Come sappiamo già da mesi, alcuni paesi europei sono stati privati del
loro potere politico di indirizzo economico, e sostituiti da strutture europee
economico-finanziarie quali la Banca Centrale Europea, il famigerato Fondo Salva
Stati (variante europea del Fondo Monetario Internazionale), nonché dalla
stessa Unione Europea e dalla Banca Centrale Tedesca. Di fatto, parlare di
commissariamento è fin troppo poco: quello che stanno vivendo i paesi più
indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel
corso dell’ottocento e del novecento, decine di paesi del secondo e terzo
mondo, con l’FMI al posto del Fondo Salva Stati, la Banca mondiale al posto di
quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione Europea. Tutti
paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio
dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne
determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le
politiche economico-sociali. La storiella del debito, dunque, è abbastanza
vecchia da poter essere presa a modello per capire cosa accadrà in
Italia, ricordando anche cosa successe a qualche paese invaso
dalle stesse cure che toccheranno a noi.
Prima di tutto, è stato preparato a dovere il terreno culturale su cui
poi andare a intervenire. Si sono create le condizioni psicologiche che hanno
portato la gente ad avere una fottuta paura del debito pubblico, così da vedere
il ridimensionamento dello stesso come condizione imprescindibile per andare
avanti. La storia è più o meno questa:
I mercati, che
sono formati dalla massa di cittadini-risparmiatori che investono i propri
risparmi nelle banche comprando obbligazioni o azioni delle società quotate in
borsa, stanno portando un attacco speculativo verso i paesi indebitati vendendo
le azioni o le obbligazioni di questi paesi, intimoriti dalla possibile
insolvenza di questi paesi.
Questi mercati,
dunque, non sono altro che una sorta di opinione pubblica mondiale sui fatti
economici, per cui se decidono di vendere determinate azioni o obbligazioni è
perché non si fidano più della stabilità (=solvibilità) di ciò che hanno in portafoglio.
Questa opinione pubblica è spaventata dall’enorme massa di debito di alcuni
grandi paesi europei, dunque questo crollo di fiducia determina una fuga di
capitali dai paesi indebitati. Quindi il vero motivo di questa sfiducia
collettiva è, in fin dei conti, il debito pubblico. Cosa avrebbe prodotto
questo debito pubblico? Il debito pubblico sarebbe il risultato di anni di
gestione scellerata e spendacciona di questi stati, che nel corso del tempo
avrebbero accumulato un debito nel confronti dei loro cittadini in virtù delle
proprie politiche di sperpero di denaro pubblico, di salari troppo elevati, di
pensioni troppo alte, di servizi pubblici garantiti e così via. Insomma, la
soluzione dovrebbe essere quella di rientrare di questo debito riformando
l’economia, abbattendo pezzi di stato sociale ormai non più proponibili perché
sarebbe finito il tempo delle “vacche grasse”, in cui un po’ tutti abbiamo
vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”, mentre sarebbe giunta l’ora di
“tirare la cinghia”. E’ ora di liberare l’economia dai lacci e laccioli che la
imbrigliano, diminuendo la spesa statale, abbassando le tasse e così via, per
far risalire finalmente la fiducia degli investitori internazionali nei nostri
confronti così da generare di nuovo profitti e crescita economica.
Torna, vero?
Questa, in linea di massima, la visione politica odierna di ciò che sta
succedendo in Italia e nei paesi maggiormente indebitati. Bene, tutto
questo è falso.
Anzitutto, i mercati. Nei mercati finanziari non investono i cittadini,
i risparmiatori, i contribuenti o come sono stati definiti nel corso di questi
anni coloro che detengono azioni in borsa. Nei mercati finanziari agiscono le
società di intermediazione mobiliare, le istituzioni finanziarie e monetarie, i
fondi pensione e i fondi d’investimento, le banche, le assicurazioni. Ciò non
vuol dire che sia vietato ai cittadini di poter investire in borsa, e
sicuramente ci saranno molti “privati” che decidono di impegnare il gruzzoletto
risparmiato in azioni. Però gli attori dei mercati borsistici sono altri, sono
coloro che possiedono i capitali, quelli veri, e che muovono stock di azioni
che niente hanno a che vedere con quelle che potrebbe spostare il singolo
risparmiatore. Dunque, nei mercati non è riflessa alcuna opinione pubblica
mondiale, o europea.
Questi stessi attori protagonisti nelle borse sono gli stessi che nel
corso degli anni hanno prodotto la gran parte del debito pubblico italiano.
Riflettiamoci un istante con un semplice esempio: poniamo che un ipotetico
fondo pensione statunitense possieda, mettiamo, 50 milioni di euro in azioni a
Piazza Affari, e realizzando una manovra speculativa decida di venderli. Questa
vendita (sommata ad altre vendite) produrrà un abbassamento del valore della
borsa italiana di un qualche punto percentuale, che si rifletterà in campo
economico in una perdita di fiducia delle istituzioni finanziarie verso la
nostra struttura finanziaria, andando così ad aumentare le percentuali di
rischio di solvibilità del nostro paese, che quindi andranno ad aumentare
il tasso d’interesse che servirà a comprare i nostri titoli del tesoro. Un
aumento del tasso d’interesse significa che per acquistare i nostri titoli
dovremmo offrire più soldi, per trovare mercato, e così facendo saremmo
costretti ad indebitarci di più. Ecco come, in questo semplice quanto evidente
esempio, il nostro debito pubblico sarebbe aumentato senza che sia avvenuto
alcun tipo di movimento nell’economia reale, nessun aumento di spesa pubblica,
nessun abbassamento delle tasse o aumento delle pensioni. Questo è esattamente
ciò che sta accadendo all’economia finanziaria italiana per quanto riguarda il
debito pubblico, che ricorda vagamente ciò che è accaduto nel corso della
storia per le economie dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa che hanno
assaggiato la cura dell’FMI. Enormi manovre speculative ai danni delle economie
dei paesi emergenti, che aumentava a dismisura il loro debito pubblico –
detenuto dagli investitori esteri – e che costringeva, con l’acqua alla gola, queste
economie all’abbraccio mortale delle istituzioni finanziarie internazionali
guidate da Washington.
Perché tutto questo sta avvenendo in Italia in questi anni e non è
avvenuto prima? Perché fino all’inizio degli anni novanta il debito pubblico
italiano era detenuto da strutture finanziarie italiane (banche e
assicurazioni), era un debito interno, detenuto quasi esclusivamente da attori
italiani che non avevano alcun interesse a far crollare la fiducia di un
mercato nel quale detenevano la stragrande maggioranza di azioni e in cui
avevano il loro territorio economico d’appartenenza. Con la crescente
finanziarizzazione dei mercati, con il progressivo abbattimento di ogni
frontiera per lo spostamento dei capitali, per la cavalcata trionfale della
deregulation finanziaria, i mercati azionari italiani si sono sempre più fusi
con quelli internazionali. Oggi la quota di debito pubblico detenuta da
investitori internazionali è del 52,4%, a fronte del 5,59% del 1991 (dati
Bankitalia). Questi investitori internazionali hanno, al contrario di quelli
nazionali, tutto l’interesse alle manovre speculative nei confronti di un
qualsiasi stato. Non solo perché non rischiano nulla, potendo spostare i propri
capitali da una parte all’altra del mondo nel giro di un click col mouse, ma
soprattutto perché un aumento del rischio d’insolvenza fa salire i tassi
d’interesse per collocare i nostri titoli pubblici sul mercato. Si stabilisce
un circolo vizioso per cui più uno stato è a rischio fallimento e più genera
profitti per gli investitori internazionali, generando ulteriore debito e
dunque aumentando il rischio fallimento.
Chi detiene dunque il nostro debito pubblico? Secondo i vari organi di
propaganda neoliberista, il debito pubblico dovrebbe essere la quota che ognuno
di noi rischia di perdere se lo stato fallisse, i soldi che lo stato ci
dovrebbe dare e che non è in grado di onerare (sempre perché è vissuto al di
sopra delle sue possibilità e altre mega bufale del genere). Al momento in cui
scriviamo, ogni italiano dovrebbe avere una quota di 33.000 euro sul proprio
groppone. Anche questo è falso. Il debito pubblico italiano è detenuto per il
52% da quelle istituzioni finanziarie estere di cui sopra (fondi speculativi,
banche, assicurazioni, società di intermediazione e così via); per il 32% da
banche e istituzioni finanziarie italiane; dal 4% dalla Banca d’Italia e solo
per l’11% dalle famiglie e da altre società non finanziarie. Insomma, circa
l’85% del nostro debito pubblico è detenuto dalle banche, italiane o estere. Se
noi dovessimo finalmente fallire, chi perderà i propri “risparmi” saranno
proprio quelle istituzioni finanziarie che hanno contribuito ad esacerbare
questa crisi, che ci stanno speculando sopra anche oggi, e che stanno
costringendo, tramite la longa manus delle tecnostrutture europee, alle riforme
economiche che invece andranno ad incidere, queste si in maniera indelebile,
sulla vita delle famiglie italiane. Ovviamente, delle famiglie più povere,
visto il carattere squisitamente di classe della manovra economica appena
approvata e dettata da Bruxelles.
Capito perché non possiamo fallire? Perché fallirebbero le banche e i
fondi europei che nel frattempo stanno giocando in borsa col nostro debito
pubblico, sicure del fatto che, al momento del bisogno, sarà l’economia reale
dei lavoratori in carne ed ossa a ripagare i debiti che vengono prodotti ad
ogni movimento speculativo.
Questo giochetto, e cioè utilizzare il grimaldello del debito pubblico,
gonfiato ad arte dalla finanza internazionale, per poter riformare in senso
neoliberista l’economia degli stati, è stato usato nel corso degli anni, come
abbiamo detto, proprio nei confronti di quei paesi che avevano bisogno di un
“aggiustatina” economica, o che risiedevano su territori appetibili
economicamente, o possedevano una vasta mano d’opera a basso costo desiderosa
di farsi sfruttare. E non solo in Argentina o in Cile, in Corea del Sud o in
Messico come in Brasile o in Bolivia, ma anche in quei paesi del “primo” mondo
che avevano bisogno di una svolta liberista, come l’Inghilterra della Thatcher
o gli Stati Uniti di Reagan. Questi episodi storici di introduzione forzata di
misure neoliberiste sono partiti tutti dall’assunto di un debito pubblico
troppo elevato, di una riforma dell’economia per ridimensionarlo e dell’impossibilità
di andare avanti in questo modo. Proprio grazie a questo, e alla battaglia
culturale (stravinta) sulla necessità di avere un debito in ordine per marciare
verso il progresso e il benessere, è stato possibile la vittoria schiacciante
del neoliberismo in molti stati. Oggi è il turno dell’Italia, della Grecia,
della Spagna, del Portogallo e dell’Irlanda. Sebbene paesi capitalisti e
liberisti, hanno ancora uno strato socio-economico basato sulla presenza dello
Stato nell’economia, hanno ancora un potenziale non indifferente di profitto
per la finanza speculativa mondiale.
E’ per questo che o usciamo dalla logica del debito, decidendo di non
pagare i nostri debiti agli speculatori internazionali, oppure saremo costretti
nell’abbraccio mortale di una nuova spinta neoliberista che devasterà
ulteriormente il nostro paese. E’ una riflessione un po’ retorica, ovviamente,
visto che sappiamo bene di che pasta sono fatte le nostre “sinistre” e quali
sono le loro visioni del mondo per quanto riguarda l’economia e il rapporto con
l’Europa. Ma sono riflessioni che dovremmo fare nostre in vista del 15 Ottobre,
quando l’opposizione a questa crisi creata dal capitale manifesterà per le
strade di tutta Europa. Ci vediamo nella lotta.
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