La
crisi della democrazia italiana? Colpa della sinistra. Berlusconi? Solo
l'interprete. Renzi? Ciò che D'Alema ha sempre sognato di essere. Un
saggio politico e filosofico, che recupera la lotta di classe e va
all'attacco dei postmodernisti di destra e di sinistra
È uscito da qualche settimana per Imprimatur Democrazia Cercasi. Dalla
caduta del Muro a Renzi: sconfitta e mutazione della sinistra,
bonapartismo postmoderno e impotenza della filosofia in Italia di
Stefano G. Azzarà. Si tratta di un’analisi che cerca nella storia (e
negli errori) del Pci le radici del renzismo e che riabilita il percorso
politico e culturale del ’900. Con Azzarà, allievo di Domenico Losurdo e
profondo conoscitore di Nietzsche e del pensiero conservatore, abbiamo
parlato del suo lavoro concentrandoci sulla parte più politica, inerente
alla crisi della democrazia e della rappresentanza.
La crisi della
democrazia in Italia – a tuo giudizio – non avviene col “berlusconismo”,
anzi critichi la postura di chi ha gridato al fascismo durante gli anni
del suo Governo. Scrivi piuttosto che essa prende luogo tra il 1989 –
anno della caduta del Muro – e il 1993, quando in Italia prende piede il
sistema elettorale maggioritario. In che forme questo avviene e perché
il “berlusconismo” è stato solo un fenomeno successivo?
Democrazia moderna è
sinonimo di equilibrio relativo nei rapporti di forza politico-sociali.
Essa nasce quando, dopo la Seconda guerra mondiale e anche grazie
all'organizzazione che erano state capaci di darsi, le classi subalterne
acquisiscono una forza tale da conquistare il riconoscimento e di
conseguenza l'inclusione nella cittadinanza. Da qui quella grande
operazione di redistribuzione della ricchezza e del potere che ha
caratterizzato i decenni fino agli anni Settanta.
Non che si fosse
realizzato il socialismo, ovviamente: le classi dominanti restavano
dominanti, quelle subalterne restavano subalterne; però esisteva una
comparabilità delle forze in campo senza la quale non si può parlare di
democrazia nel senso pieno del termine (includendo nella definizione di
questo termine l'istruzione, la scuola, la sanità, ecc. ecc.). Di
conseguenza, la democrazia comincia a finire quando questi rapporti di
forza, dopo molti decenni di riequilibrio, tornano a squilibrarsi in
maniera drastica. E questo avviene negli anni Settanta, quando all'apice
dell'ascesa del movimento dei lavoratori il ciclo si inverte e le
classi dominanti reagiscono, lungo alcuni percorsi – dalla scomposizione
del ciclo produttivo alla delegittimazione dei partiti di massa – che
ci riporteranno, nel deserto attuale, a scenari che anticipano un
ritorno all'Ottocento.
Di queste tendenze restaurative, presenti in tutto il mondo occidentale, il berlusconismo è stato un inteprete e non la causa.
Un interprete privilegiato, ovviamente, perché aveva dalla sua parte la
ricchezza e i mezzi di comunicazione ed era particolarmente in sintonia
con lo spirito dei tempi. La lotta ventennale contro Berlusconi è stata
una lotta non già contro questi processi ma contro un competitore che
contendeva alle sinistre la guida di questi processi stessi. Va
oltretutto detto che, nell'interpretare il neoliberalismo, la sinistra è
stata molto più efficace, nella pratica, del Cavaliere, il quale
pensava soprattutto ai fatti propri. Le ferite più dolorose nella
Costituzione e nella legislazione nazionale le ha lasciate proprio la
sinistra. E in primo luogo la sinistra è responsabile di ciò che
costituisce l'inizio della fine, sul piano istituzionale: la
cancellazione del proporzionale e l'introduzione del maggioritario,
nelle forme più o meno uninominali che si sono susseguite.
Nel tuo testo
cerchi le radici del renzismo nella storia della sinistra italiana e
arrivi a dire che Renzi non è affatto un estraneo a essa. Quali sono le
radici politiche e culturali che conducono la sinistra verso i sentieri
del liberismo e del liderismo?
Caduto il Muro di Berlino,
il gruppo dirigente del Pci prima e poi del PdS, in difficoltà per via
dei grandi mutamenti intervenuti nella società negli anni Ottanta, pare
vincere un terno al lotto: improvvisamente acquisisce potere e un ruolo
politico di governo. E' un paradosso: il partito la cui storia era
legata a quella delle classi lavoratrici, arriva nella stanza dei
bottoni proprio quando queste classi sono schiantate da una sconfitta
epocale e diventa l'esecutore testamentario della loro sconfitta. Una
parte di quel gruppo dirigente, in un certo senso ancora consapevole
della questione dei rapporti di forza, cercherà di gestire questa
situazione per evitare danni maggiori; un'altra parte, figlia della
stagione del riflusso e totalmente deculturata, vedrà addirittura la
caduta del Muro come un'opportunità. Entrambe le parti si porranno
l'obiettivo "riformistico" di governare i processi in atto, dando vita a
un'identità ibrida fatta di nostalgia e al tempo stesso rampantismo,
che non è mai approdata nel campo della socialdemocrazia. Ma la tendenza
storica, la riscossa globale delle classi dominanti, era molto più
forte di queste illusioni e saranno semmai loro ad essere piegati da
quei processi, fino a mutare completamente pelle. Ha ragione oggi Renzi nel dire che D'Alema è invidioso
perché all'epoca in cui voleva portare il blairismo in Italia non gli è
riuscito di fare ciò che sta riuscendo a lui. Il centrosinistra ha
privatizzato e deregolamentato a mani basse, a spese dei ceti
medio-bassi. Ha stravolto la Costituzione con l'architettura di
Maastricht e ha preparato il più grande furto nella storia del paese,
quando nel giro di una notte, con l'introduzione dell'euro, è avvenuto
un trasferimento di ricchezza gigantesco a danno dei lavoratori
dipendenti.
Nel trentennale
della morte di Berlinguer – in cui tutti hanno voluto appropriarsi della
sua storia – quali sarebbero quelle “incertezze” che gli addebiti in
“Democrazia Cercasi”? Non credi, come Lucio Magri, che nei suoi ultimi
anni avesse messo in discussione il “compromesso storico” e che quindi
stesse ridisegnando un PCI conflittuale? Avrebbe condotto anch’egli il
Pci alla dissoluzione?
Quand'è che il finisce il
ciclo ascendente delle classi subalterne e comincia invece la loro
parabola discendente, conseguenza della controffensiva proprietaria?
Avviene tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli anni Settanta,
ovvero subito dopo l'approvazione dello Statuto dei lavoratori e nel
pieno dell'ultimo ciclo di lotte operaie espansive del dopoguerra. In un
contesto complicatissimo – siamo nel ciclo di transizione 1968-77 – il
Pci stenta ad accorgersi di questo cambiamento decisivo. E prosegue la
tradizionale politica di dialogo tra forze popolari, che era già stata
alla base della partecipazione del Pci ai governi del primissimo
dopoguerra, sino a preparare il Compromesso storico. C'è però
una differenza fondamentale: una cosa sono le politiche di alleanze in
una fase di ascesa, quando sei in grado di aprire contraddizioni nel
fronte altrui e di imporre compromessi progressivi. Una cosa
completamente diversa sono le alleanze in una fase di ritirata, e
soprattutto quando è completamente invertito il ciclo politico-sociale.
In tal caso sono gli altri ad aprire contraddizioni nel nostro fronte,
tanto più che i compromessi diventano inevitabilmente a perdere. È noto
che Berlinguer imposta questa politica anche per il timore di una svolta
autoritaria nel paese: è l'inizio di quella tattica di riduzione del
danno che ha contribuito all'assorbimento delle spinte emancipative del
'68 nell'alveo di una rivoluzione passiva e alla loro
rifunzionalizzazione in chiave neoliberale e che è divenuta l'unico
orizzonte strategico della sinistra, un orizzonte che ancora perdura.
Solo che all'epoca questo errore era espressione di una tragedia; oggi
invece è un errore che non rientra nemmeno nel genere letterario della
farsa, che ha una sua nobiltà. In gran parte della sinistra non c'è la
minima comprensione della diversità della fase politica in atto, del
fatto che un'epoca è finita per sempre. Tant'è che invece di attrezzarsi
per vent’anni di semiclandestinità, ancora in troppi pensano di potersi
salvare e di ritornare nei giochi attraverso le alleanze. Tutto invece è
cambiato, tutto ricomincia da zero, come se fossimo agli albori del movimento operaio.
Scrivi che in
politica non esiste la categoria del “tradimento”. Tuttavia mi interessa
quella della coerenza. Come è stato possibile che ragazzi cresciuti
nella Fgci nonché centinaia di migliaia di militanti abbiano capovolto
il proprio punto di vista praticamente su tutto? Credi che alla base ci
sia semplicemente il “realismo subalterno” che ha pervaso la storia del Pci o c’è altro?
C'è che la lotta di classe
non si svolge soltanto sul terreno politico ed economico ma anche in
quello culturale, dell'ideologia, delle forme di coscienza. Nel nostro
stesso cervello si combatte in fondo una lotta di classe e non solo
all'interno delle nostre organizzazioni di riferimento. La sconfitta
delle classi subalterne è maturata nel corso di diversi decenni, è
passata lungo molteplici percorsi paralleli e intrecciati ed è stata una
sconfitta pressoché totale. Oggi le posizioni di partiti come Prc e
PdCI, che pure non avrebbero nulla da perdere, sono più arretrate di
quelle del vecchio Psdi di Cariglia o di Nicolazzi. Perché? Prc e Pdci
hanno tradito? Non è così: con lo squilibrio crescente dei rapporti di
forza di cui parlavo prima è avvenuto invece uno spropositato
slittamento a destra dell'intero quadro politico - ma anche delle
categorie con le quali leggiamo la realtà, dei significati diffusi,
della mentalità dominante – e tutti i soggetti sono stati trascinati in
questo smottamento, nessuno escluso. Ammettiamolo: cosa pagheremmo per
avere un po' di socialdemocrazia? Percepirlo non è facile, perché la
tradizione politica italiana si pregia di ispirarsi a un atteggiamento
"realistico" che però, quando non è sorretto da un'analisi accurata e da
una teoria forte, da una formazione politico-culturale solida, si
rovescia in adesione spontaneista a ciò che è meramente "esistente", più
che "reale". Bisogna poi tenere conto che, come nel gioco del calcio,
nella lotta siamo almeno in due, se non di più, e che l'avversario o gli
avversari sono oggi enormemente più forti di noi. È comprensibile che abbiamo finito per pensare il mondo con i pensieri che le classi dominanti ci hanno messo in testa,
e a nominarlo con le loro parole. Si tratta, come dicevo prima, di fare
oggi ciò che è stato fatto agli albori del movimento operaio. E questo
anche sul piano dell'alfabetizzazione politica.
Eppure il PD non
rinuncia alla retorica della sua storia per determinare l’arco delle
forze politiche “responsabili” e di quelle “populiste”. A tal proposito
hai parlato dell’“antifascistismo” come cosa ben diversa dall’antifascismo storico. Di che si tratta?
L'antifascistismo è cosa
diversa dall'antifascismo. Mentre questo è un'esperienza politica
precisa, legata a un fenomeno storico determinato e a un'analisi di
questo fenomeno, l'antifascistismo è mera retorica declamatoria. E' un
sottoprodotto della teoria del totalitarismo, in base alla quale la
storia del Novecento è spiegata come la storia della lotta tra la
democrazia liberale e due mostri egualmente totalitari, il nazifascismo e
il comunismo, che tentano di stuprarla ma vengono sgominati dal Settimo
cavalleggeri.
Non esiste nessun pericolo
di fascismo in Italia perché non ce ne è bisogno: la televisione e la
strumentalizzazione scientifica del desiderio basta e avanza. Agitarne
lo spauracchio serve unicamente a legittimare le proprie nefandezze,
ovvero a dire: qualunque cosa io faccia, qualunque legge approvi,
qualunque attacco ai diritti del lavoro promuova, chiunque è contro di
me è di per sé fascista, antidemocratico, autoritario; noi
rappresentiamo il popolo, ovvero la democrazia. Ecco che fascista diventa chiunque non condivida il consenso neoliberale,
le "regole del gioco" ovvero i contorni del monopartitismo
competitivo e lo contesti pubblicamente. Persino un movimento come
quello dei 5 Stelle, i quali semmai hanno assorbito gran parte delle
frustrazioni sociali prevenendo lo sviluppo di movimenti di estrema
destra, può essere dipinto come fascista.
Fausto Bertinotti
ritiene che la sinistra anticapitalista dovrebbe apprendere dal
liberalismo il rispetto per le libertà individuali visto che nel ’900 ha
dimostrato di averne scarsa attenzione. Nel testo hai ribaltato questo
ragionamento. In che modo?
Intanto, come ha fatto
notare Domenico Losurdo, sembra che Bertinotti ignori completamente il
dibattito tra Togliatti, Della Volpe e Bobbio, nel corso del quale il
segretario comunista aveva ribadito come per i comunisti le libertà
individuali fossero altrettanto importanti dei diritti
economico-sociali. Aggiungerei che sembra ignorare lo stesso Marx, il
quale considera le conquiste del liberalismo come un presupposto, come
un punto di partenza del quale denunciare e oltrepassare i limiti,
ovvero le clausole d'esclusione nei confronti dei lavoratori manuali o
dei sottouomini delle colonie, in direzione di una universalizzazione
della libertà. Infine, sembra ignorare anche Gramsci, il quale sosteneva
che il programma liberale integrale è diventato il programma minimo dei
socialisti.
C'è però un altro aspetto che spesso viene rimosso perché considerato scandaloso. L'individualismo liberale è in realtà un mito.
Per lungo tempo, per i liberali non tutti gli uomini sono degni di
essere considerati individui. Certo, l'individuo ha un bagaglio di
libertà imperscrittibili: ma chi è effettivamente individuo, uomo? Oggi
rimuoviamo questo fatto perché il liberalismo democratico che abbiamo
conosciuto aveva abbandonato queste posizioni. Ma il liberalismo si è
evoluto e si è distaccato dalla contiguità con il conservatorismo, con
il quale ha stretto un blocco di alleanza sempre più rigido a partire
almeno dal 1848, solo perché incalzato e per lungo tempo sconfitto dalle
tendenze socialiste e rivoluzionarie. Il liberalismo democratico è
dunque esso stesso in gran parte figlio della tradizione rivoluzionaria.
E anche il suo individualismo lo è. La controprova sta nel fatto che
una volta venuta meno la pressione del movimento socialista, il
liberalismo è tornato su posizioni ottocentesche o persino
pre-ottocentesche non solo per quanto riguarda le posizioni
economico-sociali, non solo per i suoi progetti istituzionali, ma anche
nei riguardi dei diritti individuali. Pensiamo alla diffusione del
securitarismo in Europa, al trattamento dei migranti, ecc. ecc. (negli
Stati Uniti, un paese nel quale da sempre le carceri traboccano di
afro-americani, di individualismo non è mai stato il caso di parlare, se
con tale termine si deve intendere una aspirazione universalistica).
A venticinque anni
dalla caduta del Muro, la sinistra preferisce dimenticare e guardare
oltre il ’900. Chi non dimentica, invece, appare la destra che, pur in
assenza di una seria alternativa anticapitalista, continua in ogni modo a
raccontarci, a modo suo, la storia del comunismo. Come te lo spieghi?
L'altra sera il Tg2 dava
notizia dei 60 anni dell'ex calciatore Marco Tardelli con un servizio di
"ricostruzione storica" nel quale si celebrava la caduta del Muro di
Berlino e la vittoria dell'Occidente sul totalitarismo comunista. E' la
dimostrazione che si tratta di un momento fondativo, costitutivo
dell'autocoscienza neoliberale odierna. Ma pensa qualcosa di diverso il
PD? Pensa qualcosa di diverso Vendola? Dove finisce dunque la destra e
dove comincia la sinistra, oggi? Io ritengo che la distinzione tra
destra e sinistra abbia ancora un senso ma che questi termini vadano
profondamente ridefiniti e che vada ridefinito anche il campo della sinistra: oggi esso è estremamente sottile, ed è esso stesso lambito e invaso dalla destra.
In ogni caso è chiaro che
la destra ha un rapporto migliore con la propria storia, anche perché –
particolare di non poco conto – ha vinto; e questo è un elemento
importante della sua attuale egemonia. La ricostruzione liberale della
storia del Novecento, sintetizzata nella teoria del totalitarismo,
infatti, è da tempo patrimonio comune anche della "sinistra" ufficiale,
sia nella variante moderata che in quella radicale.
La mia impressione è che
il ciclo 1968-77 abbia molto a che fare con tutto ciò. È in quegli anni
che si diffonde l'atteggiamento postmoderno nei confronti della storia.
Perché la catastrofe del Novecento? Non era forse il progetto
emancipativo moderno, per via della sua presunzione universalistica,
intrinsecamente sbagliato? Non è il primato della ragione
inevitabilmente totalitario, visto che si tratta di mettere le braghe al
mondo e di imporre alla realtà un decorso artificiale anche a costo di
prenderla a martellate se si ribella? Non è meglio concentrarsi sulle
libertà individuali, sganciando la libertà di ciascuno da quella di
tutti e spostandola dal terreno politico a quello della vita privata? Da
qui la denuncia dell'idea di progresso e del prometeismo moderno, del
quale il marxismo e il capitalismo sono solo due varianti
intercambiabili (un'idea del vecchio Heidegger, a guardar bene). Se
questo o quello pari sono, però, in fondo meglio vivere sotto il
capitalismo, perché almeno ci si diverte di più.
Invece la destra conosce
bene le differenze, tant'è che non le dimentica. Anche di fronte
all'ascesa di aree del mondo che un giorno potrebbero mettere in
discussione l'organizzazione capitalistica della società, la destra sa
benissimo che deve imporre anzitutto la propria egemonia culturale, la
propria visione del mondo. Deve cioè diffondere l'ideologia
naturalistica secondo la quale c'è stata storia ma ormai non ce n'è più,
questa è l'unica realtà possibile e non si fuoriesce da questo
orizzonte. La sinistra, purtroppo, sembra essere d'accordo e di questo
assetto si propone al limite di edulcorare le contraddizioni con un po'
di ecologia e di diritti civili. L'idea stessa di una fuoriuscita è
impensabile.
Come si può capire, dobbiamo ricominciare pressoché da zero.
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