Dall’inizio
dell’anno sono aumentate le dichiarazioni sulla necessità di allentare
le misure di austerity (non di abolirle, si badi bene). A novembre 2012,
il capo economista del FMI, Olivier Blanchard ha ammesso che gli
effetti recessivi delle politiche di rientro dal debito in alcuni paesi
europei sono stati sottostimati.
I primi dati del 2013 hanno confermato che anche la Francia (dopo
Portogallo Irlanda, Italia, Grecia e Spagna, ovvero i Pigs) è
ufficialmente entrata in recessione dopo il secondo segno negativo
consecutivo negli ultimi due trimestri. Ma neanche la Germania se la
passa meglio. Il 5 maggio 2013 l’Olanda ha annunciato che rinunzierà al
programma di austerità che doveva ridurre il deficit per uno 0,8% del
Pil. Pochi giorni prima (25 aprile) il commissario europeo agli Affari
Economici Olli Rehn ha affermato che “il rallentamento del
consolidamento (riduzione del deficit e debito pubblico, ndr.) è
possibile”.
In parole più chiare, le politiche d’austerity possono quindi essere
allentate. Sul piano accademico, il fondamento teorico delle validità
delle politiche di austerità (che si basava sul lavoro di due insigni
economisti di Harvard, Carmen Reinhart and Kenneth Rogoff, in cui si
mostra che un rapporto debito/PIL superiore al 90% porta a una fase di
recessione) è stato fragorosamente invalidato da economisti
dell’Università del Massachusetts (non Harvard) che hanno ravvisato un
errore di calcolo nel procedimento di stima e la cui correzione ha
portato a risultati opposti (il cd. excelgate che tanto dibattito ha
scatenato negli Stati Uniti, ma che è stato occultato del tutto dai
media italiani: al riguardo, aspettiamo con ansia un editoriale di
Giavazzi e Alesina sul Corriere della Sera).
Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per procedere ad un cambio di
passo nella governance economico-finanziaria dell’Europa. Stiamo dunque
entrando in una nuova fase? Possiamo dire che siamo in una fase di
transizione, che probabilmente avrà termine nel prossimo settembre,
all’indomani delle elezione tedesche, almeno per quanto riguarda
l’Europa.
Da un lato, la stretta creditizia continua a operare sull’economia
reale, in modo dipendente dalle dinamiche che si determinano nei mercati
finanziari, oggi il centro del processo (instabile) di valorizzazione.
Dall’altro, guardando oltre l’Europa, la creazione di liquidità sui
mercato asiatici, grazie alla svolta operata dal nuovo governo
giapponese (la cd. Abeconomics), subito seguita dalla Korea del Sud e
gioco forza dalla Federal Reserve USA, se, per certi aspetti, come nel
caso dell’economia giapponese ha spinto la crescita del Pil, tuttavia
può creare instabilità nella finanza speculativa (come l’andamento delle
borse mondiali in questo periodo testimonia).
All’instabilità finanziaria si aggiunge inoltre l’instabilità sul
mercato delle valute, con la possibilità di creare nuovi ambiti di
speculazione sul debito estero. A fronte di tale situazione, la Federal
Reserve sembra oggi preferire una politica di maggior cautela, con
dichiarazioni di riduzione di creazione di liquidità tramite l’acquisto
dei titoli di Stato. Ritorna così in auge una politica monetarista?
È presto per dirlo soprattutto se la minor espansione monetaria in
Usa è accompagnata dall’allentamento delle politiche di austerity in
Europa. Certo è che se negli anni ’70 il trade-off era rappresentato dal
nesso disoccupazione – inflazione, oggi sembra essere rappresentato dal
nesso crescita economica – instabilità finanziaria con il rischio di
scoppio di qualche bolla speculativa (e tutti gli effetti domino che ne
derivano).
Difficile dire che la nuova fase sarà comunque caratterizzata da una crescita economica.
Da un lato, perché la gestione di una crisi diventata “norma” è uno degli strumenti più potenti dell’attuale governance sociale e politica, dall’altro perché non sono attualmente presenti condizioni per una stabilità geopolitica e geoeconomica a livello mondiale (che permetterebbe di poter controllare una nuova fase di accumulazione capitalistica) in grado di calmierare gli appetiti speculativi del gotha della finanza.
Da un lato, perché la gestione di una crisi diventata “norma” è uno degli strumenti più potenti dell’attuale governance sociale e politica, dall’altro perché non sono attualmente presenti condizioni per una stabilità geopolitica e geoeconomica a livello mondiale (che permetterebbe di poter controllare una nuova fase di accumulazione capitalistica) in grado di calmierare gli appetiti speculativi del gotha della finanza.
Siamo così di fronte a nuove problematiche, che rimandano a vecchi nodi:
a) Si riuscirà a costituire quello spazio di idee a livello europeo in grado di avviare un processo costituente non dell’Europa ma piuttosto delle forze politiche anti-austerity, in grado di incidere sulla modulazione della nuova fase che si sta aprendo?
b) Si riuscirà a costituire uno spazio comune di movimento a livello europeo in grado di incidere e modificare gli attuali rapporti di forza, soprattutto in una situazione sociale che sta vivendo il sesto anno di crisi?
a) Si riuscirà a costituire quello spazio di idee a livello europeo in grado di avviare un processo costituente non dell’Europa ma piuttosto delle forze politiche anti-austerity, in grado di incidere sulla modulazione della nuova fase che si sta aprendo?
b) Si riuscirà a costituire uno spazio comune di movimento a livello europeo in grado di incidere e modificare gli attuali rapporti di forza, soprattutto in una situazione sociale che sta vivendo il sesto anno di crisi?
Il nuovo scenario che si apre è all’insegna del conflitto tra due
poteri costituenti. Quello (antico) della governance finanziaria e
monetaria, comunque costretta a modificare, parzialmente ma
significativamente, la rotta dell’austerità ottusamente perseguita sino a
oggi. E quello sociale e del comune,
stretto tra la necessità di aprire interlocuzioni con quella parte
della rappresentanza istituzionale più sensibile ad accogliere
cambiamenti di rotta (ma non ancora in grado di tramutarsi in egemonia
politica) e il mantenimento di istanze di movimento, oggi sempre più
messe in difficoltà dal cappio della crisi e incapaci di tramutarsi in
egemonia culturale.
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