E’
il 2 gennaio, ma è il primo giorno di uscita dei quotidiani nel 2014,
dunque in un certo senso il capodanno dei media. Però altro che vita
nuova: l’anno comincia con una straordinaria e indecorosa dimostrazione
di servilismo e disinformazione sull’annuncio che Fiat è riuscita a
comprare il 100% di Chrysler. Una comunicazione marchionnesca la cui
tempistica sa già di manipolazione visto che comunque l’accordo con Veba
per l’acquisto del 41 per cento del gruppo americano verrà siglato a
fine gennaio: ma Fiat ha mosso tutte le sue pedine in seno alla politica
e alla comunicazione affinché dal sistema mediatico e dai suoi
referenti politici e sindacali si levasse un te deum anzi un te Sergio
di ringraziamento e si fantasticasse su un rilancio dell’auto in Italia,
visto che adesso è possibile accedere alle casse di Chrysler.
La realtà, come forse si avverte per istinto, è molto diversa:
Chrysler – Fiat è il più indebitato dei gruppi automobilistici tanto che
Marchionne l’ha spuntata su Veba (il fondo pensionistico dei
lavoratori) che chiedeva 5 miliardi per il suo 41% di azioni, proprio
facendo pubblicare i bilanci del gruppo ed evidenziando le piaghe
debitorie: solo così è riuscito a strappare uno sconto e a pagare solo
4,35 miliardi di dollari in totale. Quindi soldi pochissimi, anzi meno
di prima dopo questo esborso e i pochi disponibili solo per prodotti di
nicchia o per modelli “chimera” di scarso appeal come è già accaduto con
la Lancia, pensati con il bricolage di pezzi, scocche e motori di due
gruppi che più diversi non si può. La stessa filosofia è oggi in agguato
per l’Alfa, costretta a dover reggere il peso della fusione con una
delle marche automobilistiche meno innovative, con il record negativo
della qualità, almeno secondo i consumatori americani, in crisi perenne
da quasi 40 anni, da sempre alla ricerca di un partner europeo per
evitare l’assimilazione a General Motors o a Ford, già capace di
dissestare le finanze della Peugeot e della Mercedes che incautamente
avevano in animo una fusione. E del resto niente è più stupido del
giubilo che s’innalza di fronte all’operazione finale dicendo che ora
Fiat Chrysler è il settimo costruttore al mondo: la fusione di due
grandi gruppi che insieme sono solo al 7° posto è già una prova di
grande debolezza anche perché l’anno scorso erano al sesto.
Inoltre è chiaro che
ora il quartier generale Fiat passa in Usa, come del resto ha già fatto
sapere Marchionne, con tutte le conseguenze del caso: da un ruolo di
progettazione e di produzione l’Italia diventerà man mano un’ area di
assemblaggio con una occupazione residuale. La cosa singolare e
deprimente è che tutta l’informazione, pur riconoscendo qui e là qualche
rischio Paese nella fasi conclusive di questa operazione, si esalta
dicendo che la Fiat diventa ora un costruttore globale. In realtà è
invece Chrysler che lo diventa da gruppo – a parte il marchio Jeep –
confinato sostanzialmente in Usa e per il 70%’ negli stati del middle
west. Era la Fiat ad avere ad avere produzioni in Sudamerica, in
Turchia e joint venture in Russia e sia pure tardivamente in India e in
Cina. Era il gruppo torinese ad avere un respiro mondiale, sia pure
affannoso, che oggi porta in dote alla mediocre azienda americana per
fare gli interessi degli Agnelli e succedanei, i quali da anni sognavano
la fuga dall’Italia, dopo averla spremuta come un limone.
Certo il recupero del
mercato dell’auto Usa dovuto soprattutto alla rinascita dei prestiti
alla cieca (con il pericolo di una nuova bolla in preparazione) offre
momentaneamente delle chance alla Chrysler – Fiat che ha aumentato le
proprie vendite più di Ford e General Motors (ma molto meno di Toyota e
Honda) tuttavia evidenzia dei problemi: i modelli più venduti oltre
oceano sono i pick up o comunque auto difficilmente traducibili sul
mercato europeo e qui la Chrysler pare fuori dai giochi, mentre il
mercato delle berline è in mano ai giapponesi e la prima Chrysler appare
intorno al ventesimo posto. Insomma la crescita è qualitativamente
gracile e incerta, molto più di quanto non sembrino dire i numeri
globali ed esposta a molti rischi. Tanto più che le risorse per gli
investimenti in altre aree sono stati sacrificati per la fusione e ora
fiat arretra non soltanto in Europa, ma anche in Brasile.
Ciò che fa bene alla
Fiat fa bene all’Italia si diceva un tempo. Adesso è esattamente il
contrario: di uguale rimane solo il servo ossequio.
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