possibile
pensare ad una alleanza, per quanto tattica possa essere, con questo settore
né, dunque, con un partito che ne sia espressione organica.
4. Un orizzonte
strategico fuori dal centro-sinistra, per un Fronte unito di sinistra
Lo scontro politico,
con la scomparsa del Pci e in genere dei partiti di massa, è diventato sempre
di più uno scontro tra élite
organizzate che hanno i mezzi economici, ideologici e comunicativi per
contendersi il voto di maggioranze
disorganizzate. Tuttavia, i grandi partiti non sono destinati a scomparire, ma
a modificarsi, perché le minoranze
capitalistiche continuano ad avere bisogno dei grandi partiti per affermare il
proprio potere. Infatti, il
vero dato nuovo è l’integrazione e l’interconnessione tra il personale politico
e il personale economico. La vera
corruzione non è quella descritta dalla vulgata sulla “casta”, personificata da
Fiorito, il “Batman” di Anagni,
ma una corruzione più raffinata, basata sulla commistione e integrazione
sistematica tra vertici economici e
vertici politico-burocratico-istituzionali.2 È del tutto evidente
che è tale commistione l’origine del
funzionamento non democratico e dell’inesistenza di un dibattito reale
all’interno dei partiti principali, in cui
il vertice deve poter dominare sulla base. Così come è evidente che lo
scollamento con la maggior parte del
corpo elettorale dipende soprattutto dall’adesione di questi partiti alla linea
del capitale transnazionale. Di
fatto, il sistema istituzionale ed elettorale, e con esso i partiti, è stato
trasformato in un sistema in cui le
forze politiche debbano necessariamente convergere al “centro”, che in effetti
non è un vero centro moderato, come si insiste a dire, ma una posizione di
destra effettiva, basata su principi e linee-guida espressione dell’egemonia
del capitale transnazionale.
Il punto che ci
riguarda più da vicino è che le forze di sinistra più piccole sono state
trascinate anch’esse da questo movimento
centripeto a causa della adesione a forme di alleanza con il Pds-Ds-Pd che le
hanno rese o compartecipi o
passivi spettatori del processo di ristrutturazione, alienandole dal loro
elettorato storico e potenziale. In
realtà, non sostengo che una alleanza di questo tipo sia sempre stata priva di
senso. Il punto è che i piccoli partiti non sono stati capaci di stare dentro
tale alleanza e soprattutto di sfruttare le contraddizioni dell’avversario di classe, cioè lo scontro
senza esclusioni di colpi tra Berlusconi ed il suo blocco sociale e i settori di
grande capitale transnazionale. Al contrario, è stato l’avversario a sfruttare
e ad operare divisioni nel nostro
campo. L’antiberlusconismo - insieme al ritenere che il vero problema per l’Italia fosse il
“berlusconismo” invece che una ristrutturazione capitalistica che andava ben
oltre - ha inibito quella capacità di manovra e di
ricatto che i piccoli partiti politici devono e possono utilizzare. Un esempio di tutti questi tipi di errori
si ha quando il Prc fece cadere il governo Prodi I nel momento sbagliato,
mentre il Pdci commise l’errore di rimanere nel governo D’Alema, che successe
al Prodi I, nonostante la partecipazione ai bombardamenti Nato.
Con il passare degli anni il
processo di ristrutturazione e soprattutto il processo di unificazione
monetaria hanno ridotto i margini di
mediazione tra le classi rendendo la nostra presenza nelle compagini
governative sempre più superflua e fattore
di discredito agli occhi delle masse, che vedevano le loro condizioni peggiorare progressivamente.
Personalmente sono convinto che una uscita ben motivata dal Prodi II in tempi utili
ci avrebbe permesso di limitare i danni e di porre le premesse per un rilancio.
Ma ciò non è avvenuto: il governo è caduto per mani di altri ed alle elezioni
successive siamo spariti dal Parlamento e, cosa più importante, dalla società.
A chi dice che la nostra decadenza ha origine più antica e che i nostri
problemi sono più strutturali, dall’aver trascurato il marxismo,
all’insufficienza organizzativa, al mancato radicamento, al sistema elettorale,
dico che ha ragione. Ma aggiungo che questi limiti vengono esaltati o
dipendono, in ultima istanza, dalla nostra vera debolezza: la mancanza di una
vera autonomia ideologica e politica. Una carenza che ci ha impedito di
prendere le decisioni giuste e ci ha tenuti attaccati alla barca del
centro-sinistra che stava affondando. Prima della scissione del ’98 il Prc
veniva dato in ascesa ad oltre il 10% dell’elettorato, mentre alle
elezioni del 2006, subito prima della partecipazione al governo Prodi II, la
sinistra (Pdci, Prc e vedi) vantava un 12%. È un caso, mi chiedo, se, dopo due
anni di governo, siamo precipitati al 3% con circa tre milioni di voti in meno?
Il punto è che la nostra partecipazione ai governi di centro-sinistra non ha
consentito neanche di frenare i processi di ristrutturazione.
A chi invece dice che, malgrado
siamo andati da soli, successivamente i risultati non sono migliorati, è facile rispondere che, se siamo andati
soli, non è stato per una nostra scelta coerente, in base ad un progetto strategico, ma è solamente
perché il Pd ha rifiutato pervicacemente qualsiasi alleanza con noi. Una scelta
di nuovo non dovuta
all’autolesionismo ma al posizionamento politico e di classe del Pd. Di fronte
a una tale ostinazione, ripetutasi anche a livello
comunale, andare dal Pd a chiedere insistentemente una alleanza, senza porre
delle serie condizioni programmatiche e partecipando finanche alle primarie,
per essere poi messi alla porta, è stato un evidente fattore di scoraggiamento
e di disorientamento per i nostri militanti e per ciò che rimane del nostro
elettorato, per non parlare di quei settori di classe che dovremmo
intercettare. Infine, a chi
dice che la questione delle
alleanze è, in definitiva, secondaria, perché l’importante è accumulare riserve strategiche, ricostruire e
radicare il partito, mi permetto di chiedere, visto che è con i lavoratori e i
giovani che bisogna ricostruire riserve
e partito, come è possibile presentarsi davanti ad una fabbrica o davanti ad una scuola senza una vera e
definita linea politica o con una linea politica già dimostratasi inefficace? E senza politica delle alleanze e
senza posizionamento quale linea può esistere? O forse dobbiamo far premio soltanto sulla propaganda e
sulla nostra identità di comunisti?
La non soluzione o la soluzione
errata della questione delle alleanze e del posizionamento politico è una delle ragioni principali, anche
se derivata da altre arretratezze ideologiche e di base, per cui versiamo in
una crisi gravissima. Ciò che ci ha
sempre caratterizzato rispetto a queste tematiche è stata la genericità, che sottende ad una sorta di delega
al gruppo dirigente apicale a stabilire di volta in volta il rapporto con gli
altri partiti e che ha provocato
l’orientamento ondivago di cui si è detto sopra. Purtroppo, anche questa volta
il risultato finale è questo.
Infatti, nel documento congressuale si dice: “Il “centro-sinistra”, almeno così
come lo abbiamo conosciuto finora,
non c'è più. Il nostro orientamento deve dunque concentrarsi sulla costruzione di
uno schieramento unitario a sinistra, con un programma avanzato, che poi valuterà
autonomamente come
rapportarsi
alle contraddizioni interne e all'evoluzione di altre forze.” (tesi 24) Quindi, ancora una
volta la decisione è rimandata a dopo, subordinata
all’evoluzione delle altre forze. Più avanti si parla di un fronte che comprenda anche “soggettività progressiste del Pd” (Tesi
25), e di un “fronte democratico e progressivo” (Tesi
31), su “un programma di transizione per uno sbocco democratico-progressivo
alla crisi.” (Tesi 27).
L’impressione è che
ci si lasci aperta la possibilità di far rientrare dalla finestra quello che
era stato fatto uscire dalla porta.
L’orientamento che
vede il posizionamento strategico del partito all’interno del centro-sinistra
non sembra tramontato. In
questo senso, ha il merito della chiarezza la compagna Palermi, che ha
contribuito alla stesura del documento congressuale e che scrive così in un suo
recentissimo articolo: “Il Pd non paga il governo delle larghe intese. E, se
guardiamo bene, una ragione c’è. Ovunque, alle amministrative (a meno che non
mi sfugga qualcosa), il Pd si è presentato come centrosinistra, e cioè come
l’unica alternativa possibile a fronte della crisi e di una destra
territorialmente incapace e corrotta. Se una richiesta sembra venire da queste elezioni, mi
pare sia quella di una rifondazione del centrosinistra.”3 In realtà, il Pd,
come il Pdl, paga salatissimo il governo delle “larghe intese”: alle comunali,
nei primi 16 comuni capoluogo, il Pd perde, rispetto alle politiche di pochi
mesi prima, il 39% dei voti assoluti, mentre il Pd ne perde il 40%. A Roma, rispetto
alle comunali 2008, il Pd perde la metà dei voti assoluti (da 530mila a 267mila
voti). Se il Pd prevale sul Pdl è per le caratteristiche specifiche della
competizione amministrativa (ininfluenza delle figure carismatiche come
Berlusconi, migliore organizzazione sul territorio, e soprattutto il carattere
fortemente maggioritario
dell’elezione del sindaco).4 Di certo, se una indicazione viene da queste elezioni non è certo quella della
rifondazione del centro-sinistra, ma l’alienazione dei cittadini più poveri dal
sistema politico, testimoniato da un
tasso d’astensionismo enorme (25% alle politiche, 46% alle comunali nel primo
turno).
Tale scollamento è
determinato proprio dalla natura bipartisan, sulle questioni di
fondo, delle scelte politiche, che
vengono assunte da centro-sinistra e centro-destra. La disoccupazione di massa,
il ritorno della povertà assoluta, lo
smantellamento delle reti di protezione sociale spingono milioni di lavoratori, marginalizzandoli
dalla vita sociale, anche alla marginalità politica. Nostro compito è
recuperare questi settori alla
politica, ma, per farlo, dobbiamo recuperare credibilità, cambiando proposta e
posizionamento.
Forse l’elemento più
importante di cui non c’è consapevolezza piena è che la crisi economica che
stiamo attraversando è una
crisi epocale, che da la spinta finale al completamento del ciclo di
ridefinizione della struttura dei
rapporti tra le classi sia a livello produttivo che dello Stato, iniziato con
il tatcherismo. L’intero contesto politico ed
istituzionale in cui ha luogo il conflitto di classe ne esce stravolto.
Proporre in tale mutato contesto
formule politiche che già nel passato hanno dato risultati negativi è ancora
più sbagliato.
Qui, non si tratta
di purezza ideologica o di difesa dell’identità comunista. Si tratta di fare
politica, politica vera con una
strategia e una tattica definite e adeguate. Il fatto è che non è possibile né
ci sono le condizioni politiche e
programmatiche, sul piano nazionale, per riproporre alcun centro-sinistra, né è
possibile pensare ad un fronte
democratico-progressista che coinvolga il Pd. Pensare ad un fronte democratico
con chi ha sistematicamente
smantellato la democrazia e la Costituzione e si fa paladino della
governabilità come valore assoluto e
sostenitore dello “stato d’eccezione”, che limita le prerogative del Parlamento
a garanzia dei mercati finanziari,
è un non senso. Così come è poco credibile pensare ad un programma
democraticoprogressivo che permetta di
uscire dalla crisi e pretendere di rilanciare l’intervento pubblico
nell’economia senza sciogliere il
nodo dei vincoli europei e dell’euro. Un mancato scioglimento che,
evidentemente, avrebbe il dubbio
merito di non sollevare contraddizioni decisive con il Pd. Oggi la vera
“anomalia”, italiana, come rileva The
Economist, è la pervicacia con cui il Pd sostiene le politiche della
Commissione europea.
Si impone, quindi, la necessità
di un posizionamento strategico fuori dal centro-sinistra. Di conseguenza, sulla questione delle alleanze
vanno evitati equivoci ed ambiguità ed è bene che il Congresso su questo si esprima chiaramente. Il nostro
compito, oggi, è recuperare la credibilità persa dinanzi alle masse e per farlo dobbiamo fare tre cose: la
riunificazione dei comunisti, essere coerenti nella teoria e nella pratica, e
costruire un “Fronte unito di sinistra”,
con forze, anche diverse da noi ideologicamente, politicamente e socialmente, ma con in comune i veri punti
decisivi di questa fase sociale e politica.
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