Jean Claude Trichet, presidente della Banca Centrale Europea ha detto che “ci stiamo avvicinando a una crisi potenzialmente peggiore del 1929″. Credo che un uomo col suo potere e la sua responsabilità abbia pensato molto bene prima di dire una frase così dura ed estrema.
Gli italiani torneranno dalle ferie e si troveranno questo assurdo spettacolo. Assurdo perché prodotto di una crisi esplosa così rapidamente da cogliere di sorpresa chi è andato in vacanza e ha legittimamente lasciato a casa problemi e preoccupazioni.
Moltissimi di noi non hanno nessuna responsabilità diretta su questa situazione. Eppure la subiremo tutti. Per molte generazioni, comprese le precedenti e le successive alla mia, non ci sarà futuro, o sarà perennemente precario. Gli sforzi di una vita non saranno serviti a nulla: non sarà servito studiare, lavorare, fare carriera, risparmiare.
I nostri genitori, che magari avranno rinunciato a tante piccole cose per permetterci di vivere dignitosamente e sostituendosi a uno Stato sociale sempre più assente, vedranno i risultati del loro impegno sciogliersi come un gelato ad agosto.
I nostri figli, sempre che ci siano le condizioni per farne, nasceranno in una situazione molto peggiore rispetto a quella in cui siamo nati noi, che siamo già inguaiati e non sappiamo cosa sarà del nostro futuro. I nostri figli non avranno genitori pronti a salvarli, perché noi saremo troppo impegnati a sopravvivere.
In Italia ci sono tutte le condizioni affinché tutto esploda. Attorno a noi abbiamo visto, in questi anni, gli effetti della perdita della pazienza del popolo nei confronti del potere. Le banlieue francesi, gli indignados spagnoli, la Primavera Araba, ora i riots inglesi, dicono sempre la stessa cosa, seppur con modalità molto diverse tra loro: viviamo in una società dei consumi in cui chi ha è, chi non ha non è.
E chi non ha un’identità pur essendo cittadino, residente, elettore, contributore, chiede semplicemente di esercitare i suoi diritti. Se un fondamento così basilare viene negato a fasce crescenti della popolazione, i cittadini senza identità reagiscono. Se quella negazione è stata percepita come violenta, ingiusta, iniqua, i cittadini reagiscono violentemente, in modo non coordinato, talvolta facendo del male alle proprie rivendicazioni e alle proprie ragioni.
Non ci sono ragioni per cui gli italiani accetteranno tutto questo, fermi, troppo a lungo. Anzi, forse un paio di motivi per cui non ci muoviamo mai ci sono. E non ci fanno bene.
Il primo: abbiamo un rapporto molto particolare col potere. Parliamo sempre male di tutto, delle istituzioni, della politica, ma spesso smettiamo di farlo se ci viene riservato un posto, se la raccomandazione che tanto osteggiamo arriva proprio a noi, se la società del merito che tanto chiediamo viene momentaneamente sospesa per farci entrare dalla porta di servizio. Quante volte abbiamo accettato di entrare gratis in un posto, di scroccare, di parcheggiare in tripla fila, di non chiedere lo scontrino e contemporaneamente di incazzarci con chi non lo fa? E quando qualcuno ci ha contestato di essere ‘come gli altri‘, quante volte abbiamo preferito rispondere: ‘lo fanno tutti, mica io sono scemo’?
Il secondo, strettamente collegato al primo: questo nostro comportamento non è figlio di un qualche particolare ‘gene italiano’ che ci porta a essere traffichini e arrivisti. La verità è che sono decenni che ci hanno fatto vedere che l’Italia funziona così, che se stai zitto forse alla fine sarai premiato, che se vai a letto col potente ti si apre qualche porta in più, che se fai una campagna elettorale per un politico poi forse ti daranno un contrattino, che se vai in televisione poi puoi diventare ricco e famoso. La corruzione reale si mischia con quella morale. Stai buono, che prima o poi qualcosa succederà. Se parli sei fuori. Questo, purtroppo, vale per moltissime organizzazioni, economiche e politiche.
Non è un caso che le rivolte di questi ultimi mesi viaggino attraverso i social media: Facebook e Twitter non hanno di sicuro i geni della violenza, ma facilitano il coordinamento. Se io voglio denunciare qualcuno o qualcosa, e trovo altre cinque persone che vogliono farlo, ho più coraggio e muovo qualcosa. E così via, in un passaparola potenzialmente inarrestabile. Per questo chi governa ha sempre la tentazione di limitare l’accesso alla Rete.
La distanza tra lo scontento e la rivoluzione è proprio nella rimozione di quelle due barriere. Basterebbe smettere di pensare a sè, di restare zitti aspettando la chiamata, basterebbe convincersi che l’estensione collettiva delle possibilità è un vantaggio per tutti, basterebbe soprattutto smetterla di fare la guerra tra ultimi e penultimi per un tozzo di pane e capire che chi non ha accesso al sapere, all’economia, ai diritti è comunque ultimo, per diventare finalmente una comunità e contrastare, tutti insieme, chi blocca il futuro.
Vorrei che questa spinta fosse pacifica, non vorrei violenza. Ma so quanto sia difficile rimanere calmi. Per molti è addirittura inutile. Però pensateci: forse basta cambiare governo, vigilare sugli eletti e rinunciare al favore personale, alla spintarella, alla via comoda, per avere in campio, e rapidamente, un Paese civile.
Dino Amenduni, Il Fatto quotidiano
Moltissimi di noi non hanno nessuna responsabilità diretta su questa situazione. Eppure la subiremo tutti. Per molte generazioni, comprese le precedenti e le successive alla mia, non ci sarà futuro, o sarà perennemente precario. Gli sforzi di una vita non saranno serviti a nulla: non sarà servito studiare, lavorare, fare carriera, risparmiare.
I nostri genitori, che magari avranno rinunciato a tante piccole cose per permetterci di vivere dignitosamente e sostituendosi a uno Stato sociale sempre più assente, vedranno i risultati del loro impegno sciogliersi come un gelato ad agosto.
I nostri figli, sempre che ci siano le condizioni per farne, nasceranno in una situazione molto peggiore rispetto a quella in cui siamo nati noi, che siamo già inguaiati e non sappiamo cosa sarà del nostro futuro. I nostri figli non avranno genitori pronti a salvarli, perché noi saremo troppo impegnati a sopravvivere.
In Italia ci sono tutte le condizioni affinché tutto esploda. Attorno a noi abbiamo visto, in questi anni, gli effetti della perdita della pazienza del popolo nei confronti del potere. Le banlieue francesi, gli indignados spagnoli, la Primavera Araba, ora i riots inglesi, dicono sempre la stessa cosa, seppur con modalità molto diverse tra loro: viviamo in una società dei consumi in cui chi ha è, chi non ha non è.
E chi non ha un’identità pur essendo cittadino, residente, elettore, contributore, chiede semplicemente di esercitare i suoi diritti. Se un fondamento così basilare viene negato a fasce crescenti della popolazione, i cittadini senza identità reagiscono. Se quella negazione è stata percepita come violenta, ingiusta, iniqua, i cittadini reagiscono violentemente, in modo non coordinato, talvolta facendo del male alle proprie rivendicazioni e alle proprie ragioni.
Non ci sono ragioni per cui gli italiani accetteranno tutto questo, fermi, troppo a lungo. Anzi, forse un paio di motivi per cui non ci muoviamo mai ci sono. E non ci fanno bene.
Il primo: abbiamo un rapporto molto particolare col potere. Parliamo sempre male di tutto, delle istituzioni, della politica, ma spesso smettiamo di farlo se ci viene riservato un posto, se la raccomandazione che tanto osteggiamo arriva proprio a noi, se la società del merito che tanto chiediamo viene momentaneamente sospesa per farci entrare dalla porta di servizio. Quante volte abbiamo accettato di entrare gratis in un posto, di scroccare, di parcheggiare in tripla fila, di non chiedere lo scontrino e contemporaneamente di incazzarci con chi non lo fa? E quando qualcuno ci ha contestato di essere ‘come gli altri‘, quante volte abbiamo preferito rispondere: ‘lo fanno tutti, mica io sono scemo’?
Il secondo, strettamente collegato al primo: questo nostro comportamento non è figlio di un qualche particolare ‘gene italiano’ che ci porta a essere traffichini e arrivisti. La verità è che sono decenni che ci hanno fatto vedere che l’Italia funziona così, che se stai zitto forse alla fine sarai premiato, che se vai a letto col potente ti si apre qualche porta in più, che se fai una campagna elettorale per un politico poi forse ti daranno un contrattino, che se vai in televisione poi puoi diventare ricco e famoso. La corruzione reale si mischia con quella morale. Stai buono, che prima o poi qualcosa succederà. Se parli sei fuori. Questo, purtroppo, vale per moltissime organizzazioni, economiche e politiche.
Non è un caso che le rivolte di questi ultimi mesi viaggino attraverso i social media: Facebook e Twitter non hanno di sicuro i geni della violenza, ma facilitano il coordinamento. Se io voglio denunciare qualcuno o qualcosa, e trovo altre cinque persone che vogliono farlo, ho più coraggio e muovo qualcosa. E così via, in un passaparola potenzialmente inarrestabile. Per questo chi governa ha sempre la tentazione di limitare l’accesso alla Rete.
La distanza tra lo scontento e la rivoluzione è proprio nella rimozione di quelle due barriere. Basterebbe smettere di pensare a sè, di restare zitti aspettando la chiamata, basterebbe convincersi che l’estensione collettiva delle possibilità è un vantaggio per tutti, basterebbe soprattutto smetterla di fare la guerra tra ultimi e penultimi per un tozzo di pane e capire che chi non ha accesso al sapere, all’economia, ai diritti è comunque ultimo, per diventare finalmente una comunità e contrastare, tutti insieme, chi blocca il futuro.
Vorrei che questa spinta fosse pacifica, non vorrei violenza. Ma so quanto sia difficile rimanere calmi. Per molti è addirittura inutile. Però pensateci: forse basta cambiare governo, vigilare sugli eletti e rinunciare al favore personale, alla spintarella, alla via comoda, per avere in campio, e rapidamente, un Paese civile.
Dino Amenduni, Il Fatto quotidiano
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