La
ratifica del Trattato di stabilità fiscale condurrà a una forma di
austerità perpetua e a un restringimento mortale della democrazia in
Europa. Proponiamo un capitolo da “Cosa salverà l'Europa. Critiche e proposte per un'economia diversa” a cura di B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak, in questi giorni in libreria per Minimum Fax.
Un patto per l'austerità perpetua
«Più va a rotoli, più ci sono possibilità che funzioni» [1]
La crisi attuale, iniziata nel 2007, ha messo in evidenza i pericoli della costruzione europea attuale dominata dal neoliberismo. Nei primi mesi del 2012, le classi dirigenti così come la tecnocrazia europea sono state incapaci di superare la crisi. Ancora peggio, oggi utilizzano la crisi per raggiungere il loro principale e costante obiettivo: ridurre la spesa pubblica, indebolire il modello sociale europeo, il diritto al lavoro, e impedire ai cittadini di avere una qualsiasi voce in capitolo.
La
situazione diventa così catastrofica. Per ammissione stessa della
Commissione, la zona euro prevede un calo del Pil nel 2012 (-0,3%). Nel
marzo 2012, il tasso di disoccupazione della zona euro ha raggiunto il
10,9%. La crisi si è tradotta nella perdita di circa il 9% del Pil.
Tuttavia, la Commissione continua a imporre politiche di austerity, che
spingono l’Europa verso una recessione senza fine. Sebbene siano la
cecità e l’avidità dei mercati finanziari ad aver causato la crisi, sono
la spesa pubblica e la protezione sociale a essere colpite.
La
Commissione, la Bce e gli stati membri consentono ai mercati finanziari
di speculare contro i debiti pubblici. Hanno permesso ai creditori di
imporre tassi d’interesse esorbitanti all’Italia e alla Spagna. Tre dei
paesi membri – Grecia, Portogallo e Irlanda – hanno visto direttamente
la Troika (Commissione, Bce e Fmi) decidere le loro politiche
economiche.
L’azione
che ha intrapreso oggi la Commissione insieme ai leader degli stati
membri consiste nel tentare di imporre alla popolazione, senza
consultarla, un trattato che scolpirà nella pietra politiche
economicamente suicide. Queste politiche sono realmente volte a salvare
l’euro, o piuttosto dietro di esse si cela «un’agenda nascosta»? Si
tratta solo di «rassicurare i mercati», o piuttosto di imporre ad ogni
modo alla popolazione europea un adeguamento strutturale di grandi
dimensioni al fine di ridare competitività all’Europa nella guerra
economica globale, con la Cina e gli altri paesi emergenti che competono
con bassi salari? Queste sono le domande che il patto solleva, cui noi
tentiamo di rispondere in questo libro.
Per
fare ciò, dobbiamo iniziare da un’affermazione essenziale: il patto si
basa su una diagnosi errata – o dovremmo dire falsa, considerata la
difficoltà nel credere alla cecità dei nostri governanti.
Infatti
la diagnosi implicita che sta alla base consiste nel ritenere che la
mancanza di una disciplina fiscale sia la causa delle difficoltà della
zona euro. Gli stati membri sono stati troppo «lassisti» e hanno
lasciato gonfiare la spesa pubblica per finanziare un modello sociale
obeso e obsoleto. Tuttavia i dati negano fortemente questa tesi: prima
della crisi i paesi europei non si caratterizzavano per livelli di
deficit pubblico particolarmente elevati: durante il periodo 2004-2007
gli Stati Uniti avevano un deficit medio del 2,8% del Pil, il Regno
Unito del 2,9% e il Giappone del 3,6%, mentre quello della zona euro era
solo dell’1,5%. Il debito pubblico della zona euro non è aumentato in
percentuale più del Pil. Solo la Grecia presentava un disavanzo
eccessivo. Mentre paesi come l’Irlanda e la Spagna, oggi in difficoltà,
non presentavano alcun disavanzo pubblico.
Il Patto di stabilità e crescita è un fallimento...
Gli
organismi europei sono stati a lungo concentrati sul rispetto di norme
arbitrarie definite dal Trattato di Maastricht (1991) e dal Patto di
stabilità e crescita (1999). Essi hanno lasciato crescere gli squilibri
in Europa tra i paesi del Nord, che guadagnavano in termini di
competitività ed eccedenze commerciali, e i paesi del Sud, travolti da
una bolla immobiliare e dall’aumento del debito privato.
Non
si sono accorti dei pericoli che possono derivare tanto dagli squilibri
delle economie reali quanto dalla deregolamentazione finanziaria.
Invece
di prendere atto di questa cecità, e di porvi rimedio, la filosofia
fondamentale del Fiscal Compact è quella di proseguire allo stesso modo,
attraverso un’ancora maggiore rigidità, portando all’estremo il Patto
di stabilità e crescita in vigore dal 1999, seguendo quel comportamento
che ha portato alla situazione catastrofica attuale. Questo patto,
ricordiamo, si componeva di tre voci principali:
1.
Divieto di disavanzi pubblici superiori al 3% del Pil. Questo limite si
applicava ai saldi correnti (non corretto per le fluttuazioni
cicliche). Questo limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso
di mancato rispetto: la Procedura per deficit eccessivi (Pde) obbligava
il paese «in difetto» a intraprendere una politica di restrizione
fiscale e a rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla
Commissione e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una
sanzione.
2.
Divieto di un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Superato questo
limite, i paesi «in difetto» dovevano avviare delle politiche
correttive. Ma questo vincolo non prevedeva procedimenti sanzionatori.
3.
Ciascun paese doveva presentare, alla fine dell’anno, un programma di
stabilità (il bilancio approvato per l’anno n+1 e una proiezione per gli
anni da n+2 a n+4), con l’obiettivo di raggiungere una posizione
fiscale «strutturale» [2] in modo da chiudere in equilibrio nel medio
termine. Se il saldo strutturale risultava in disavanzo, esso doveva
essere ridotto di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. Una volta raggiunto
l’equilibrio, i paesi dovevano impegnarsi a mantenerlo. Era prevista la
possibilità che lasciassero fluttuare i loro saldi in funzione della
congiuntura (cosiddetti stabilizzatori automatici), ma non potevano
adottare misure discrezionali per sostenere l’attività economica.
Il
Patto di stabilità e crescita così definito si è tradotto in continue
tensioni e, in ultima analisi, è stato solo raramente rispettato. Nel
2005, cinque dei dodici paesi della zona avevano un deficit superiore al 3% del Pil.
I paesi non hanno mai rispettato i loro programmi quadriennali di
stabilità, poiché non hanno potuto impegnarsi a seguire una politica
fiscale predefinita per quattro anni, senza tener conto della
congiuntura. Con la crisi, queste regole sono state buttate fuori dalla
finestra dai governi. Tutti i paesi (esclusa la Finlandia) hanno infatti
superato nel 2009 i tetti del 3% del deficit e del 60% del debito
pubblico. Malgrado ciò, la Commissione ha voluto «rafforzare il Patto di
stabilità e crescita» piuttosto che ripensare l’organizzazione della
politica fiscale della zona. Il nuovo trattato riprende un insieme di
disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-2011 e, per la
maggior parte, già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo, come
il Patto per l’euro e i Six+Two-pack (vedi l’Appendice 3).
...Il Fiscal Compact lo radicalizza
Le
principali disposizioni del nuovo trattato estendono e radicalizzano i
trattati precedenti, in particolare il Patto di stabilità e crescita.
Nell’articolo 1, il trattato riprende infatti le affermazioni abituali
degli organismi europei. Le regole sono «volte a rafforzare il
coordinamento delle politiche economiche». Ma vincoli numerici sui
debiti e sui deficit pubblici, che non tengono conto delle differenti
situazioni economiche, non possono di certo favorire un reale
coordinamento di politiche economiche.
Allo
stesso modo, il trattato afferma di rafforzare «il pilastro economico
dell’Unione Europea al fine di realizzare gli obiettivi in materia di
crescita duratura, occupazione, competitività e coesione sociale», ma al
di là delle parole, niente di concreto viene previsto per facilitare la
realizzazione di tali obiettivi, anzi si favorisce il contrario.
L’articolo
3.1, che rappresenta il cuore del Fiscal Compact, soffoca
definitivamente le politiche economiche. Esso afferma che «il bilancio
delle amministrazioni pubbliche deve essere in equilibrio o in avanzo;
questa regola si considera soddisfatta se il deficit strutturale annuale
delle amministrazioni pubbliche risulta inferiore allo 0,5% del Pil. I
paesi devono garantire una convergenza rapida verso questo obiettivo. I
tempi di questa convergenza verranno definiti dalla Commissione. I paesi
non possono discostarsi da questi obiettivi o dal loro percorso di
aggiustamento se non in circostanze eccezionali. Un meccanismo di
correzione è avviato automaticamente se si individuano forti divergenze;
ciò comporta l’obbligo di adottare misure volte a correggere queste
deviazioni in un periodo determinato».
Così,
il quasi-equilibrio delle finanze pubbliche è sancito dal trattato, pur
non avendo alcuna giustificazione economica. Al contrario la vera
«regola d’oro delle finanze pubbliche», insegnata in ogni testo di
economia (si veda l’Appendice 4), giustifica che «gli investimenti
pubblici possano essere finanziati attraverso il debito pubblico, nella
misura in cui essi vengano utilizzati per molti anni»: il deficit
finanzia degli investimenti capaci di creare ricchezza che permetterà di
stabilizzare o rimborsare il debito stesso. Nel caso della Francia, ciò
permetterebbe un deficit permanente dell’ordine del 2,4% del Pil.
Infatti,
il livello del deficit pubblico dovrebbe essere considerato come
legittimo non in base a una regola quantitativa immutabile fissata in
anticipo, ma perché permette di raggiungere un livello di domanda
soddisfacente determinando un livello di produzione che non causi
disoccupazione di massa, né un aumento dell’inflazione. Non vi è alcuna
garanzia che il saldo di bilancio desiderato garantisca l’equilibrio. In
particolare all’interno della zona euro, in cui i paesi non hanno più
alcun controllo sul tasso d’interesse, né sul tasso di cambio (che
dipendono dalla politica della Bce e dai mercati finanziari), essi hanno
ancor più bisogno di avere dei margini di manovra in termini di
politica fiscale per affrontare situazioni difficili. Inserire il
pareggio di bilancio nella Costituzione equivale a prescrivere per gli
uomini calzature numero 42 e per le donne 40.
Questo
equilibrio non ha senso sul piano empirico. Se consideriamo, per
esempio, i dieci anni prima della crisi, dal 1998 al 2007, e prendiamo i
dati dell’Ocse, la Germania, l’Italia, la Francia e il Giappone hanno
sempre avuto un deficit strutturale superiore allo 0,5% del Pil; mentre
il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno superato il limite sette anni su
dieci. Per cui, il tetto imposto non è mai stato rispettato in maniera
duratura.
Il
Fiscal Compact richiede ai paesi di seguire un sentiero di convergenza
rapida verso l’equilibrio di bilancio, definito dalla Commissione, senza
tener conto della situazione congiunturale. I paesi perderanno dunque
ogni possibile libertà d’azione. Come precauzione supplementare, un
meccanismo «automatico» dovrà essere messo in pratica per ridurre il
deficit. Se la Commissione stabilisce che un paese ha raggiunto per
esempio un «deficit strutturale» pari a tre punti percentuali del Pil,
questo dovrà mantenere un «deficit strutturale» limitato a 2% l’anno
successivo, amputando in tal modo la domanda (attraverso una riduzione
delle spese e un aumento delle imposte) di un punto del Pil,
indipendentemente dal livello di disoccupazione. Un paese colpito da una
recessione economica non avrebbe così il diritto di attuare una
politica a sostegno dell’economia. Tuttavia, nel 2008-2009, la
Commissione stessa aveva richiesto a tutti i paesi di adottare politiche
di sostegno.
Certamente,
come per il Patto di stabilità e crescita, sarebbe comunque possibile
prevedere uno scarto temporaneo in caso di circostanze eccezionali, come
in caso di un «tasso di crescita negativo o un declino cumulativo della
produzione per un periodo prolungato», ma le misure correttive
dovrebbero essere sempre pianificate e adottate rapidamente.
Quando
un paese ha superato i limiti prescritti ed è soggetto a una Procedura
per deficit eccessivi (Pde), deve presentare un Programma di riforme
strutturali alla Commissione e al Consiglio, i quali dovranno approvarlo
e monitorarne l’attuazione (articolo 5).
Quest’articolo
non è nient’altro che un’arma ulteriore per imporre alla popolazione
europea riforme liberiste. Oggi, la quasi totalità dei paesi dell’Unione
Europea (23 su 27) è soggetta a una Pde. Oltre ai piani di riforma
delle pensioni (aumento dell’età pensionabile), si vogliono imporre un
abbassamento del salario minimo, minori prestazioni sociali (Irlanda,
Grecia, Portogallo), la riduzione delle protezioni contro il
licenziamento (Grecia, Spagna, Portogallo), la sospensione della
contrattazione collettiva a favore della contrattazione d’impresa, più
favorevole ai datori di lavoro (Italia, Spagna, etc.), la
deregolamentazione delle professioni chiuse (tassisti, notai,
architetti, etc.).
L’atto
di fede dei neoliberisti è la convinzione che queste «riforme
strutturali» creeranno un nuovo potenziale di crescita economica nel
lungo periodo. Niente assicura che sarà così. Ciò che è certo invece è
che nella situazione attuale queste riforme determineranno un aumento
delle disuguaglianze, della precarietà e della disoccupazione.
In
nessun passaggio, purtroppo, l’espressione «riforma strutturale»
riguarda l’adozione di misure volte a rompere il dominio dei mercati
finanziari, ad aumentare l’imposizione fiscale sui più ricchi e sulle
grandi imprese, a organizzare e finanziare la transizione ecologica.
L’obiettivo del trattato è piuttosto quello di realizzare il sogno di
sempre dei neoliberisti: paralizzare completamente le politiche fiscali,
privare le politiche economiche di qualsiasi potere discrezionale.
Una macchina taglia debiti... che il debito lo fa aumentare
L’articolo
4 del Fiscal Compact rafforza la regola per cui il debito di ogni paese
deve rimanere o ritornare al di sotto del 60% del Pil. Questa regola
era già presente nel Patto di stabilità e crescita, ma la Commissione
non aveva alcun mezzo per assicurarne il rispetto. Ora, le sanzioni
diventano le stesse di quelle previste in caso di disavanzi eccessivi:
un paese il cui rapporto debito/Pil supera il 60% del Pil, dovrà
obbligatoriamente ridurre tale rapporto di almeno un ventesimo della
differenza con il 60% ogni anno, in caso contrario dovrà in un primo
momento effettuare presso la Bce un deposito che potrà poi essere
trasformato in una sanzione variabile tra lo 0,2% e lo 0,5% del Pil
dello stato in questione.
Questa regola pone tre problemi:
1.
Presuppone che un rapporto del 60% sia un valore ottimale realizzabile
da tutti i paesi. Però, in Europa, paesi come l’Italia o il Belgio hanno
avuto a lungo un debito pubblico pari al 100% del Pil (per non parlare
del Giappone che raggiunge il 200%) senza squilibri, dal momento che
questi debiti corrispondono a elevati livelli di risparmio delle
famiglie abitanti nei paesi considerati.
2.
Obbliga i paesi a frenare in maniera ancora più forte l’attività che
risulta già rallentata: si parla di una politica «prociclica». Per
ridurre di un punto il rapporto del debito pubblico è necessario uno
sforzo tanto più intenso quanto più debole risulta la crescita
economica. Peggio ancora, tale sforzo di riduzione del debito peserà a
sua volta sulle attività, aggravando ulteriormente il quadro generale.
3.
In realtà, la regola dell’equilibrio di bilancio ignora completamente i
suoi effetti sull’attività economica, effetti che possono portare a
conseguenze assurde. Supponiamo per esempio un paese con un Pil pari a
100, un debito pari al 100% del Pil, un tasso di crescita del 4% e un
deficit uguale al 4% del Pil. In queste condizioni il rapporto del
debito rimane stabile al 100%. Ma se il paese viene obbligato, al fine
di rispettare la regola della riduzione del suo rapporto di debito, a
ridurre del 2% la spesa pubblica, l’attività si riduce a 98, le entrate
fiscali si riducono di 1. Di conseguenza il deficit e così il debito si
riducono di 1%. Il Pil sarà pari a 98 e il debito a 100; il rapporto del
debito, invece di diminuire, è aumentato a 101%.
L’attuazione
delle politiche di austerità, piuttosto che ridurre il rapporto
debito/Pil, ne ha determinato l’aumento! Gli esempi attuali della Grecia
e della Spagna mostrano bene ciò che noi stiamo provando a evidenziare.
L’adozione di politiche di austerità non ha contribuito a ridurre il
tasso di indebitamento pubblico, ma lo ha aumentato.
Un «coordinamento» che fa sprofondare l’Europa nel baratro
Il
coordinamento delle politiche economiche evocato negli articoli 9-10-11
non comporta alcun impegno in materia di disoccupazione o saldo con
l’estero. Non è previsto in alcun modo che i paesi in surplus, come la
Germania con la sua politica di iper-competitività, che rappresentano di
fatto una delle cause principali della crisi attuale, si impegnino ad
aumentare i loro salari, il livello di spesa sociale e gli investimenti
pubblici utili per favorire un riequilibrio.
Non
vi è riferimento a un reale coordinamento di politiche economiche,
ovvero a una strategia economica comune che si serva della politica
monetaria, di bilancio, fiscale, sociale e che si occupi dei salari
nazionali al fine di avvicinare i diversi paesi a una condizione di
piena occupazione e promuoverne la transizione ecologica. Il Fiscal
Compact non obbliga alla creazione di un vero e proprio bilancio
europeo, con una reale fiscalità europea, che consentirebbe invece la
ricostruzione di un meccanismo di solidarietà e convergenza verso l’alto
delle economie.
Il
trattato non ha alcun altro obiettivo se non quello di ostacolare le
politiche di bilancio nazionali. Ciascun paese deve adottare misure
restrittive: ridurre le pensioni, ridurre le prestazioni sociali e il
numero dei funzionari, abbassare i loro salari, aumentare le imposte
(principalmente l’Iva, che pesa sulle famiglie più povere). Non si
prende minimamente in considerazione la situazione congiunturale
specifica di ciascun paese, né i bisogni sociali in termini
d’investimenti e occupazione, né le politiche degli altri paesi. Ciò
implica che, oggi, tutti i paesi stanno adottando di fatto politiche di
austerità, mentre i deficit sono dovuti alla recessione che ha avuto
origine con lo scoppio della bolla finanziaria e all’aumento degli
squilibri causati dall’errata architettura della zona euro. [3]
Uno
studio recente di tre istituti economici indipendenti, Imk (Germania),
Ofce (Francia) e Wifo (Austria), ha calcolato l’impatto delle politiche
di austerità determinate dal Fiscal Compact. [4] Tra il 2010 e il 2013
queste misure avranno l’effetto di ridurre di circa 7 punti il Pil della
zona euro. Nei paesi in crisi come l’Irlanda, la Spagna, il Portogallo e
la Grecia, l’impatto depressivo sarà ancora più forte, variando da 10
punti di Pil (Irlanda) a 25 punti (Grecia).«Questo determinerà il crollo
totale dell’economia greca», scrivono i ricercatori.
Ma
anche in Italia, Francia e Paesi Bassi l’economia rallenterà a causa
delle misure di austerità. Le misure di austerità, decise in Germania,
qui sono meno dannose che altrove (1,5% del Pil), ma a causa degli
stretti legami economici con i paesi in crisi, la crescita tedesca nel
periodo 2010-2013 si abbasserà del 2,7% rispetto a uno scenario senza
austerità.
«Nell’insieme», scrivono gli istituti, «l’attuazione delle politiche di austerità definite nel Fiscal Compact amplierà all’interno della zona euro il divario tra i paesi del Sud d’Europa e la Germania e altri paesi del Centro e Nord Europa. Attraverso queste scelte, la crisi non viene di certo risolta, ma è piuttosto destinata a peggiorare».
«Nell’insieme», scrivono gli istituti, «l’attuazione delle politiche di austerità definite nel Fiscal Compact amplierà all’interno della zona euro il divario tra i paesi del Sud d’Europa e la Germania e altri paesi del Centro e Nord Europa. Attraverso queste scelte, la crisi non viene di certo risolta, ma è piuttosto destinata a peggiorare».
Gli inquietanti e insondabili misteri del «deficit strutturale»
Il
Fiscal Compact introduce all’interno di un trattato europeo un concetto
economico fortemente controverso. Il saldo di bilancio strutturale
delle amministrazioni pubbliche viene di fatto definito come il «saldo
annuo corretto per il ciclo, al netto di misure una tantum e temporanee»
(articolo 3). Ma questa definizione pone un problema tanto sul piano
teorico quanto su quello empirico. Può allora essere introdotto in un
trattato un concetto economico così controverso?
Per
spiegare in un linguaggio accessibile, ci limiteremo qui al caso in cui
il saldo del bilancio pubblico sia in disavanzo. Il «saldo di bilancio
strutturale» diventa allora un «deficit strutturale». Perché introdurre
questo concetto? Si tratta di costruire un indicatore che permetta di
giudicare se la politica di bilancio di un paese sia davvero adeguata o
piuttosto «lassista». Ciò richiede di valutare se il deficit pubblico –
la differenza tra uscite ed entrate nel corso di un anno – risulti
«normale» tenuto conto della congiuntura economica, o se invece sia
«eccessivo».
Come
giudicare allora se un deficit è «normale» o «eccessivo»? Se non ci
fossero le fluttuazioni economiche, un deficit verrebbe considerato
«normale», secondo il Fiscal Compact, se non superasse lo 0,5% del Pil.
Il deficit corrente dovrebbe rispettare questo limite ogni anno. Questa
idea riflette la visione della politica di bilancio come di una politica
«neutrale» secondo la Commissione, né espansiva (attraverso
un’iniezione di reddito all’interno del circuito economico) né recessiva
(mediante un aumento del risparmio pubblico).
Ma,
nella realtà, esiste un ciclo economico, con anni caratterizzati da
boom e anni negativi con recessioni. Attraverso una politica di bilancio
«neutrale» e immutata, il deficit del bilancio corrente si riduce o
scompare durante gli anni di espansione: si registra un «surplus
economico congiunturale» grazie all’aumento dei ricavi (maggiore
crescita implica aumento dei redditi distribuiti, da cui aumento del
gettito fiscale e maggiori entrate nelle casse pubbliche) e alla
riduzione delle spese (sussidi di disoccupazione per esempio). Al
contrario, durante gli anni recessivi il deficit corrente si gonfia
meccanicamente, aumentando il «deficit congiunturale».
Supponiamo
che il calcolo di un istituto economico indipendente stabilisca che nel
2009 l’impatto della recessione sul deficit è stato pari al 4% del Pil
(«deficit congiunturale/ciclico»). Se il deficit pubblico corrente (il
solo realmente osservato) si stabilizza attorno al 5%, il deficit
strutturale è a sua volta stimato al 5% 4% = 1%. Il paese è in una
situazione critica.
Il suo deficit strutturale pari all’1% è superiore al famoso 0,5% e risulta così eccessivo rispetto a quanto previsto dal Fiscal Compact. Dovrebbe prevedere un aggiustamento (attraverso riduzione delle spese e/o aumento delle imposte) di circa lo 0,5% del Pil. Ciò è possibile senza troppi danni.
Il suo deficit strutturale pari all’1% è superiore al famoso 0,5% e risulta così eccessivo rispetto a quanto previsto dal Fiscal Compact. Dovrebbe prevedere un aggiustamento (attraverso riduzione delle spese e/o aumento delle imposte) di circa lo 0,5% del Pil. Ciò è possibile senza troppi danni.
Supponiamo
ora che gli esperti della Commissione, utilizzando il loro metodo di
calcolo, valutino il deficit ciclico non al 4% ma all’1% nel 2009. In
questo caso il deficit strutturale non è più dell’1% ma del 5% 1%,
ovvero del 4%. Non si tratta più di ridurlo dello 0,5% del Pil, bensì di
un valore pari al 3,5%. È tutta un’altra storia!
Ricordiamo
inoltre che questo limite dello 0,5% è del tutto arbitrario; un deficit
inferiore al 2,5% del Pil sarebbe sufficiente per stabilizzare il
rapporto debito/Pil. Ricordiamo ancora che un paese può avere un deficit
strutturale durante un periodo di recessione, se questo deficit
corrisponde proprio a delle misure prese specificamente per sostenere
l’attività economica. La situazione che abbiamo descritto non è certo
fantapolitica, ma possiamo osservarne le premesse.
Così,
oggi per esempio, il governo danese si trova a smentire formalmente il
calcolo della Commissione secondo il quale il deficit strutturale della
Danimarca è stato nel 2011 pari al 3%. Gli esperti danesi hanno stimato
un valore pari all’1%. Con il valore calcolato dalla Commissione – che
il Fiscal Compact impone – il paese dovrebbe avviare una riforma delle
pensioni ancora più dura di quella effettivamente realizzata, già di per
sé draconiana.
Perché queste differenze nella stima?
Perché,
per valutare quale sarebbe il deficit in assenza di una recessione o di
un boom, abbiamo bisogno di una teoria. Quale sarebbe il livello della
produzione – gli economisti la chiamano la «produzione potenziale» – se
la situazione fosse «normale»? Più la differenza tra la produzione reale
– che viene esattamente misurata – e la produzione potenziale è
significativa, più la parte considerata congiunturale del deficit
risulterà rilevante, e più il deficit strutturale verrà considerato
basso. Ma, contrariamente a ciò che vogliono far credere i neoliberisti,
non esiste in merito a ciò una teoria economica indiscutibile e
consensuale.
Per comprendere meglio, proviamo a opporre un approccio liberista a un approccio keynesiano.
Secondo
l’approccio liberista, il mercato ha sempre ragione. Se la produzione
ha subìto un calo, ciò dipende da problemi di offerta (produttività o
competitività insufficiente, salari troppo elevati, mercato del lavoro
troppo rigido, ecc.). Non è possibile avere una produzione molto
maggiore nello stato attuale dell’economia: occorrono «riforme
strutturali». La produzione potenziale è prossima alla produzione
effettiva. La componente ciclica del deficit è dunque minima: la maggior
parte del deficit è invece strutturale.
Secondo
l’approccio keynesiano, al contrario, la recessione dipende spesso da
un’insufficienza della domanda effettiva. A seguito di un crollo del
mercato ad esempio, le imprese investono di meno e iniziano a
licenziare; i salari crescono poco, le famiglie, i disoccupati o coloro
che rischiano di diventarlo riducono i loro consumi. Nessun meccanismo
di stabilizzazione supporta spontaneamente l’attività. La produzione può
scendere bruscamente al di sotto del suo valore potenziale. La
componente ciclica del deficit diventa così la più importante.
Il
Fiscal Compact precisa bene quale sia il metodo che la Commissione
dovrà adottare. Tuttavia questo, di ispirazione liberista, tende a
sottovalutare il divario tra la produzione reale e la produzione
potenziale, particolarmente nei periodi di recessione. Così lo stock di
capitale utilizzato per calcolare la produzione potenziale è lo stock
effettivo, senza tener conto della possibilità che esso risulti
indebolito a causa della caduta dell’attività; il progresso tecnico
tendenziale si basa sul tasso osservato, che potrebbe però essere più
veloce se ci fossero più investimenti; la popolazione attiva che si
suppone disponibile a lavorare corrisponde alla popolazione osservata,
sebbene per esempio molti giovani abbiano invece deciso di proseguire
gli studi piuttosto che buttarsi in un «mercato del lavoro» depresso.
Tutte queste ipotesi portano in ogni circostanza a un tasso di crescita
potenziale appena superiore al tasso di crescita reale. Secondo la stima
della Commissione, per il 2012, il deficit strutturale della Francia
sarà del 2,4% del Pil, cifra considerevole. Secondo la nostra stima, il
deficit strutturale sarà invece dello 0,3%, quindi al di sotto della
soglia dello 0,5%: non c’è bisogno di austerità per rispettare il tetto
dello 0,5%. Malauguratamente, il Fiscal Compact prevede che nelle
costituzioni si riconosca che la Commissione europea possiede l’unica
valida teoria economica e bandisce ogni possibile discussione.
Il risultato del progetto neoliberista
Il
Fiscal Compact segna una nuova tappa di una doppia offensiva, contro
l’autonomia delle politiche di bilancio nazionali e contro la prassi
della politica economica, largamente ispirata alle teorie keynesiane,
che è diffusa un po’ ovunque nel mondo.
Dopo
il 1936, infatti, la teoria keynesiana aveva imposto una nuova
concezione di politica economica. Il messaggio centrale di Keynes è che,
tenuto conto dell’instabilità propria delle economie capitalistiche, i
governi devono attuare una politica economica attiva, volta a garantire
una crescita sostenuta, il raggiungimento della piena occupazione,
utilizzando la politica fiscale, la politica monetaria, come anche la
politica salariale, sociale e industriale. In particolare, la politica
fiscale dovrebbe sostenere l’attività economica attraverso un aumento
del deficit nei periodi di caduta della domanda, aumento indotto
automaticamente a causa della riduzione delle entrate fiscali, ed
eventualmente accresciuto da misure discrezionali di stimolo.
Questa pratica keynesiana ha sostenuto l’attività dei paesi sviluppati durante ilTrentennio glorioso. Ma
durante gli anni Ottanta le classi dirigenti hanno deciso di mettervi
fine, poiché queste politiche, determinate da un rapporto di forza fino a
quel momento favorevole ai lavoratori, si erano tradotte in un sempre
maggiore intervento dello stato, con un incremento della quota ricoperta
dal settore pubblico all’interno dell’economia e della società.
La
controrivoluzione liberista si propone di invertire questa tendenza,
cominciando con il limitare – o eliminare – gli interventi anticiclici
dello stato. L’obiettivo è di mettere fine alle politiche economiche
definite dalla teoria keynesiana, ritenute responsabili dell’inflazione e
soprattutto della riduzione della quota dei profitti sul reddito
nazionale; si vuole convincere i cittadini a rinunciare definitivamente
all’obiettivo di piena occupazione, considerato causa di un aumento
dell’inflazione.
La
politica economica deve ora essere pensata e progettata come lotta
all’inflazione, volta a ridurre drasticamente i costi (e specialmente il
famoso «costo salariale»), e a ripristinare e mantenere la quota dei
profitti. Essa deve essere attuata in questo modo al fine di garantire
un funzionamento «libero» del mercato. Libero soprattutto dalle
regolamentazioni e dalle controversie politiche e sociali che si ritiene
abbiano ostacolato dopo la seconda guerra mondiale gli investitori e i
capitalisti.
Ecco
perché il pensiero neoliberista intende strappare le politiche
economiche dalle mani dei governi democraticamente eletti. Devono invece
essere affidate a organismi indipendenti composti da esperti e
tecnocrati, che non sono responsabili di fronte al popolo e ai
cittadini. La politica economica deve essere paralizzata con regole
vincolanti. [5] Pertanto, la Banca centrale, dichiarata «indipendente»,
ha il principale obiettivo di mantenere l’inflazione al di sotto del 2%
ogni anno. E in futuro la politica di bilancio sarà affidata a
Commissioni indipendenti, sotto l’egida del patto e della Commissione,
con il solo obiettivo di garantire il mantenimento dell’equilibrio di
bilancio.
Questo
progetto ideologico è in gran parte impraticabile.L’instabilità
dell’economia capitalista rende necessaria una politica attiva. Per
questo, negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha abbassato praticamente a
zero il tasso di interesse e ha comprato massicciamente titoli privati e
pubblici, in totale contrasto con tutto il pensiero ortodosso: il
deficit pubblico ha superato il 10% del Pil nel periodo tra il 2009 e il
2011 senza sollevare alcun allarme. All’interno dell’Ue, nel periodo
2008-2009, i governi hanno dovuto adottare misure fiscali sostanziose
per evitare il crollo economico. Nonostante tutto ciò, l’obiettivo delle
autorità europee viene continuamente riaffermato e il loro credo
ricordato e perseguito costantemente. Si impongono all’Europa grandi
«riforme strutturali» e la fine del modello sociale dichiarato ormai
obsoleto. [6] Poiché queste riforme sono chiaramente molto impopolari,
la manovra, di cui il nuovo trattato è uno strumento essenziale,
consiste nel far applicare e nell’imporre politiche «automatiche»,
attraverso delle soglie che determinano l’applicazione di misure
ingiuste. Con questo trattato, l’Europa fa un nuovo passo verso
l’obiettivo neoliberista di «de-democratizzazione» della politica
economica.
di Redazione
NOTE
[1] Celebre proverbio degli Shadok, protagonisti di un popolare cartone animato francese. [n.d.t.]
[2] Ritorneremo su questa definizione. Si veda anche l’Appendice 1 riguardo la nozione di «equilibrio strutturale» che occupa un grande spazio nel nuovo trattato.
[1] Celebre proverbio degli Shadok, protagonisti di un popolare cartone animato francese. [n.d.t.]
[2] Ritorneremo su questa definizione. Si veda anche l’Appendice 1 riguardo la nozione di «equilibrio strutturale» che occupa un grande spazio nel nuovo trattato.
[3] 20 ans d’aveuglement, cit.
[5] La seconda
parte di questo libro, «Un patto contro la democrazia», analizza nel
dettaglio questo aspetto, mostrando come il patto introduca una serie di
meccanismi «automatici» e di sanzioni al posto di procedure decisionali
concertate e di una deliberazione tra gli attori responsabili davanti
ai loro elettori.
[6] Si vedano le dichiarazioni del presidente della Bce Mario Draghi in tal senso.
Da: MicroMegaonline
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