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Pubblichiamo un articolo con Turci su Il riformista
dedicata alla questione pensionistica nel contesto delle manovre (ormai
si deve usare il plurale). Nel frattempo il ministro del Tesoro
americano Geithner ha partecipato all'Ecofin (la riunione dei ministri finanziari europei) esortandoli a fare di più. Una buona idea
che è circolata, sostenuta sembra di capire da Geithner, è di usare i
fondi dell'EFSF (il fondo europeo di sostegno ai paesi indebitati) non
direttamente, ma per sostenere il capitale della BCE che così potrebbe
acquistare titoli pubblici per un multiplo dei 440 miliardi di euro di
dotazione dell'EFSF. Naturalmente la BCE potrebbe farlo ugualmente, essa
può infatti stampare moneta illimitatamente senza bisogno di un
capitale proprio. Ma una misura del genere tranquillizzerebbe i cuori e
le menti pavide che ritengono che la BCE sia una banca come le altre e
se acquista titoli che poi perdono valore questo costituisca per lei un
problema (come se un falsario che stampi 100 mila euro e poi li perda al
gioco abbia qualche problema a stamparne altri 100 mila). Naturalmente
gli europei han detto orgogliosamente che al disastro ci vogliono andare
senza i buoni consigli di zio Sam.
Pensioni & Europa
Sergio Cesaratto, Lanfranco Turci
Sull’ultima manovra la nostra posizione è chiara: essa
è non solo iniqua, ma anche - e questo è più grave- inutile ai fini
dichiarati di contrastare la crisi. Solo un intervento risoluto della
BCE, nell’ambito di una strategia fiscale e distributiva europea volta
alla crescita, può rendere sostenibili i debiti: altro che il “facciamo
da soli” di De Bortolis! La sinistra deve superare i diffusi sensi di
colpa per cui siamo colpevoli del nostro debito e causa dei nostri mali.
A parte il fatto che il debito non è certo dovuto all’eccesso di spesa
sociale, sono questi ragionamenti moralistici che in economia lasciano
il tempo che trovano. E’ il tentativo di “aggiustamento” dei conti via
tagli di bilancio nazionali che porta diritti al baratro. Si deve sì
combattere l’evasione e tagliare gli sprechi, ma per investire sulla
crescita. Purtroppo nel centro-sinistra lo si stenta a capire. Intanto
in vista di una possibile terza manovra, dati gli inevitabili risultati
fallimentari delle prime due, torna alla ribalta il tema
dell’allungamento dell’età pensionistica. In proposito si è scatenata
una fiera di banalità spesso somministrate da improbabili “esperti”.
Conflitto fra generazioni, futuro rubato ai figli, bombe demografiche e
quant’altro, è un gran fiorire di affermazioni del tutto gratuite o
figlie di teorie screditate dall’analisi economica critica (pensiamo a
Sraffa e Keynes), teorie la cui collocazione naturale è fra le ideologie del centro-destra.
Tre aspetti ci sembrano particolarmente trascurati al riguardo:
(a)
l’allungamento dell’età pensionistica va a discapito delle già magre
opportunità di impiego dei giovani. Chi ritiene che questo non sia vero
pensa che tanto più numerosa è la gente che intende lavorare, tanto
maggiori sono i posti di lavoro. Ma se questo fosse vero non vi
sarebbero tanti giovani a spasso. La verità è che i posti di lavoro sono
un dato (che diminuirà in seguito alle manovre), e i pensionamenti –
spesso involontari in quanto incentivati dalle imprese – liberano posti.
(b)
Il fatto che la spesa pensionistica sia elevata in termini di Pil non
dipende da pensioni troppo generose o da troppi pensionati, ma dal fatto
che i tassi di occupazione sono bassi: in Italia, da sempre, lavora
troppa poca gente sui cui salari finisce per gravare la spesa
pensionistica. Il tasso di occupazione, cioè la percentuale di adulti
(15-64) che lavora, era nel 2010 57,2% contro il 65,8 dell’UE. Esso è un
pochino aumentato dal 2001 quando era 55,6%, moltissimo nelle fasce più
anziane, dal 28% al 36,6% nella fascia 55-64, mentre è rimasto
stazionario fra i giovani 25-34 anni, e crollato fra i giovanissimi, da
25,9% al 20,5% nella fascia 15-24. Tenuto conto che le coorti più
giovani si sono fatte meno numerose, il sospetto è che le riforme
pensionistiche abbiano già cominciato a spiazzare i più giovani.
Questo
non significa che i posti di lavoro vadano creati a colpi di
pre-pensionamenti, ma che le opportunità di lavoro vanno accresciuti per
i giovani e per gli anziani che desiderino lavorare più a lungo con una politica economica di rilancio della domanda e degli investimenti in un nuovo modello di sviluppo europeo.
L’accrescimento del tasso di occupazione avrebbe l’effetto di diminuire
il carico previdenziale sul Pil e, soprattutto, sui salari poiché gli
anziani graverebbero su una base contributiva più ampia. La diminuzione
del carico fiscale sui salari attraverso la lotta all’evasione anche
contribuirebbe ad alleviare il carico previdenziale sul lavoro.
(c)
Va infine rammentato che se per chi è nel regime retributivo il ritardo
nell’età del pensionamento porta a risparmi di spesa, con la
progressiva adozione del contributivo questo non è più vero poiché più a
lungo si lavora più si percepirà. Può darsi che col tempo lavorare più a
lungo sarà un prezzo che dovremo pagare per salvaguardare la pensione
di ciascuno – il che non sarebbe necessariamente una disgrazia se la
difesa dei posti di lavoro e dei diritti ce lo consentisse in serenità.
Ma è falsità dire che, col contributivo, questo porta meno spesa per
pensioni sul Pil. Tali risparmi dipendono dall’accrescimento della base
occupazionale.
Ci
pare insomma che il gridare al lupo in campo pensionistico evocando
bombe demografiche, come fanno Confindustria, i commentatori ortodossi
della grande stampa e, sia pure con la loro disinteressata coerenza
liberista, gli amici radicali, sia prematuro e non colga la dimensione
vera del problema. Se i milioni di giovani (e meno giovani) disoccupati o
sotto-occupati venissero messi all’opera la spesa pensionistica sul Pil
crollerebbe, e la questione dell’età pensionabile si sdrammatizzerebbe.
Non vogliamo apparire benaltristi, ma la problematica
pensionistica deve essere vista soprattutto alla luce di quella
occupazionale e distributiva e non come un problema meramente
demografico. Questo ci rimanda alle manovre e alle attuali politiche
europee che sono precisamente l’opposto di un orientamento verso la
piena occupazione e l’equità.
(Il riformista, 17 settembre 2011)
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