di Massimo Bontempelli
L'Europa
è presentata dai mezzi di comunicazione di massa e dal dibattito
politico come un problema, in quanto è fatta apparire un luogo ideale di
razionalità ed efficienza in cui il nostro paese dovrebbe inserirsi per
diventare migliore, e a cui tuttavia sembra permanentemente inadeguato.
Basti pensare al lungo tormentone di alcuni anni fa riguardo alla
possibilità o meno dell'economia e della finanza italiane di conformarsi
ai parametri per l'adozione della moneta comune. Sembrò allora che il
raggiungimento dei cosiddetti parametri di Maastricht costituisse la
prova decisiva per il nostro popolo, ed ancora oggi lo schieramento di
centro-sinistra si fa supremo vanto di aver conseguito quel risultato.
Tuttavia
l'ammissione del nostro paese al club della moneta unica europea è
sempre presentata, oltre che come premio per l'opera di risanamento
finanziario compiuta negli anni Novanta, anche come situazione che esige
da esso ulteriori, continue innovazioni, affinché i suoi difetti
strutturali non lo escludano poi per altri versi da un legame definitivo
con la realtà transalpina.
Rimanere fuori dell'Europa è, nel linguaggio cosiddetto politicamente corretto, sinonimo di declassamento, quando non addirittura di degradazione:
senza l'aggancio all'Europa, si dice, l'Italia scivolerebbe
inesorabilmente nel mondo maghrebino, si arabizzerebbe, diventerebbe
sempre meno efficiente, razionale, moderna.
L'Europa,
insomma, appare un problema perché appare il metro che misura la nostra
civiltà, e perché su quel metro sembriamo non avere mai la misura
giusta.
Ma
l'Europa appare un problema anche in un altro senso, perché si presenta
sempre diversa da quello che è ritenuto debba essere in quanto Europa, e
cioè una nuova grande nazione che ha superato tutti i vecchi
nazionalismi con i loro rovinosi conflitti, e una potenza politica
capace di svolgere un ruolo su scala mondiale.
Si
lamenta, allora, che i vari paesi europei non riescano a mettere da
parte i loro contrapposti egoismi da cui sono divisi, che non siano in
grado di concertare una politica estera comune, che non sappiano
svolgere un ruolo autonomo sulla scena mondiale, e che l'Europa non sia
un'Europa politica, ma un'Europa della banche.
A
ben vedere, i due aspetti per i quali l'Europa è presentata come un
problema, sono tra loro contraddittori. Chi dice, infatti, che l'Europa è
un problema perché è un'Europa soltanto delle banche e della moneta,
senza politica e senz'anima, non dovrebbe poi considerarla anche un
traguardo che sia così pesantemente negativo non raggiungere.
Se
usciamo, peraltro, dalle banalità che ci vengono quotidianamente
ripetute, e proviamo a ragionare in termini reali, non è difficile
renderci conto che l'Europa come luogo ideale da cui siamo sempre invitati a non allontanarci è soltanto un abbaglio, e che l'unica
Europa che ci attende abbandonando la sovranità nazionale è per
l'appunto l'Europa senz'anima della moneta e delle banche.
Non può essere diversamente, perché non ci sono, né stanno formandosi, le condizioni per fare dell'Europa una grande nazione,
che le forze dominanti non vogliono affatto costruire, tanto è vero che
tendono ad allargarla a sempre nuovi paesi che ne accrescono
l'eterogeneità culturale, e neppure l'aggregazione europea è guidata da
un qualsiasi ideale realmente unificante.
Agli
albori del risorgimento italiano, il Metternich, che lo contrastava,
disse che l'Italia era soltanto un'espressione geografica. Ciò non era
vero, in quanto le lotte per l'unità italiana stavano costruendo la
nazione, e in quanto l'unità era chiamata a realizzare un ideale
politico e civile, quello del costituzionalismo liberale e della laicità
dello Stato.
Processi
di unificazione territoriale hanno un significato storico quando, come
nel risorgimento italiano, il nuovo ambito territoriale incarna un nuovo
ideale. Ma per quale nuovo ideale politico e civile è perseguita
l'unificazione europea? Assolutamente nessuno. L'Europa tanto decantata è
dunque veritativamente quel che Metternich diceva falsamente della
penisola italiana, e cioè soltanto un'espressione geografica.
Da che cosa nasce, allora l'esigenza di creare un'area europea al di sopra dei tradizionali Stati nazionali?
A vantaggio di che cosa gli Stati nazionali europei si stanno spogliando di una parte della loro sovranità?
Se si esce dai luoghi comuni, non è difficile rispondere a queste domande. Basta osservare realisticamente di cosa consiste la nuova Europa:
una moneta comune, una banca che la regola, un complesso di norme
sovranazionali volte essenzialmente ad eliminare gli ostacoli alla
libera circolazione dei capitali e le specificità produttive di
intralcio alla produzione standardizzata su larghissima scala,
commissari incaricati soprattutto di regolare interessi economici
d'area, e un parlamento elettivo dotato di scarsi poteri.
Tutto questo mostra chiaramente che l'Europa di cui oggi si parla non è altro che un sistema normativo e un apparato tecnocratico
finalizzati a promuovere il completo dominio sulla società
dell'economia dei mercati finanziari globalizzati: il loro carattere
sovranazionale serve appunto ad aggirare gli ostacoli nazionali alla
circuitazione senza limiti, ed esclusivamente secondo i determinismi di
un'economia completamente autoreferenziale, di capitali e merci.
Ma l'economia globalizzata dei mercati finanziari è a dominanza americana. Ne consegue, sillogisticamente, che l'Europa a favore della quale gli Stati nazionali si stanno privando di molte loro prerogative non serve affatto a inserirli in una nuova potenza continentale indipendente, ma svolge un ruolo esattamente contrario.
L'Europa,
cioè, nasce, al di là di ogni intenzione, perché il suo spazio
continentale sia progressivamente spossessato di ogni indipendenza
politica e culturale.
Entrare in Europa, quindi, al di là di tutti i miti messi in circolazione, nella sua nuda verità non significa niente altro che imboccare la strada della piena americanizzazione della nostra società,
e che spostare su piani più lontani, e meno visibili, e più
difficilmente contrastabili, le decisioni politiche volte ad assicurare
il predominio totale dei mercati finanziari, smantellando ogni forma di
protezione sociale.
L'Europa,
certo, potrà contrastare gli Stati Uniti d'America per difendere alcuni
suoi interessi commerciali in competizione con gli interessi americani,
ma sempre entro un quadro di relazioni economiche create dal dominio
mondiale americano. In questo contesto, la prevalenza in ultima istanza
del potere americano sarà assicurata dal monopolio della potenza
militare degli Stati Uniti d'America, oltre che dalla forza politica,
diplomatica e commerciale del loro Stato.
Paradossalmente,
quello che oggi si intende per Europa è la fine dell'Europa come
civiltà, e l'omologazione della sua civiltà alla giungla americana: una
giungla dove indubbiamente esistono opportunità di successo individuale
superiori a quelle presenti nel vecchio mondo, ma nel contesto di
rapporti umanamente impoveriti, ferocemente concorrenziali, immersi in
una instabilità e precarietà generali, in cui lo stesso successo crea
ansia, insensibilità, vuoto spirituale, e in cui la vita collettiva è
avulsa da ogni sostanza storica.
Cosa fare, allora? Occorre diffondere l'idea che, essendo l'Europa questo, è auspicabile una proiezione mediterranea del nostro paese, e niente affatto un suo inserimento in Europa.
A livello europeo occorre porci soltanto per combattere le istanze sovranazionali di promozione delle politiche liberiste e di smantellamento delle protezioni sociali.
Occorre
infine cercare di valorizzare al massimo la nostra identità nazionale,
tornando a far conoscere la sua storia e le sue tradizioni, e battendosi
per una reintegrazione dei poteri del suo Stato unitario: chiamarsi
fuori dall'Europa, per non diventare una colonia degli Stati Uniti
d'America, e per cominciare a costruire una società affrancata dalla
barbarie liberista.
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