L’avete notati i recenti maxi manifesti con cui si reclamizza l’ultima versione di compatta d’alta gamma della FIAT? Dove campeggia l’immagine dell’attore francese Vincent Cassel (in Monica Bellucci), con la barba di due giorni che fa machò e un’espressione sull’ebete andante. Ben poco glamour, insignificante. Invece, quanto davvero cattura l’attenzione è lo slogan sottostante, perentorio e provocante quanto uno schiaffo (alla miseria): “Il lusso è un diritto”. Tanto per capirci: “lusso” come superfluo sbattuto in faccia a chi non ha il necessario? Di questi tempi? Quando chi non ha santi in paradiso si arrabatta quotidianamente per far quadrare i conti? Mentre il nostro governo scarica sulle spalle dei più deboli i costi della crisi per diecine di milioni? Probabilmente la scelta del testimonial d’oltralpe è un inconscio richiamo alla sventurata Maria Antonietta quando, al cospetto dei primi tumulti dei parigini poveri per la penuria di pane, se ne uscì con quell’immortale/demenziale «e che mangino brioches».
Qui i casi sono due: o i creativi della casa automobilistica ex torinese si sono bevuti il cervello, oppure sanno perfettamente qual è il bersaglio del loro messaggio (“il target”, si dice in gergo) e – dunque – se ne infischiano di tutto il resto (indubbiamente con l’avallo dei responsabili della comunicazione aziendale). Propendendo per la seconda ipotesi (intendono benissimo il significato di ciò che fanno), si può prendere questo piccolo e – al tempo stesso – macroscopico esempio di ipersorda indifferenza alla congiuntura sociale, ai problemi materiali dei propri concittadini (o, anche in questo caso, ex?), come sintomo di un cortocircuito avvenuto da tempo negli immaginari collettivi. Dicendola alla Renzo Arbore, “edonismo reaganiano” fuori tempo massimo: ispirato alla filosofia dell’americanista Sergio Marchionne? Perché, in questi anni, si è rotto qualcosa di troppo importante: la convinzione di essere tutti sulla stessa barca. Quindi, chi poteva permetterselo si è affrettato a montare a bordo di scialuppe di salvataggio (ultra accessoriate); in ordine sparso ma sempre individualmente. Il “chi è dentro” e il “chi è fuori” come discriminante esclusivo con cui misurare le disuguaglianze. Non è certo una novità: il fenomeno è stato spiegato da tempo e in maniera approfondita da sociologi, economisti e saggisti vari; in perfetta coincidenza con i macroscopici spostamenti di ricchezza dall’area centrale della piramide sociale verso i suoi vertici. Un gravissimo problema politico di tenuta della stessa società, dell’ordine democratico. Omai lo sappiamo bene. Semmai stupisce l’irresponsabile petulanza dei privilegiati nell’ostentare la loro condizione lussuosa, particolarmente offensiva per chi ne è escluso. Una sorta di incoscienza alla Maria Antonietta che non promette niente di buono; non solo per tutti noi, anche (soprattutto) per gli incoscienti. Di avvisaglie già ne abbiamo fin che vogliamo: anni fa i “casseur” delle banlieux parigine, oggi “i guerriglieri del blackberry” nei quartieri più miserabili della Londra dell’alta finanza e dei dolcevitari. Ma anche nelle Puglie, dove i locali “sans papier”, instradati dai caporali alla raccolta nei campi per una paga da fame o internati nei cosiddetti campi di accoglienza (sic), cominciano a scendere infuriati per le strade e scatenare incendi. Già ci dissero (e ancora una volta ci diranno) che si tratterebbe di “conflitti etnici”, quando – in realtà – la causa scatenante stava e sta nel fatto che l’ascensore sociale si è ormai bloccato al pianterreno; che la speranza in un futuro migliore è svanita, evaporata, lasciando negli esclusi solo un senso profondo di rabbia e disperazione. Ma intanto gli sciocchini continuano a non accorgersene. Anzi, pensano di poter esprimere la propria soddisfazioni per la presunta salvezza raggiunta, nel generale crollo dell’Ancien Régime, ostentando simboli pacchiani di status. Rombando sui propri SUV, esibendo griffes cafone, riunendosi nei luoghi di raccolta dell’agiatezza sfrontata. Propugnando l’ideologia del lusso come discriminante sociale. Arrivando perfino a sbattercela sul muso dalle affissioni sui muri delle nostre città di questi tempi; sempre più scisse in mondi incomunicanti: gli scintillanti quartieri vetrina del centro e le periferie del disagio e della bruttezza. Agli albori della Rivoluzione Francese qualcuno chiese a Denis Diderot «dove andremo a finire». Lui (seppure fosse nientemeno che Diderot) rispose «lo ignoriamo». Però quello che venne dopo fu anche chiamato “Terrore”. Con una non piccola responsabilità dei consumatori di brioches e di altri lussi vistosi. Allora nella reggia di Versailles, oggi pure sui manifesti pubblicitari.
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