sabato 4 ottobre 2014

Tre gradini per il baratro — Paolo Ercolani, Il Manifesto

ita roves[1]
 
È inu­tile girarci intorno. Tre sono i gra­dini che pote­vano con­durre il nostro Paese nel bara­tro. Ed è bene sapere che li abbiamo già per­corsi tutti e tre con appa­rente e beata inco­scienza. 
Il primo è quello della deriva etico-morale. Un Paese che non è riu­scito a tra­smet­tere ai pro­pri cit­ta­dini il senso della res publica, quindi del bene col­let­tivo e del patri­mo­nio nazio­nale; un Paese che non sa creare le con­di­zioni e le dina­mi­che per­ché fra i suoi abi­tanti, nei vari gan­gli vitali della sfera sociale, pos­sano emer­gere i più pre­pa­rati, i più volen­te­rosi, i più meri­te­voli, pro­prio per­ché anche così possa sal­va­guar­darsi e cre­scere lo stesso bene comune, ebbene que­sto Paese è già morto. È come una stella di cui ancora vediamo la luce pur sapendo che in realtà si è già spenta, e per que­sto non potrà con­ti­nuare a esi­stere nella rin­no­vata costel­la­zione. La poli­tica degra­data al livello del più bieco affa­ri­smo rap­pre­senta sol­tanto la punta estrema, più cla­mo­rosa e visi­bile, di un ice­berg che affonda ben in pro­fon­dità le sue radici, coin­vol­gendo tutti quei «cit­ta­dini» che i nuovi popu­li­smi vor­reb­bero dipin­gere come puri e incon­ta­mi­nati. Al punto che anche solo a uti­liz­zare ter­mini come «etica» e «morale» si fini­sce tac­ciati di inge­nuità, idea­li­smo, uto­pia. Eppure non sarò io, da filo­sofo, ad abdi­care al dovere umano e sociale di richia­mare l’urgenza, e per­sino la vera e pro­pria emer­genza, di un Paese che ha un biso­gno estremo di risco­prire, ridi­se­gnare e rior­ga­niz­zare il pro­prio impianto etico e morale. Certo, que­sto passa neces­sa­ria­mente per un serio pro­getto cul­tu­rale. 
Ma qui arri­viamo al secondo gra­dino. Quello della deriva pedagogico-culturale. Non ci giro intorno nean­che in que­sto caso: per me che svolgo esami uni­ver­si­tari con cadenza rego­lare è fin troppo facile, e penoso, regi­strare il fatto che, per esem­pio, sem­pre più stu­denti fati­cano enor­me­mente, e quindi spesso rinun­ciano, a leg­gere i libri di testo. Non è sol­tanto che poli­ti­che scia­gu­rate e decen­nali hanno impo­ve­rito e mar­gi­na­liz­zato la scuola; né che la com­mer­cia­liz­za­zione sel­vag­gia e incon­trol­lata dell’informazione e della comu­ni­ca­zione in genere ci ha con­dotto ad avere, per esem­pio (ma il discorso può essere esteso a tutto il «quarto potere»), una tele­vi­sione la cui pro­gram­ma­zione è diven­tata via via sem­pre più sca­dente, vol­gare e disin­te­res­sata agli effetti cul­tu­rali (e cogni­tivi!) che pro­du­ceva nei con­fronti dell’opinione pub­blica. C’è un terzo dato, per­lo­più igno­rato ma in realtà gra­vis­simo: la deriva cul­tu­rale e il pro­cesso di com­mer­cia­liz­za­zione sono stati così forti e per­va­sivi che, in buona sostanza, di fronte alla com­parsa della più grande inven­zione della con­tem­po­ra­neità, cioè Inter­net, si è del tutto rinun­ciato a pen­sare ad ogni minima forma di edu­ca­zione cri­tica al mezzo e di resi­stenza «uma­ni­stica» rispetto alle degra­da­zioni che il mezzo stesso pro­du­ceva. Soprat­tutto nei con­fronti delle gio­va­nis­sime gene­ra­zioni. È signi­fi­ca­tivo il fatto che a nes­suno mai ver­rebbe in mente di far affron­tare la vita a un bam­bino, senza che la scuola gli abbia potuto for­nire alcuni stru­menti. Eppure, per la vita vir­tuale (e sap­piamo bene che vir­tuale non signi­fica affatto irreale, forse tutt’altro) si è coscien­te­mente e deli­be­ra­ta­mente rinun­ciato ad ogni ten­ta­tivo di edu­care e for­mare menti che, durante la pro­pria cre­scita, sapes­sero uti­liz­zare que­sti mezzi straor­di­nari man­te­nendo auto­no­mia di giu­di­zio, capa­cità cri­tica, carat­te­ri­sti­che spe­ci­fi­che dell’essere umano come, per esem­pio, la let­tura appro­fon­dita, lenta, in grado di sedi­men­tarsi e pro­durre cono­scenza dure­vole nell’individuo. Igno­rare tutto ciò ha com­por­tato la rea­liz­za­zione di quello che Kurt Von­ne­gut aveva descritto nel suo romanzo visio­na­rio del 1952 (Player Piano), lad­dove descri­veva una prima rivo­lu­zione che sva­lu­tava il «lavoro musco­lare» (agri­col­tori), una seconda che svi­liva quello «ordi­na­rio» (arti­giani), men­tre alla fine ci si tro­vava di fronte alla terza rivo­lu­zione, quella in grado di ren­dere super­fluo il pen­siero umano, cioè il «vero lavoro intel­let­tuale». A chi ha gio­vato tutto ciò? Chi, con molta pro­ba­bi­lità e con com­pli­cità evi­denti da parte di una poli­tica inde­gna di que­sto nome, ha bene­fi­ciato di tutto ciò e in qual­che modo se ne è fatto arte­fice? 
Qui arri­viamo al terzo gra­dino, che al tempo stesso rap­pre­senta il filo rosso di col­le­ga­mento con gli altri due: quello di un Paese in cui si è con­sen­tito all’economia di dive­nire la scienza domi­nante, il sistema di valori più forte e indi­scu­ti­bile, la dimen­sione a cui votare tutto l’umano vivere e tutti gli sforzi sociali. All’economia ser­vono pro­dut­tori e con­su­ma­tori, non certo indi­vi­dui cri­tici e con­sa­pe­voli, for­niti di un baga­glio etico-morale che per­metta loro di cogliere la grande ric­chezza della vita umana al di là dei numeri, del pro­fitto e delle logi­che quan­ti­ta­tive in genere. Non ha destato lo scal­pore che avrebbe meri­tato, sen­tire Mario Monti che, da capo del governo, dichia­rava impu­ne­mente di tro­varsi lì per sod­di­sfare i mer­cati (invece che la qua­lità della vita dei cit­ta­dini che si tro­vava a gui­dare). 
Il nostro Paese que­sti gra­dini li ha scesi tutti e tre, con i risul­tati che sono sotto gli occhi di tutti. Non c’è e non ci sarà arti­colo 18, riforma del lavoro e della giu­sti­zia, né riforma costi­tu­zio­nale o fiscale che tenga, è bene sapere che non ci sarà riforma in asso­luto che potrà risol­le­varci se non sapremo risa­lire que­sti tre gra­dini, pro­vando a rico­struire l’impianto etico-morale, edu­ca­tivo e poli­tico del nostro Paese. Una poli­tica degna di que­sto nome dovrà saper ela­bo­rare un pro­gramma fat­tivo e con­creto in grado di affron­tare il bara­tro in cui ci hanno con­dotto que­ste tre derive. Dovrà saperlo fare in un ottica anche euro­pea, per ovvie ragioni, lad­dove l’Europa non potrà essere sol­tanto una fan­to­ma­tica entità finan­zia­ria che ci impone un rigore arit­me­tico e quan­ti­ta­tivo, ma anche un grande pro­getto di costi­tu­zione di una realtà in grado di tute­lare la qua­lità, il benes­sere e la spe­ci­fi­cità umana dei suoi cit­ta­dini. Una teo­ria che non trova sboc­chi sul ter­reno della realtà sociale è ste­rile tanto quanto una poli­tica che non sa darsi un pro­getto teo­rico e una mappa pro­gram­ma­tica risulta cieca, inef­fi­cace, inca­pace di inci­dere su un periodo più ampio. Pos­sono sem­brare ragio­na­menti idea­li­stici o per­sino uto­pi­stici, ma se per un attimo sol­tanto pen­siamo che essi rap­pre­sen­tano tutto ciò che da troppo tempo non fac­ciamo più, e di con­tro vediamo lo stato in cui ci siamo ridotti, beh, allora ci ren­diamo conto che se di uto­pia si tratta, è un’utopia quanto mai neces­sa­ria. Il corag­gio più grande risiede pro­prio nella forza e nella volontà di rispol­ve­rare un pro­getto appa­ren­te­mente desueto e idea­li­stico. Qui e ora!

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