mercoledì 10 luglio 2013

Ecco chi paga la crisi di Nicola Melloni, Liberazione.it




Per una volta, gli ultimi dati economici provenienti dall’America sono stati ignorati dai nostri giornali. Non solo dai nostri, per la verità, anche al di là dell’oceano hanno fatto fatica a trovare spazio. Non c’è da sorprendersi però: non parlavano dei guadagni di Wall Street, non ci raccontavano le vicende delle agenzie di rating e non si riferivano neppure ad un ennesimo scandalo finanziario. Non per questo erano meno importanti: erano, infatti, i dati sui salari, che in un mondo “normale” ci dovrebbero dire qualcosa sullo stato di salute complessiva dell’economia. Di quella reale, però, non di quella finanziaria. E cosa dicono questi dati? Ci dicono che il salario orario è diminuito a velocità record nel primo quarto del 2013, una riduzione del 3,8%, la più alta mai registrata dal 1947, quando il Bureau of Labor Statistics iniziò a dare conto degli andamenti delle compensazioni. Non bastasse, nello stesso periodo, la produttività è aumentata dallo 0,5%, cosicché il costo del lavoro unitario è diminuito del 5,3%.
Cosa sta succedendo? Molto semplicemente che le compagnie americane stanno cercando di tornare competitive, e lo fanno soprattutto comprimendo la quota dei salari: il costo del lavoro scende, i profitti aumentano e la capitalizzazione delle aziende quotate è già tornata ai livelli pre-crisi mentre l’occupazione continua a rimanere stagnante. In breve, succede che i costi della crisi vengono scaricati interamente sul mondo del lavoro. In America come in Europa, la risoluzione della crisi passa attraverso una generale ristrutturazione del sistema produttivo. Si rilanciano gli investimenti e i profitti, si salvano le banche, si regala liquidità alle imprese, sempre ignorando il mondo del lavoro. Anzi, è proprio sul monte salari che si interviene più duramente per aumentare la profittabilità. E’ il sistema classico di risoluzione delle crisi che da sempre predicano i liberali, ed in fondo è il sistema Marchionne, quello per cui sono i lavoratori a pagare per il rilancio delle imprese. Ed è quello che predica anche l’Unione Europea, che cerca di intervenire sulla competitività dei paesi mediterranei attraverso disoccupazione di massa e salari minori.
Ma tutto questo non sembra essere una notizia interessante per la maggior parte dei media. Ormai non siamo più una repubblica fondata sul lavoro, ma sullo spread e l’andamento della Borsa. Da anni giornali e televisioni si occupano di MIB, Dow Jones e magari anche della Borsa di Tokyo, come se tutti fossimo investitori preoccupati dei guadagni giorno per giorno in conto capitale. O come se lavoro, salari, qualità della vita dipendessero dall’andamento dei listini. Cosa ormai provata come non vera, anzi, è quasi l’opposto. Per anni, soprattutto in America, si è aumentato il valore delle azioni delle grandi compagnie diminuendo i costi, soprattutto attraverso licenziamenti. Per vent’anni abbiamo visto performance record delle Borse internazionali, mentre la povertà aumentava, il lavoro veniva precarizzato, i salari rimanevano stagnanti. Le compagnie macinavano profitti, i CEO di turno realizzavano guadagni stratosferici ed intanto la diseguaglianza aumentava a livelli mai visti da oltre un secolo. La storia che la ricchezza delle compagnie e l’accumulazione dei profitti ricadano sempre inevitabilmente verso il mondo del lavoro, e che sia il sistema tutto a godere della crescita economica è ormai smentita dai fatti. In realtà è esattamente il contrario, con i possessori di capitale, finanziario e/o fisico, che accumulano sfruttando il lavoro, succhiando le risorse dello Stato, piegando il sistema economico ai propri interessi. Si chiama guerra di classe, un concetto che si è preferito dimenticare per lasciare spazio alle notizie sulle Borse di tutto il mondo.

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