Qualcosa non torna nel dibattito sulla manovra che ci aspetta, tanto più dopo l’intervento di Giulio Tremonti in Parlamento. Le sue parole sulla necessità di privatizzare subito i servizi pubblici locali, nonostante apprezzabili resistenze a sinistra, rappresentano forse il punto su cui il consenso è più largo. Per i fautori di una linea drastica di privatizzazioni, dimagrimento dello Stato, separazione della politica dall’economia, si tratta a malapena di un primo passo; per i sostenitori della linea opposta, dinanzi alle alternative che si profilano, sarà probabilmente il male minore.
Sta di fatto che a leggere i giornali, con poche eccezioni, la privatizzazione dei servizi pubblici locali appare ormai come una scelta quasi scontata. Comunque la si pensi nel merito, il fatto è degno di nota, e suscita alcune domande.
La prima riguarda l’efficacia della misura ai fini del risanamento: le aziende pubbliche efficienti, se sono efficienti, al pubblico (locale o nazionale) portano guadagni, non perdite. Mentre quelle in perdita, chi se le compra, se non a prezzi di saldo?
Seconda domanda: quanto tempo è passato dai referendum, da quella clamorosa vittoria dei movimenti in difesa dei beni comuni, da quel «vento nuovo» che spirava sul Paese? Risposta: due mesi. Dal 12 giugno al 12 agosto 2011. Il testo di un quesito abrogativo è sempre oscuro. Leggiamo dunque la sintesi sul sito del ministero dell’Interno: «Referendum popolare n. 1 – scheda di colore rosso – Il quesito prevede l’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati». A rileggerlo oggi, viene naturale porsi una terza domanda: cos’è successo, in appena due mesi, per mutare tanto radicalmente non solo le posizioni politiche, ma pure il vento, il clima, l’orientamento dell’intero dibattito pubblico?
La risposta più ovvia – la crisi economica – sarebbe doppiamente anacronistica, perché la crisi c’era anche prima dei referendum, e perché l’emergenza finanziaria di questi giorni è arrivata quando il dibattito pubblico aveva già completamente cambiato di segno, e di beni comuni nessuno parlava più. E qui sta il punto: il dibattito sull’esito dei referendum - che vedeva il governo nella posizione dello sconfitto, sommerso da una valanga di sì, sui beni pubblici come sul nucleare e sul legittimo impedimento - è stato soppiantato dal dibattito sui costi della politica e sulle colpe della «casta». Un’offensiva della distrazione guidata non per nulla dal Giornale e da Libero.
E così, dalla contestazione di precise scelte politiche attuate da un preciso governo (il governo Berlusconi), siamo passati alla contestazione della politica e dei partiti senza distinzioni, guidata per giunta proprio da Berlusconi (che del resto sulla favola dell'imprenditore «prestato» alla politica ha sempre giocato). I
n appena due mesi, la spinta al cambiamento che veniva dal movimento referendario è stata così incanalata contro lo Stato, la battaglia in difesa del ruolo del pubblico è stata letteralmente dirottata in favore delle privatizzazioni e del primato del mercato. Il risultato finale è il dibattito cui assistiamo oggi, in cui sembra quasi che il taglio delle province o del vitalizio dei parlamentari renderebbe accettabili i tagli a pensioni e sanità, alle agevolazioni per i figli a carico, la cancellazione dell’articolo 18 per i lavoratori e via elencando.
Chi ha davvero a cuore la difesa dei ceti più deboli, la difesa dei beni comuni e il ruolo del pubblico, dovrebbe forse cogliere questa triste occasione per riflettere su certi pifferai del radicalismo antipolitico e sulla strada che indicano alla società italiana. Una strada che può assumere molti aspetti, persino quelli della svolta a sinistra. Ma sbocca sempre a destra.
Sta di fatto che a leggere i giornali, con poche eccezioni, la privatizzazione dei servizi pubblici locali appare ormai come una scelta quasi scontata. Comunque la si pensi nel merito, il fatto è degno di nota, e suscita alcune domande.
La prima riguarda l’efficacia della misura ai fini del risanamento: le aziende pubbliche efficienti, se sono efficienti, al pubblico (locale o nazionale) portano guadagni, non perdite. Mentre quelle in perdita, chi se le compra, se non a prezzi di saldo?
Seconda domanda: quanto tempo è passato dai referendum, da quella clamorosa vittoria dei movimenti in difesa dei beni comuni, da quel «vento nuovo» che spirava sul Paese? Risposta: due mesi. Dal 12 giugno al 12 agosto 2011. Il testo di un quesito abrogativo è sempre oscuro. Leggiamo dunque la sintesi sul sito del ministero dell’Interno: «Referendum popolare n. 1 – scheda di colore rosso – Il quesito prevede l’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati». A rileggerlo oggi, viene naturale porsi una terza domanda: cos’è successo, in appena due mesi, per mutare tanto radicalmente non solo le posizioni politiche, ma pure il vento, il clima, l’orientamento dell’intero dibattito pubblico?
La risposta più ovvia – la crisi economica – sarebbe doppiamente anacronistica, perché la crisi c’era anche prima dei referendum, e perché l’emergenza finanziaria di questi giorni è arrivata quando il dibattito pubblico aveva già completamente cambiato di segno, e di beni comuni nessuno parlava più. E qui sta il punto: il dibattito sull’esito dei referendum - che vedeva il governo nella posizione dello sconfitto, sommerso da una valanga di sì, sui beni pubblici come sul nucleare e sul legittimo impedimento - è stato soppiantato dal dibattito sui costi della politica e sulle colpe della «casta». Un’offensiva della distrazione guidata non per nulla dal Giornale e da Libero.
E così, dalla contestazione di precise scelte politiche attuate da un preciso governo (il governo Berlusconi), siamo passati alla contestazione della politica e dei partiti senza distinzioni, guidata per giunta proprio da Berlusconi (che del resto sulla favola dell'imprenditore «prestato» alla politica ha sempre giocato). I
n appena due mesi, la spinta al cambiamento che veniva dal movimento referendario è stata così incanalata contro lo Stato, la battaglia in difesa del ruolo del pubblico è stata letteralmente dirottata in favore delle privatizzazioni e del primato del mercato. Il risultato finale è il dibattito cui assistiamo oggi, in cui sembra quasi che il taglio delle province o del vitalizio dei parlamentari renderebbe accettabili i tagli a pensioni e sanità, alle agevolazioni per i figli a carico, la cancellazione dell’articolo 18 per i lavoratori e via elencando.
Chi ha davvero a cuore la difesa dei ceti più deboli, la difesa dei beni comuni e il ruolo del pubblico, dovrebbe forse cogliere questa triste occasione per riflettere su certi pifferai del radicalismo antipolitico e sulla strada che indicano alla società italiana. Una strada che può assumere molti aspetti, persino quelli della svolta a sinistra. Ma sbocca sempre a destra.
di Francesco Cundari, www.unita.it
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