Televisione. Il
film-tv di Graziano Diana, dedicato al commissario Calabresi, riscrive
un periodo del nostro paese senza né storia né verità. Le bugie dello
Stato, le montature contro gli anarchici, il buio che ancora avvolge la
morte di Pinelli, scompaiono come in una foto sbianchettata
La storia la scrivono i vincitori, e la torcono a proprio
uso e piacimento. Il fattaccio è noto, non c’è da sbigottire
o fingere scandalizzata sorpresa. Ai vinti, finché non sono afoni,
spetta il compito, sovente ingrato, di confutare e correggere
e tentare di impedire che le versioni addomesticate del passato
s’impongano come senso comune per i posteri. A volte gli riesce.
Gli anni spezzati, il brutto film-tv dedicato da Raiuno al
commissario Luigi Calabresi stupra la storia recente di questo
Paese. Occorre segnalarlo senza strilli, senza fingersene stupiti e,
possibilmente, senza attaccarsi a particolari in questo caso
irrilevanti come «lo specifico filmico» o lo scarso spessore
psicologico dei personaggi. Non è di Re Lear che qui si tratta né
del Cittadino Kane, ma di un commissario ammazzato per strada,
sanguinoso epilogo di una storiaccia che più torbida non si poteva
e, allo stesso tempo, alba tragica di una fase storica che di
tragedie ne avrebbe contate a mazzi.
Lo scopo del regista Graziano Diana non era problematizzare la
figura della vittima: era santificare il martire. Nulla di strano,
dunque, se il commissario Calabresi appare il primo, se non
l’unico, ad annusare il marcio, a subodorare la mano fascista
dietro la mattanza, se arriva addirittura a individuare un
progettato golpe e persino indica le responsabilità (peraltro
tutt’altro che accertate) dell’allora presidente del consiglio
Rumor Mariano. Non si può chiedere obiettività a un santino in forma
di filmetto.
Da una produzione sovvenzionata in parte dalle forze di polizia
non si può neppure pretendere che dipinga le medesime come gente
abituata a usare la mano pesante, spesso a sproposito. Giusto nella
fase che nella fiction occupava quasi per intero la puntata
iniziale, primavera 1969, quella delle prime bombe, capitò ai ragazzi
in grigioverde di stecchire due manifestanti a Battipaglia,
e pochi mesi prima era stato il turno di due braccianti ad Avola.
Particolari.
È già grasso che cola se almeno gli apicali, al secolo i dottori
Guida e Allegra, ci fanno la figura dei pesci in barile e di chi serra
gli occhi per non vedere. C’è persino il caso che qualche imberbe,
alle prese per la prima volta con quella non lontanissima epoca, si
faccia l’idea che ai tempi la polizia democratica, almeno nei suoi
vertici, forse tanto democratica non era. Anche se non era certo
questo il conclamato intento degli autori-apologeti.
Tutto ciò andava messo nel conto già in partenza. La
falsificazione grossolana della verità storica va rintracciata
altrove, non nell’aura sacrale che circonda la polizia in genere e il
protagonista in particolare. La strage del 12 dicembre 1969
lacerò le coscienze più di qualunque altra tragedia della storia
repubblicana non tanto per l’enormità del delitto quanto per il ruolo
di copertura, complicità, connivenza e depistaggio che
giocarono subito dopo, e poi per anni, le istituzioni dello Stato:
tutte e ciascuna. La montatura a freddo contro gli anarchici. La
morte in questura di un poveraccio che non c’entrava niente e che era
a tutti gli effetti detenuto illegalmente, Pino Pinelli,
precipitato dalla finestra dell’ufficio del dottor Calabresi in
corso d’interrogatorio. Le ignobili menzogne con cui la polizia,
commissario incluso, spiegò il fattaccio: quel «balzo felino» verso
il vuoto con tanto di eloquente urlo, «È la fine dell’anarchia», che
dalla sceneggiatura sono scomparsi come da una foto sbianchettata.
Le conclusioni della magistratura su quel misterioso decesso:
derubricato da suicidio a non meglio spiegato «malore attivo», e se
qualcuno capisce cosa significhi è un campione. Le implicazioni
del servizio segreto e l’aiuto offerto dallo Stato all’agente
Giannettini perché fuggisse all’estero. Lo spostamento del
processo dalla sua sede naturale a un porto delle nebbie calabrese.
Tutto questo non venne fuori grazie alle intuizioni di qualche
onesto commissario, ma sulla base di una controinchiesta svolta
dal movimento di quegli anni. Le innumerevoli bugie non furono
smascherate da qualche ineccepibile servitore dello Stato ma da
chi lo Stato combatteva. La montatura crollò sotto i colpi di
un’opinione pubblica che, per la prima volta, si armava degli
strumenti della controinformazione e della mobilitazione
diffusa. La stessa campagna contro il commissario Calabresi non
fu il frutto di una cannibalesca sete di linciaggio, fu il
tentativo di ottenere una verità che il potere, futura vittima
inclusa, intendeva a ogni costo celare. Di tutto questo nel film
dell’Istituto Luce andato in onda su Raiuno non c’era traccia. Per
questo non c’erano tracce né di storia né di verità.
Passi. La propaganda è propaganda: non le si chiederà di essere
altro. Ma nelle scritte finali, quelle che ricordano gli esiti di
quelle vicende, i processi in cui sono stati condannati i leader di
Lotta continua per l’omicidio Calabresi, quelli nei quali non è mai
stato condannato nessuno per la strage, non c’è neppure una
frasetta scarna per segnalare che continua a campeggiare il buio
anche sulla morte di Pino Pinelli, ferroviere anarchico
e galantuomo, arrivato in questura sul proprio motorino, detenuto
oltre i limiti di tempo consentiti dalla legge, precipitato chissà
come, vilipeso e offeso nella sua memoria a suon di bugie immonde da
chi era deputato a cercare la verità. È l’assenza di quella frase
a essere davvero imperdonabile.
Pinelli, la Rai falsifica la storia
di Paolo Brogi, da brogi.info
Con i soldi che gli italiani “devono” pagare ogni anno – di nuovo proprio in questo mese – la Rai servizio pubblico si permette di mandare in onda falsificazioni così spudorate come quella realizzata ieri sera sulla morte di Giuseppe Pinelli, firmata dal regista Graziano Diana con fior di sceneggiatori e di consulenti storici (ben tre, complimenti). Tralascio il resto della fiction su Luigi Calabresi e torno su questa impudente versione offerta a milioni di italiani sul “suicidio” di Giuseppe Pinelli.
Com’è noto l’unico riscontro giudiziario è quello firmato allora dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che nel 1975 concluse con quel contestatissimo “malore attivo”. Com’è noto la verità giudiziaria non è andata purtroppo oltre quella formula bislacca con cui si è voluto chiudere il caso, ma che comunque non è il suicidio che i poliziotti del filmato invece gridano dalla finestra con quel “si è suicidato, si è suicidato”, quasi un coro liberatorio…
C’era fuori della porta della stanza in cui veniva interrogato Giuseppe Pinelli un altro anarchico, trattenuto anche lui illegalmente con un fermo che si sarebbe protratto fino al giorno dopo. E quel Valitutti ha sempre sostenuto di non aver visto uscire il commissario Calabresi dalla stanza, in cui erano – conclude D’Ambrosio – quattro poliziotti e un carabiniere. Delle menzogne di allora ci è stata risparmiata la frase messa in bocca a Pinelli “E’ morta l’anarchia”, mai confermata ufficialmente e comunque fatta circolare. Per fortuna non è stata raccolta neanche l’altra menzogna che allora venne fatta ugualmente circolare, quella di una scarpa di Pinelli che sarebbe rimasta in mano a un agente che perciò l’avrebbe trattenuto, solo che Pinelli sul selciato fu trovato con tutte e due le scarpe.
E poi tralasciamo la caduta “verticale” e altre questioni.
Resta l’adozione di quella versione del suicidio di Giuseppe Pinelli che trasforma la Rai, questa Rai con i suoi dirigenti ben pagati, in una gigantesca fabbrica della falsificazione.
Gigantesca perché con totale impudenza ha riscritto una pagina dolorosa del nostro passato a modo suo, scegliendo di trasformare qualcosa che ancor oggi non sappiamo come sia accaduto in qualcosa di certo e di certamente assolutorio per la Questura di Milano, guidata – ricordiamolo – da un uno come Marcello Guida che da giovane funzionario era stato direttore delle guardie di Ventotene e Santo Stefano durante gli anni del fascismo che lì nelle isole confinava e rinchiudeva oppositori antifascisti. Un uomo a cui in quei giorni del 1969 Sandro Pertini rifiutò di stringere la mano.
Graziano Diana è al suo terzo film tv, il primo gli era stato bloccato dall’allora ministro di grazia e giustizia. Fu poi mandato successivamente in onda. Ha fatto a lungo lo sceneggiatore, anche di vicende reali, dunque non è nuovo alla consultazione di documenti pur ovviamente restando libero in quanto autore di fiction di godere di una relativa libertà. Ma si può falsificare in questo modo una vicenda che ha rivestito un ruolo così centrale negli ultimi quaranta anni?
Io non ci sto. E mi auguro che anche altri lo dicano anche rivolgendo opportune interrogazioni in merito a questi disinvolti scempi, anche e soprattutto perché attuati con soldi pubblici, quelli della Rai. E qualcuno dovrebbe pure chiedere scusa alle tre donne di casa Pinelli.
di Paolo Brogi, da brogi.info
Con i soldi che gli italiani “devono” pagare ogni anno – di nuovo proprio in questo mese – la Rai servizio pubblico si permette di mandare in onda falsificazioni così spudorate come quella realizzata ieri sera sulla morte di Giuseppe Pinelli, firmata dal regista Graziano Diana con fior di sceneggiatori e di consulenti storici (ben tre, complimenti). Tralascio il resto della fiction su Luigi Calabresi e torno su questa impudente versione offerta a milioni di italiani sul “suicidio” di Giuseppe Pinelli.
Com’è noto l’unico riscontro giudiziario è quello firmato allora dal giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio che nel 1975 concluse con quel contestatissimo “malore attivo”. Com’è noto la verità giudiziaria non è andata purtroppo oltre quella formula bislacca con cui si è voluto chiudere il caso, ma che comunque non è il suicidio che i poliziotti del filmato invece gridano dalla finestra con quel “si è suicidato, si è suicidato”, quasi un coro liberatorio…
C’era fuori della porta della stanza in cui veniva interrogato Giuseppe Pinelli un altro anarchico, trattenuto anche lui illegalmente con un fermo che si sarebbe protratto fino al giorno dopo. E quel Valitutti ha sempre sostenuto di non aver visto uscire il commissario Calabresi dalla stanza, in cui erano – conclude D’Ambrosio – quattro poliziotti e un carabiniere. Delle menzogne di allora ci è stata risparmiata la frase messa in bocca a Pinelli “E’ morta l’anarchia”, mai confermata ufficialmente e comunque fatta circolare. Per fortuna non è stata raccolta neanche l’altra menzogna che allora venne fatta ugualmente circolare, quella di una scarpa di Pinelli che sarebbe rimasta in mano a un agente che perciò l’avrebbe trattenuto, solo che Pinelli sul selciato fu trovato con tutte e due le scarpe.
E poi tralasciamo la caduta “verticale” e altre questioni.
Resta l’adozione di quella versione del suicidio di Giuseppe Pinelli che trasforma la Rai, questa Rai con i suoi dirigenti ben pagati, in una gigantesca fabbrica della falsificazione.
Gigantesca perché con totale impudenza ha riscritto una pagina dolorosa del nostro passato a modo suo, scegliendo di trasformare qualcosa che ancor oggi non sappiamo come sia accaduto in qualcosa di certo e di certamente assolutorio per la Questura di Milano, guidata – ricordiamolo – da un uno come Marcello Guida che da giovane funzionario era stato direttore delle guardie di Ventotene e Santo Stefano durante gli anni del fascismo che lì nelle isole confinava e rinchiudeva oppositori antifascisti. Un uomo a cui in quei giorni del 1969 Sandro Pertini rifiutò di stringere la mano.
Graziano Diana è al suo terzo film tv, il primo gli era stato bloccato dall’allora ministro di grazia e giustizia. Fu poi mandato successivamente in onda. Ha fatto a lungo lo sceneggiatore, anche di vicende reali, dunque non è nuovo alla consultazione di documenti pur ovviamente restando libero in quanto autore di fiction di godere di una relativa libertà. Ma si può falsificare in questo modo una vicenda che ha rivestito un ruolo così centrale negli ultimi quaranta anni?
Io non ci sto. E mi auguro che anche altri lo dicano anche rivolgendo opportune interrogazioni in merito a questi disinvolti scempi, anche e soprattutto perché attuati con soldi pubblici, quelli della Rai. E qualcuno dovrebbe pure chiedere scusa alle tre donne di casa Pinelli.
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