sabato 24 settembre 2011

FINE IMPERO

Il cupio dissolvi del governo: "liberarsi di Tremonti" 

di  Redazione Contropiano

Se c'è un ministro - per riconoscimento pressoché unanime - che ha mantenuto un filo esilissmo di dialogo tra questo governo e le istituzioni internazionali, il suo nome è Giulio Tremonti.
Dal nostro punto di vista, l'uomo è responsabile di manovra sanguinose e depressive, tali da renderlo per sempre uno dei peggiori nemici dei lavoratori (battuto forse solo dal suo collega Maurizio Sacconi).
Ma dal punto di vista "statuale", nel rapporto con altri stati, banche centrali, e istituzioni sovranazionali, è stato l'unico volto "presentabile" in una compagine governativa infarcita di nani, ballerine, (sospetti) mafiosi, (sospetti) camorristi, dipendenti Mediaset e Fininvest. Per non parlare degli improbabili "ministri padani"...
Solo un governo che vuol tirare prima le cuoia può pensare di eliminare "il garante" - come immodestamente e stupidamente si è definito lui stesso - della serietà nella manutenzione dei conti pubblici dell'Itlia. L'intento sembra però abbastanza chiaro: comunque vada, c'è una campagna elettorale da fare (2012 o 2013, poco cambia), e quindi servono "cordoni della borsa larghi" per provare a recuperare almeno parte dei consensi perduti a valanga nell'ultimo anno e mezzo.
Non c'è bisogno di un premio Nobel per capire che una strategia del genere verrebbe presa d'infilata dalla reazione dei mercati e delle stesse istituzioni sovranazionali. Ma intorno a palazzo Grazioli gira gente che ha una sola preoccupazione: garantire se stessa, comunque vada. E lo dice pure!

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dal Corriere dela sera
La cabina di regia anti-Tremonti. Letta media: se cade lui, cade il governo

Prima di partire per gli Stati Uniti, Tremonti ha tolto tutte le carte dalla scrivania del ministero. Berlusconi vorrebbe che svuotasse anche i cassetti e togliesse il disturbo dal governo. Il titolare dell'Economia è però convinto di restare, non solo perché non si dimetterà ma anche perché «non hanno strumenti per cacciarmi». In realtà, il Cavaliere aveva pensato addirittura a una mozione di sfiducia individuale pur di chiudere il rapporto, e c'è voluto del tempo prima che Gianni Letta lo riportasse alla ragione.
«Silvio, non hai capito che se cade Giulio, cade anche il governo?». «Gianni, non hai capito che quello vuol far precipitare tutto». «Ho capito, ma un conto è se fossi tu a provocare lo scontro, altra cosa è se lui si dimettesse». Così è nata l'idea del direttorio a Palazzo Chigi, una task force economica sotto l'egida di Letta da contrapporre al titolare di via XX settembre. Più che spacchettarlo - come voleva Maroni - si pensa almeno a impacchettare Tremonti, a svuotarne i poteri, costringendolo alla collegialità, alla mediazione su ogni provvedimento, fino a metterlo in minoranza nelle riunioni del Consiglio dei ministri. «E vedremo quanto a lungo resisterà».
L'operazione tuttavia non è facile, e in più è Berlusconi ad avere fretta, perché deve dare un segnale al Paese sul versante economico prima di muovere guerra alla magistratura sul fronte giudiziario. Perciò il premier era deciso a sostituire subito Tremonti con Grilli, riproponendo il copione di sei anni fa: anche allora infatti era stato un direttore generale del Tesoro (Siniscalco) a subentrare al «genio». L'idea del cambio in corsa resta, ma per il momento il Cavaliere ha dovuto ripiegare su una struttura, il direttorio, tutta da costruire e che evoca la famosa «cabina di regia» chiesta nel 2002 da Fini proprio per contenere lo strapotere del superministro: fu quello il primo passo verso il «dimissionamento» di Tremonti.
Rispetto ad allora però Tremonti non ci pensa nemmeno a fare un passo indietro, e per quanto indebolito politicamente, si dice pronto ad affidare a Berlusconi la regia: «Si assuma lui la responsabilità di stabilire i tagli ai ministeri, i tagli alle pensioni. Faccia lui, insieme a Letta». Più che un segno di disponibilità sembra una sfida, a difesa delle proprie idee che - a suo modo di vedere - erano vincenti. L'uomo del «rigore» respinge infatti la tesi di aver «sbagliato quattro manovre», come gli contestano i suoi accusatori nel governo e nella maggioranza: «La verità è che fino a quando ho gestito io la situazione, lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi era molto basso. Poi...».
E qui comincia l'arringa difensiva di Tremonti, una storia che parte dalla sconfitta alle Amministrative, «quando Berlusconi non accettò l'idea che il risultato fosse stato causato dal bunga-bunga e non dalla linea di politica economica». In quel periodo il Cavaliere provò a rilanciarsi parlando di riforma del Fisco e di un possibile taglio delle tasse, «e da quel momento i mercati iniziarono a punirci». Fino ai giorni drammatici di agosto, quando il governo si trovò costretto alla manovra d'emergenza e il premier - secondo Tremonti - «provò a fare di testa sua».
In effetti fu del Cavaliere l'idea di chiamare il presidente della Bce per avere idee alternative a quelle del superministro, «e se chiamò Trichet, lo fece perché con lui poteva parlare in francese», sottolinea con una punta d'agro: «Ma la famosa lettera l'hanno scritta a Roma, mica a Francoforte. Figurarsi se lì gli veniva in mente l'abolizione delle Province, per esempio...». È a Draghi che allude Tremonti, all'«agente tedesco che fa gli interessi di Berlino», come una volta ha definito il governatore uscente di Bankitalia: «E quando Berlusconi ricevette la lettera si mise ad urlare dalla rabbia, perché aveva capito di esser stato ingannato».
Insomma, l'imputato scarica ogni responsabilità sul suo accusatore: sarebbe stato il Cavaliere a «organizzarsi da solo la trappola in cui poi è caduto». Così Tremonti si discolpa, e aspetta di conoscere le mosse del nuovo direttorio, vuole capire quale sarà il piano per la crescita. Perché di soldi non ce ne sono, «a meno che non si intenda contravvenire al patto del pareggio di bilancio per il 2013», né si può procedere con le dismissioni: «Lo Stato non può svendere gioielli di famiglia come l'Eni o l'Enel ora che le azioni in Borsa sono così basse». Resta l'altra strada, quella di operare «a costo zero, procedendo con le liberalizzazioni. Ma il Pdl lo accetterebbe? Perché ogni volta che ci ho provato, gli interessi corporativi hanno trovato udienza da Berlusconi...». Se c'è una cosa che manda in bestia i dirigenti del Pdl è l'aura di infallibilità che si è creata attorno a Tremonti. «Non passa riunione in cui non dica di aver previsto tutto», si lamentava tempo fa Verdini durante una riunione di partito: «E quanto ce l'ha tirata con la storia del suo libro, in cui sosteneva di aver previsto la crisi mondiale. Io l'ho letto quel libro. C'è scritto che la crisi sarebbe partita dalla Cina. Invece è scoppiata negli Stati Uniti...». Ecco qual è il livello delle relazioni. E non c'è dubbio che la situazione sia davvero imbarazzante.
Berlusconi e Tremonti continuano a non parlarsi, ma se le mandano a dire, come fossero acerrimi avversari. «Mai però ho parlato male di lui all'estero», sottolinea il superministro: «Non fosse altro perché avrei indebolito la mia posizione negoziale». Così dicendo sembrerebbe aprirsi uno spiraglio, ma è solo un abbaglio: «Io non ho mai parlato male di Berlusconi. Altra cosa è che di lui parlino male all'estero...».
L'incompatibilità è caratteriale oltre che politica. A tenerli insieme è solo il reciproco (e contrapposto) interesse alla sopravvivenza. Eppoi c'è Bossi. È lui che può decidere le sorti della contesa. Il Senatur sta facendo molto per il Cavaliere, «andremo avanti insieme, Silvio, fino in fondo», ma resta amico di Tremonti, «a lui gli voglio bene». È l'ultimo rimasto però nella Lega, insieme a Calderoli: oltre Maroni, anche nel «cerchio magico» monta l'ostilità verso il superministro, convinto però che sia tutta tattica e che «Umberto tra qualche mese saluterà Berlusconi e porterà tutti al voto l'anno prossimo».

Francesco Verderami, Il Corriere della Sera

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