La discussione e la campagna politica per il non
pagamento del debito si reggono su dati concreti e per molti versi
inoppugnabili. L'incontro nazionale del prossimo1 ottobre promosso dai
firmatari dell'appello “Dobbiamo fermarli”, contiene le potenzialità
politiche, sociali e culturali per avviare una seria controffensiva
contro il mattatoio sociale imposto dalla Bce e dal governo unico delle
banche
E’ stata appena approvata la manovra economica del governo che già
Unione Europea e Confindustria tornano di nuovo alla carica invocando la
prima misure aggiuntive e la seconda una terapia d’urto che portino
l’Italia al di fuori dalla “maledizione” dei Piigs. Contemporaneamente, i
reportage dalla Grecia ci descrivono le ferite profonde che le misure
imposte dalla Bce hanno già imposto al corpo sociale di quel paese
rendendo comuqnue il debito pubblico greco ancora più elevato. La porta
girevole delle politiche di aggiustamento dei bilanci pubblici, è ormai
un paradosso tanto evidente che più di qualche istituzione
insospettabile – dal Fondo Monetario alla Banca d’Italia – sottolinea
come non possano che avere effetti recessivi su tutti i paesi
euro-mediterranei che sono stati costretti ad adottarle.
L’Italia paga ancora le conseguenze delle terapie d’urto degli anni
Novanta (quelle dei governi Amato, Ciampi, Prodi) adottate per entrare
nei parametri di Maastricht e poi nell’Unione Economica Monetaria dei
paesi europei che hanno adottato l’Euro. Nonostante questo da un lato il
debito pubblico non è affatto diminuito ma è aumentato dal 106% del Pil
nel 1992 al 120% del 2011, dall’altro le misure antisociali messe in
campo in questi ultimi anni hanno devastato servizi sociali strategici
come sanità, istruzione, previdenza, trasporti; hanno ridotto del 37,9%
in soli dieci anni il potere d’acquisto di salari e pensioni, hanno
continuato a trasferire enormi risorse pubbliche e ricchezza dal lavoro e
dal risparmio delle famiglie alla rendita finanziaria rappresentata da
banche, società di assicurazione, fondi d’investimento italiane e
stranieri. (1)
In questo spostamento di ricchezza ci hanno rimesso soprattutto i
lavoratori dipendenti, i giovani costretti alla precarietà e alla
disoccupazione, i pensionati che hanno dovuto esaurire i loro risparmi
per assicurare reddito, abitazioni, finanziamenti alle generazioni
successive ormai private di presente e di futuro. Ma in qualche modo ci
hanno rimesso anche i profitti generati dall’economia reale basata sulla
produzione di beni, soppiantata da una corsa alla rendita speculativa,
finanziaria e immobiliare, che ha contribuito alla distruzione degli
investimenti e del tessuto industriale del paese.
Il gioco della porta girevole sul debito pubblico – aumentare
l’indebitamento per pagare il debito - ha agito su questa realtà sociale
stravolgendone l’esistenza e lo status (con la proletarizzazione dei
ceti medi) e manipolandone le priorità e le percezioni (con la minaccia
del default ).
Chi sono i proprietari del debito pubblico italiano?
La mappa del possesso dei titoli del debito pubblico italiano,
visualizza perfettamente questo immenso spostamento di ricchezza dal
risparmio delle famiglie (il c.d. Bot people) alle banche e alle società
finanziarie.
Una elaborazione della banca d’affari Morgan Stanley, ci aiuta a
capire meglio come stanno le cose. Infatti se nel 1991 il debito
pubblico era per il 58,6% in mano alle famiglie – sia quelle più ricche
sia quelle che avevano investito liquidazioni, qualche risparmio e
piccole eredità nei Bot e nei titoli di stato - oggi questa quota è
crollata al 14%, mentre i titoli del debito italiano in possesso degli
investitori stranieri (banche, fondi,assicurazioni) è schizzato dal 6%
del 1991 al 43% del 2010. Occorre
sottolineare che, in confronto agli altri paesi Piigs, tale percentuale
rimane bassa, cioè il debito pubblico del nostro paese relativamente al
resto di Europa, è a forte carattere interno. Infatti anche banche, finanziarie,assicurazioni
e fondi di investimento “italiani” (un eufemismo nell’epoca della
finanza globale) che nel 1991 possedevano il 25% dei titoli, oggi ne
posseggono il 38%, é
dunque evidente che la forte percentuale di investitori interni del
debito pubblico italiano non è più attribuibile come una volta alla
famiglie in veste di grande “formiche risparmiatrici”. La Banca d’Italia
infine possiede una piccola del 4% dei titoli del debito pubblico
italiano. Riassumendo: l’81% dei titoli del debito pubblico italiano
sono nelle mani di banche, assicurazioni e fondi di investimento, società finanziarie siano esse straniere o italiane. (2)
Passando dalle percentuali ai numeri, si può in qualche certificare
che su un debito pubblico più o meno di 1.400 miliardi di euro, le
entità finanziarie francesi posseggono titoli del debito italiano per
511 miliardi di euro; quelle tedesche per 190 miliardi; quelle
anglo-sassoni per 77 miliardi, quelle spagnole per 31 miliardi. (3)
Più della metà del totale debito pubblico italiano è quindi nelle
mani dei cosiddetti “investitori esteri” e i quattro/quinti del debito
sono nelle mani di banche e soggetti finanziari privati; questo
dato, considerato congiuntamente all’abbassamento della propensione al
risparmio delle famiglie e considerato quanto emerge dalle indagini
giudiziarie, fa individuare un forte interessamento ai titoli del debito
pubblico italiano, da parte di società finanziarie prestanome “di
rispetto”, direttamente funzionali a quell’economia criminale che ne
percepisce chiaramente una modalità pulita e conveniente ai fini di
realizzare una buona rendita ma soprattutto un metodo sicuro per il
riciclaggio di denaro sporco .
Sta in questa dimensione la maledizione dell’Italia tra i paesi
Piigs: “troppo grande per fallire, troppo grande per essere salvata”.
Ma, come si dice, la situazione è tutt’altro che stabile e i punti di
rottura dentro questa crisi possono essere molteplici e imprevedibili.
Chi piangerebbe sul mancato pagamento del debito pubblico?
Dunque se l’Italia non pagasse il suo debito pubblico, a doversi
preoccupare sarebbero soprattutto le banche, le compagni assicurative e i
fondi di investimento in gran parte stranieri e in misura minore
italiane e
le grandi famiglie della malavita organizzata che hanno investito
abbondntemente sui titoli del debito per riciclare legalmente i capitali
sporchi. In
misura irrilevante lo sarebbero poi le famiglie più ricche o le poche
che in questi anni di crollo del risparmio sono riuscite a mantenere
quote di patrimonio più o meno consistenti investite in titoli del
debito pubblico italiano.
Tutti questi soggetti, non solo incassano a scadenza la cedola sui
titoli di stato italiano, ma incassano ogni anno una media di 70
miliardi di euro di interessi che lo Stato corrisponde ai possessori dei
titoli indipendentemente dalla loro scadenza. Quindi già solo
congelando il pagamento degli interessi, si avrebbero a disposizione
ogni anno risorse finanziarie rilevanti per avviare piani straordinari
per l’occupazione, risanare scuola e sanità, investimenti produttivi e
infrastrutturali, risorse che verrebbero sottratte una volta tanto alle
banche e alle entità finanziarie private e restituite agli interessi
collettivi.
La dimensione stessa del debito pubblico accumulato in questi ultimi
venticinque anni dall’Italia, le caratteristiche dei possessori dei
titoli del debito pubblico, l’enorme sproporzione tra il peso reale
delle risorse sottratte agli interessi sociali collettivi dalle misure
richieste dalla Bce e dai “governi delle banche” e la loro possibilità
di “incidere” su un movimento globale degli investimenti nell’ordine
delle migliaia di miliardi di dollari al giorno, fanno dire ormai a
settori crescenti del sindacato, dei movimenti sociali, della politica e
della cultura che il debito non può e non deve essere più pagato da lavoratori, disoccupati, pensionati, giovani.
Non solo questi settori hanno “già dato!” in questi venti anni
gettando nel secchio bucato del pagamento del debito e degli interessi
sul debito qualcosa come 430 miliardi di euro tra tagli ai servizi
sociali, nuove imposte, blocco dei salari e delle pensioni, riduzione
prestazioni previdenziali, privatizzazioni etc., ma adesso gli si chiede
di riprendere la giostra della porta girevole con nuovi tagli,
sacrifici, rinunce a diritti acquisiti, negazione di ogni vera
prospettiva di lavoro, di reddito, di salario, pensione e di servizi
sociali degni di questo nome.
Un campagna di massa contro il pagamento del debito pubblico e per la democrazia
E’ ormai evidente come quaranta o cinquanta miliardi di euro in tagli
alle spese e nuove imposte, pesino enormemente sulle condizioni di vita
dei settori popolari ma siano del tutto insignificanti nel casinò
globale dei mercati finanziari internazionali. Ritenere che la soluzione
alla questione del debito pubblico possa passare attraverso ripetute
manovre “lacrime e sangue” dei vari governi, è una sanguinosa menzogna
che occorre demolire agli occhi della società.
A questa sanguinosa menzogna si può e si deve contrapporre una
soluzione diversa e alternativa fondata sul non pagamento del debito, la
nazionalizzazione delle banche e la irrinunciabilità della democrazia.
Il nesso tra non pagamento del debito e questione democratica è infatti
strettissimo e torna ad essere materia che porta direttamente al nodo
del cambiamento politico di sistema.
La questione dirimente infatti non è sul “se, il come o il quando
pagare il debito”, il problema è che “il debito non va pagato” per
imporre un nuovo ordine di priorità all’uso delle risorse disponibili
nel nostro e negli altri paesi sottoposti al massacro sociale imposto
dalla Bce o dall’Ecofin dell’Unione Europea.
In tutti i paesi ipotecati dal debito (quello estero negli anni
ottanta e novanta nei paesi in via di sviluppo, quello pubblico nei
paesi europei nel XXI Secolo), la popolazione è stata non solo vessata
dalle manovre lacrime e sangue e dalle terapie d’urto – ieri quelle del
Fmi e della Banca Mondiale, oggi quelle della Banca Centrale Europea –
ma è stata sistematicamente espropriata di ogni sovranità o possibilità
di decidere sulle soluzioni adottate. Sistemi elettorali maggioritari,
autoritarismo dei governi e sedi decisionali sopranazionali, hanno
impedito con ogni mezzo che la società potesse esprimersi sulle scelte
decisive, magari anche scegliendo poi di fare i sacrifici richiesti ma
solo dopo essere stata consultata, informata e messa nelle condizioni di
decidere.
Nell’Unione Europea oggi questo tema è stato posto all’ordine del
giorno sulla base di una divaricazione incompatibile tra democrazia e
capitalismo. I governi delle banche, veri e propri governi unici ormai e
indipendentemente dal partito/coalizione al governo, applicano una governance
oligarchica e unilaterale decidendo nelle sedi europee i provvedimenti
che dovranno essere adottati e certificati nei singoli paesi. E la
discussione stessa si sintetizza in quelle sedi privando di
decisionalità sia i parlamenti sia le istanze sociali che possono solo
ricorrere agli scioperi e agli scontri di piazza per segnalare la loro
opposizione alle misure lacrime e sangue.
La stragrande maggioranza dei partiti parlamentari votano poi i
provvedimenti o ne agevolano l’approvazione in nome dell’obbedienza alla
superiore istanza europea che viene sbandierata ancora come baluardo
rispetto all’instabilità e garanzia di un assetto democratico che
occorre salvaguardare anche a costo di misure antipopolari. La
rappresentanza politica istituzionale subisce così un ulteriore
arretramento che ne svuota ogni contenuto democratico e di
rappresentanza sociale.
Questa contraddizione – segnalata con forza dai movimenti degli
Indignados spagnoli – appare ormai dirimente in un paese-limite come
l’Italia.
Infatti se in altri paesi si sono potuti tenere dei referendum sui
vari aspetti dell’integrazione nell’Unione Europea, nel nostro paese
questa possibilità democratica è stata sistematicamente negata con
effetti molto gravi. In Francia e in Olanda, la società ha potuto
discutere e votare sulla Costituzione Europea, in Danimarca, Svezia,
Irlanda, Norvegia si sono potuti tenere referendum sull’adesione o meno
all’Eurozona o alla stessa Unione Europea. In Islanda addirittura c’è
stato il recente referendum che ha sancito il non pagamento dei debiti
delle banche. In Spagna, gli Indignados e i movimenti della sinistra e
repubblicani hanno chiesto un referendum contro l’introduzione del
vincolo di bilancio nella Costituzione
Queste sono state tutte occasioni in cui la gente ha dovuto/potuto
informarsi ed esprimere la propria volontà. Il problema per
l’establishment europeo, semmai, è che ogni volta che la società dei
vari paesi si è potuta esprimere democraticamente, ha votato contro i
progetti dell’oligarchia istituzionale e finanziaria bocciandoli
sonoramente. .
In Italia niente di tutto questo è stato fino ad oggi possibile
perché la Costituzione vieta i referendum in materia di leggi di
bilancio e di trattati internazionali. Questo limite “oggettivo” ha
permesso da un lato a tutti i partiti, inclusi purtroppo anche quelli
della sinistra radicale, di marginalizzare l’analisi e il dibattito
sulla natura imperialista dell’Unione Europea, dall’altro ha impedito
che le questioni europee trovassero interesse e attenzione in vasti
strati della società. Il sistema bipartizan, approfittando di entrambe
le condizioni, ha sempre veicolato un europeismo enfatico ed acritico
come un dogma che abbiamo visto operare in sede di approvazione della
manovra finanziaria imposta dalla “lettera della Bce”.
In realtà questa è ormai una foglia di fico, sia perché nel 2001 il
centro-sinistra promosse il referendum confermativo su materia
costituzionale come il titolo V della Costituzione (sul federalismo),
sia perché è inaccettabile che venga introdotto il pareggio di bilancio
nella Costituzione ma si impedisca – trincerandosi dietro la
Costituzione – un referendum su questa modifica così rilevante (e del
tutto assurda da ogni punto di vista, NdR).
Proposte e soluzioni da discutere e su cui agire
Di fronte all’annodarsi della crisi sistemica del capitalismo che sta
colpendo soprattutto gli Stati Uniti e l’Unione Europea (i Brics al
contrario non vanno affatto male), si vanno affacciando analisi e
proposte che in qualche modo indicano una controtendenza rispetto alla
subordinazione - magari critica ma sempre subordinazione - ai diktat
della Bce, delle istituzioni finanziarie internazionali e dei governi
unici delle banche.
La campagna sul non pagamento del debito e la democrazia che verrà
discussa e lanciata il prossimo 1 ottobre, va in questa direzione. E’
chiaro che se dobbiamo indicare una alternativa al massacro sociale e
all’autoritarismo crescente, non possiamo sottrarci dall’indicare delle
soluzioni.
A settembre Joseph Halevi ha scritto un ottimo saggio su Il Manifesto
nel quale sottolinea giustamente che “il nodo é rompere la sudditanza
verso il pagamento del debito pubblico come fonte di rendite delle
società finanziarie e anche delle grandi imprese, in gran parte a loro
volta finanziarizzate”. Halevi diventa però prudente nel passaggio
dall’analisi all’indicazione politica e scrive: “Affinché questo
ragionamento abbia sbocchi pratici é necessario entrare nel contenuto
della spesa pubblica e rilanciare il ruolo ridistributivo della
fiscalità. Nell'oscurantismo imperante, però, la mia é una pura
illusione” (4).
Il problema infatti è quello di costruire non una “campagna di
opinione” sul non pagamento del debito, ma una campagna politica e di
massa che non nutra illusioni velleitarie e la collochi ben dentro il
senso comune della gente e il conflitto di classe nei vari settori
sociali.
Il non pagamento del debito è una di queste soluzioni che possiamo
mettere in campo, consapevoli però che questa battaglia implica un
cambio di paradigma nelle priorità del sistema politico ed economico in
cui operiamo. Non è infatti possibile disgiungere dal non pagamento del
debito la questione della nazionalizzazione delle banche, perché è
soprattutto il debito “pubblico” verso le banche quello che va
eliminato. Si tratta di due misure complementari che rimettono al centro
l’interesse collettivo a scapito degli interessi privati che si sono
rivelati antagonici proprio verso gli interessi della collettività,
costringendola a dissanguarsi per riempire di liquidità i bilanci delle
banche, evitare che fallissero e regalandogli la possibilità di lucrare
sui titoli del debito pubblico.
Ma il dibattito si va facendo più avanzato anche sul terreno delle soluzioni strategiche nella dimensione europea.
Un libro di prossima uscita edito dalla Jaca Book – “Il Risveglio dei maiali”, e
scritto da L.Vasapollo in collaborazione con J.Arriola, R. Martufi,
avanza l’idea di un’area monetaria euromediterranea – viene indicato a
tale scopo anche l’acronomo “Alias” - tra i paesi Piigs, la sponda sud
del Mediterraneo e i paesi dell’Europa dell’est per sottrarre questi
paesi all’implosione che deriva dall’egemonia del cosiddetto “polo
carolingio” dalla nitida natura imperialista (Francia, Germania,
Austria, Olanda, Fiandre, Padania) il quale sta piegando le economie dei
paesi deboli dell’Europa ai propri interessi commerciali, finanziari e
industriali.
Urge dunque, second gli autori, una via d’uscita all’implosione
politica e sociale che però passa per la fuoriuscita dall’UEM (Unione
Economica Monetaria europea) e dal dotarsi anche di una propria moneta
diversa dall’Euro. “Risulta imprenscidibile per l’affermazione di una
nuova moneta e di una politica orientata in favore dei lavoratori,
contare su uno spazio produttivo nel quale si possa stabilire una nuova
divisione del lavoro basata sui principi di uno sviluppo sociale
collettivo solidale e un benessere qualitativo per l’insieme della
popolazione della nuova area monetaria Alias…. In una seconda tappa dopo
la sua costituzione nei paesi della periferia dell’Eurozona, la nuova
moneta e le nuove condizioni di sviluppo sociale ed economico devono
diventare una proposta d’integrazione diretta alle altre periferie del
capitale europeo: la periferia dell’Est Europa e quella dell’Africa
mediterranea” sostengono gli autori nel loro libro/manifesto politico
(5).
Ad una conclusione simile, giungeva mesi fa anche un altro economista
marxista come Bruno Amoroso, il quale in un saggio scrive che “Per
quanto ci riguarda è necessario che si pervenga rapidamente ad una
iniziativa valutaria dell’Europa mediterranea che introduca un Euro
mediterraneo comprendente la Francia e tutti i paesi dell’Europa del
Sud. Questo riporterebbe la sovranità economica e monetaria al servizio
degli obiettivi decisi dai governi e dalle istituzioni di questa grande
meso-regione europea” (6).
Una rottura della subalternità della politica
Se guardiamo al di fuori di una logica meramente eurocentrista e
facciamo tesoro delle esperienze di altre aree del mondo, non puo’ che
tornare utile il confronto con i movimenti sociali e le forze
intellettuali che hanno condotto la battaglia contro il pagamento del
debito nei paesi dell’America Latina. In diversi di questi paesi, la
ripresa dello sviluppo economico interno e il significativo cambiamento
politico che li ha sottratti ai dogmi e ai provvedimenti liberisti, ha
coinciso proprio con la mobilitazione dei movimenti sociali e poi con la
decisione di alcuni governi di non pagare il debito. Insomma esperienze
concrete da cui una volta tanto la sinistra europea dovrebbe cominciare
ad apprendere piuttosto di dare lezioni in giro per il mondo.
L’incontro nazionale del 1 ottobre a Roma lanciato dall’appello
“Dobbiamo fermarli” può essere una prima occasione straordinaria per
indicare sia un’agenda di lotta che un percorso di approfondimento sulle
soluzioni e le alternative alla crisi del capitalismo. Oggi, nel nostro
paese, non c'è nessun soggetto politico che affermi pubblicamente
queste cose e ne faccia derivare una azione conseguente nel conflitto
sociale. E' tempo che una vasta coalizione di forze politiche, sociali,
sindacali, intellettuali prenda in mano questa opportunità sula base di
una convinta indipendenza politica e la rovesci contro un avversario che
rivela ogni giorno di più il suo “odio di classe” contro i nostri
settori sociali di riferimento.
Note:
(1) Un
recente rapporto diffuso dal Casper afferma che dall’introduzione
dell’euro a oggi, i prezzi sono aumentati del 53,7% e che il potere
d’acquisto di salari e pensioni ha perso il 39,7%, inserto “Tuttosoldi”
su La Stampa del 12 settembre
(2) La
Morgan Stanley ha elaborato questi dati sulla base di quelle forniti
dalla Banca d’Italia nel 2010. I dati sul 1991 sono della Banca
d’Italia. La rivista del Cestes, “Proteo”, ha documentato nel numero di
primavera la composizione effettiva del debito pubblico italiano sia sul
piano del debito interno che di quello estero. Da quei dati si desume
che il termine “debito sovrano” è del tutto incongruo e strumentale alle
campagne terroristiche e mediatiche sui rischi sociali del default.
(3) I
dati sono indicati nell’articolo “Così la nuova schiavitù dei debiti
incrociati crea il contagio globale”, Federico Rampini in La Repubblica
del 7 agosto 2011
(4) “Una cacofonia oscurantista”, Joseph Halevi, su Il Manifesto del 4 settembre
(5) “Il Risveglio dei Maiali”, edizioni Jaca Book, settembre 2011
(6) “L’impatto sociale delle politiche europee”, Bruno Amoroso su “Insight”, gennaio 2011
Nessun commento:
Posta un commento