Nel medioevo la terapia più accreditata per guarire i malati gravi era il salasso, che i cerusici praticavano con entusiasmo. La cura riusciva anche se di solito il paziente moriva.
Che i politici di Europa e Stati uniti si comportino come medici di Molière è da tempo sotto gli occhi di tutti. E tutti possono constatare quali rovinose conseguenze hanno le misure di austerità imposte con la forza (del credito) a Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia dai banchieri, da Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. Questi tagli decurtano la capacità di spendere nei popoli cui sono inflitti. Minore spesa significa meno beni prodotti o in commercio. Quindi meno posti di lavoro. Quindi ancora minore domanda in una spirale recessiva. E per di più, minori redditi generano meno entrate fiscali, quindi in fin dei conti il rigore accresce il disavanzo pubblico invece di sanarlo: più sono austeri, più gli stati devono ricorrere all'indebitamento. L'austerità funziona esattamente da salasso sul corpo economico delle nazioni. Se ne è accorto ieri anche il New York Times che in un editoriale ha giudicato controproducente il rigore fiscale che infiamma i dirigenti politici europei e statunitensi definendo «punitive» le misure imposte ai paesi debitori.
A preoccupare di più è l'arrestarsi della locomotiva tedesca, la cui economia aveva finora trainato l'Europa: nel secondo trimestre è cresciuta solo dello 0,1% . Nell'economia tedesca la voce più importante dell'export è costituita dalle macchine utensili: non solo o non tanto Mercedes, quanto robot per le catene di montaggio. La Germania frena non solo perché il mercato europeo delle auto tedesche si è ridotto proprio a causa delle politiche di austerità imposte da Francoforte e Berlino, ma perché la «fabbrica del mondo», la Cina, ha ordinato meno macchinari per la produzione industriale.
Si sta sgretolando l'assunto implicito in tutte le politiche di austerità occidentali, e cioè che la Cina da sola (o i paesi cosiddetti Bric nel loro insieme: Brasile, Russia e India, oltre alla Cina) possano da soli trainare la ripresa mondiale. La Cina potrebbe farlo solo a patto di una straordinaria espansione dei consumi interni, che però non può permettersi perché la sua economia è già a forte rischio inflazione e già soffre di una sovrapproduzione edilizia che può far scoppiare una gigantesca bolla immobiliare. Infatti la Banca centrale cinese continua a rialzare i suoi tassi d'interesse nel tentativo finora vano di rallentare la crescita della massa monetaria.
E comunque, persino la Cina non avrebbe mai la dimensione sufficiente a far ripartire da sola l'economia mondiale. Troppo spesso si dimenticano alcuni numeri chiave.
Per quanto sia «la seconda potenza economica mondiale», nel 2010 la Cina ha generato un Prodotto interno lordo (5.900 miliardi di dollari) pari a circa un terzo del Pil dell'Unione europea (16.300 miliardi), mentre la sua popolazione (1,340 miliardi di abitanti) è più di due volte e mezzo quella dell'Ue (502 milioni). Detta in altro modo: la Germania ha un Pil (3.300 miliardi) che è più della metà di quello cinese, con una popolazione 16 volte più piccola.
Se si amplia lo sguardo a tutti i Bric, si osserva che, pur messi insieme, hanno un Pil (12.500 miliardi di dollari) inferiore a quello degli Usa (14.700), pur avendo una popolazione complessiva 9 volte superiore.
Non solo, ma Unione europea e Stati uniti messi insieme continuano a fare la metà del Pil di tutto il pianeta (31.000 miliardi su 62.900). E se a Europa e Usa si somma il Giappone (5.500 miliardi), allora questi tre poli fanno da soli il 60% del pianeta Terra. È evidente che, almeno per qualche anno ancora (ma forse per più di un decennio), né la Cina né i Bric possono raccogliere da soli il testimone della crescita: e lo si vede proprio in questi mesi. La crescita del Brasile è rallentata. E ad aprile, per la prima volta da più di 10 anni, la vendita di automobili è calata in Cina: è ovvio che i paesi esportatori vengono colpiti quando i loro clienti mettono a dieta le proprie economie.
Non ci sono soluzioni indolori a questa situazione, che però si è profilata come esito finale di un quarantennale processo mondiale di dislocazione industriale. La logica di questa dislocazione è stata quella di rompere il «circolo virtuoso» di Henry Ford che nel 1910 introdusse la prima catena di montaggio moderna (cioè accrebbe a dismisura la produttività del lavoro) e insieme aumentò di botto i salari ai suoi operai perché potessero con il loro reddito permettersi di comprarsi le utilitarie modello T che producevano. Nel processo di delocalizzazione, spostare una fabbrica da Flint (Michigan) a Nuevo Laredo, ha il vantaggio che che gli operai messicani vengono pagati così poco che non potranno mai permettersi di comprare le auto che producono.
Perciò nel «mondo nuovo» globalizzato, si produce dove non si spende, e si spende dove non si produce: situazione che alla lunga diventa insostenibile, perché di solo terziario e di sola intermediazione finanziaria può vivere una città-stato, una polis come Singapore, Hong Kong, Londra o New York, ma non uno stato nazione, anzi un continente-nazione, come sono ormai Europa e Usa. Ecco quindi i «vecchi» paesi ricchi indebitarsi sia a livello privato per sostenere il consumo (crisi dei mutui subprime), sia a livello pubblico per supplire al mancato gettito delle produzioni che sono state delocalizzate (debiti sovrani).
Una vera soluzione esige quindi l'equivalente di Bretton Woods (l'accordo del 1944 che per i successivi 27 anni garantì la stabilità finanziaria planetaria), anzi qualcosa di ancora più impegnativo, e cioè un riassetto della divisione internazionale del lavoro. Ma riordini di questa portata avvengono solo grazie a guerre (come accadde per Bretton Woods). Sembra evaporato tutto l'afflato di un «governo mondiale della crisi» che a fine del 2008 aveva animato i G20: da allora tutto è tornato come prima, business as usual, in attesa del prossimo disastro.
Nel frattempo, aspettando un'improbabile palingenesi capitalistica mondiale, sarebbe bene che le due economie che da sole generano più della metà del Prodotto lordo della Terra, e cioè Europa e Stati uniti, adottassero politiche per rilanciare l'economia senza far esplodere il debito: e cioè investire in opere di pubblica utilità grazie a entrate fiscali rimpolpate da maggiori imposte sui ceti privilegiati. È un segreto di Pulcinella che la rete fognaria italiana è catastrofica o che buona parte dei ponti statunitensi sono pericolanti. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma è vano sperare che i governi da soli siano in grado di cambiare le loro politiche: la Grande Crisi degli anni '30 insegna che la crisi economica porta a una crisi della democrazia - spesso brutale e drastica -, se i popoli non si sollevano a rivendicarla: è tutta qui la differenza tra la Francia del 1936 che vide il Fronte popolare salire al governo dopo una impressionante ondata di scioperi, e invece Italia e Germania che sprofondarono sempre più nelle dittature.
Che i politici di Europa e Stati uniti si comportino come medici di Molière è da tempo sotto gli occhi di tutti. E tutti possono constatare quali rovinose conseguenze hanno le misure di austerità imposte con la forza (del credito) a Grecia, Portogallo, Spagna, Irlanda e Italia dai banchieri, da Angela Merkel e Nicholas Sarkozy. Questi tagli decurtano la capacità di spendere nei popoli cui sono inflitti. Minore spesa significa meno beni prodotti o in commercio. Quindi meno posti di lavoro. Quindi ancora minore domanda in una spirale recessiva. E per di più, minori redditi generano meno entrate fiscali, quindi in fin dei conti il rigore accresce il disavanzo pubblico invece di sanarlo: più sono austeri, più gli stati devono ricorrere all'indebitamento. L'austerità funziona esattamente da salasso sul corpo economico delle nazioni. Se ne è accorto ieri anche il New York Times che in un editoriale ha giudicato controproducente il rigore fiscale che infiamma i dirigenti politici europei e statunitensi definendo «punitive» le misure imposte ai paesi debitori.
A preoccupare di più è l'arrestarsi della locomotiva tedesca, la cui economia aveva finora trainato l'Europa: nel secondo trimestre è cresciuta solo dello 0,1% . Nell'economia tedesca la voce più importante dell'export è costituita dalle macchine utensili: non solo o non tanto Mercedes, quanto robot per le catene di montaggio. La Germania frena non solo perché il mercato europeo delle auto tedesche si è ridotto proprio a causa delle politiche di austerità imposte da Francoforte e Berlino, ma perché la «fabbrica del mondo», la Cina, ha ordinato meno macchinari per la produzione industriale.
Si sta sgretolando l'assunto implicito in tutte le politiche di austerità occidentali, e cioè che la Cina da sola (o i paesi cosiddetti Bric nel loro insieme: Brasile, Russia e India, oltre alla Cina) possano da soli trainare la ripresa mondiale. La Cina potrebbe farlo solo a patto di una straordinaria espansione dei consumi interni, che però non può permettersi perché la sua economia è già a forte rischio inflazione e già soffre di una sovrapproduzione edilizia che può far scoppiare una gigantesca bolla immobiliare. Infatti la Banca centrale cinese continua a rialzare i suoi tassi d'interesse nel tentativo finora vano di rallentare la crescita della massa monetaria.
E comunque, persino la Cina non avrebbe mai la dimensione sufficiente a far ripartire da sola l'economia mondiale. Troppo spesso si dimenticano alcuni numeri chiave.
Per quanto sia «la seconda potenza economica mondiale», nel 2010 la Cina ha generato un Prodotto interno lordo (5.900 miliardi di dollari) pari a circa un terzo del Pil dell'Unione europea (16.300 miliardi), mentre la sua popolazione (1,340 miliardi di abitanti) è più di due volte e mezzo quella dell'Ue (502 milioni). Detta in altro modo: la Germania ha un Pil (3.300 miliardi) che è più della metà di quello cinese, con una popolazione 16 volte più piccola.
Se si amplia lo sguardo a tutti i Bric, si osserva che, pur messi insieme, hanno un Pil (12.500 miliardi di dollari) inferiore a quello degli Usa (14.700), pur avendo una popolazione complessiva 9 volte superiore.
Non solo, ma Unione europea e Stati uniti messi insieme continuano a fare la metà del Pil di tutto il pianeta (31.000 miliardi su 62.900). E se a Europa e Usa si somma il Giappone (5.500 miliardi), allora questi tre poli fanno da soli il 60% del pianeta Terra. È evidente che, almeno per qualche anno ancora (ma forse per più di un decennio), né la Cina né i Bric possono raccogliere da soli il testimone della crescita: e lo si vede proprio in questi mesi. La crescita del Brasile è rallentata. E ad aprile, per la prima volta da più di 10 anni, la vendita di automobili è calata in Cina: è ovvio che i paesi esportatori vengono colpiti quando i loro clienti mettono a dieta le proprie economie.
Non ci sono soluzioni indolori a questa situazione, che però si è profilata come esito finale di un quarantennale processo mondiale di dislocazione industriale. La logica di questa dislocazione è stata quella di rompere il «circolo virtuoso» di Henry Ford che nel 1910 introdusse la prima catena di montaggio moderna (cioè accrebbe a dismisura la produttività del lavoro) e insieme aumentò di botto i salari ai suoi operai perché potessero con il loro reddito permettersi di comprarsi le utilitarie modello T che producevano. Nel processo di delocalizzazione, spostare una fabbrica da Flint (Michigan) a Nuevo Laredo, ha il vantaggio che che gli operai messicani vengono pagati così poco che non potranno mai permettersi di comprare le auto che producono.
Perciò nel «mondo nuovo» globalizzato, si produce dove non si spende, e si spende dove non si produce: situazione che alla lunga diventa insostenibile, perché di solo terziario e di sola intermediazione finanziaria può vivere una città-stato, una polis come Singapore, Hong Kong, Londra o New York, ma non uno stato nazione, anzi un continente-nazione, come sono ormai Europa e Usa. Ecco quindi i «vecchi» paesi ricchi indebitarsi sia a livello privato per sostenere il consumo (crisi dei mutui subprime), sia a livello pubblico per supplire al mancato gettito delle produzioni che sono state delocalizzate (debiti sovrani).
Una vera soluzione esige quindi l'equivalente di Bretton Woods (l'accordo del 1944 che per i successivi 27 anni garantì la stabilità finanziaria planetaria), anzi qualcosa di ancora più impegnativo, e cioè un riassetto della divisione internazionale del lavoro. Ma riordini di questa portata avvengono solo grazie a guerre (come accadde per Bretton Woods). Sembra evaporato tutto l'afflato di un «governo mondiale della crisi» che a fine del 2008 aveva animato i G20: da allora tutto è tornato come prima, business as usual, in attesa del prossimo disastro.
Nel frattempo, aspettando un'improbabile palingenesi capitalistica mondiale, sarebbe bene che le due economie che da sole generano più della metà del Prodotto lordo della Terra, e cioè Europa e Stati uniti, adottassero politiche per rilanciare l'economia senza far esplodere il debito: e cioè investire in opere di pubblica utilità grazie a entrate fiscali rimpolpate da maggiori imposte sui ceti privilegiati. È un segreto di Pulcinella che la rete fognaria italiana è catastrofica o che buona parte dei ponti statunitensi sono pericolanti. E gli esempi si potrebbero moltiplicare. Ma è vano sperare che i governi da soli siano in grado di cambiare le loro politiche: la Grande Crisi degli anni '30 insegna che la crisi economica porta a una crisi della democrazia - spesso brutale e drastica -, se i popoli non si sollevano a rivendicarla: è tutta qui la differenza tra la Francia del 1936 che vide il Fronte popolare salire al governo dopo una impressionante ondata di scioperi, e invece Italia e Germania che sprofondarono sempre più nelle dittature.
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