Borghesia senza capitalismo o capitalisti senza capitali? Il
dilemma sulla classe dominante in Italia è antica quanto la modernità.
Per un ragionamento fondato sui dati, anziché sugli assunti
indimostrabili, consigliamo la lettura di questa rapida ma
interessantissima analisi di Marco Panara, su Repubblica di oggi.
L'elemento che ci sembra da mettere in rilievo è l'assoluta
"contrarietà al rischio" che caratterizza il "possidente" italico. Un
dato che lo connota come "anticapitalista" in senso decisamente
regressivo, come estraneo alla logica e alla cultura dell'"impresa". E
che ne spiega, probabilmente, anche le propensioni reazionarie sul piano
politico (dalla Lega alla mafia, da Berlusconi agli immobiliaristi),
che identificano abbastanza chiaramente il "blocco sociale" che si
aggrega contrapponendosi tanto alla "modernità capitalista" (l'Europa
imperialista in costruzione è vista con sospetto e ostilità) quanto,
ovviamente, alle istanze di emancipazione dei lavoratori e delle classi
popolari.
Il culto della "roba" - non della produzione di nuova ricchezza - che
produce e attraversa un immaginario "populista" in cui il "valore" può
esser creato sostanzialmente dall'occupazione di snodi particolari delle
strutture di potere amministrativo (di qui l'importanza - e la
prostituzione - delle funzioni "politiche") e/o dei "traffici" (non
necessariamente illegali). Per esempio, anche se Panara non se ne occupa
in questoa articolo, la struttura della distribuzione dei prodotti
agricoli, con una proliferazione tale di "intermediari" da generare
prezzi ridicolmente bassi al momento della raccolta (di qui la crisi
dell'agricoltura, specie nei piccoli produttori) e prezzi
insopportabilmente alti nella vendita al dettaglio.
Un immaginario pervertito che però "tracima" ben al di là dei settori
sociali che ne traggono vantaggio e "contagia" settori popolari,
irretiti nel gioco di specchi di una ricchezza esistente ma dall'origine
"misteriosa".
*****
Ricchezza inutile, in Italia cresce solo la rendita
Marco Panara
Grande patrimonio, crescita zero. Come e perché in Italia ha vinto il partito della rendita
Gli italiani, ricchissimi e
disperati. Ebbene sì, siamo ricchissimi, più dei francesi e dei
tedeschi, più degli inglesi, degli americani e dei giapponesi. Lo dicono
i numeri: la ricchezza lorda delle famiglie italiane alla fine del 2010
ammonta a 9 mila 732 miliardi di euro, i debiti (sempre delle famiglie)
a circa mille miliardi, la ricchezza netta è quindi pari a 8 mila 700
miliardi.
E' una cifra enorme, quasi
sei volte il pil, quattro volte e mezzo il debito pubblico, 7,8 volte il
reddito disponibile, contro il 7,7 del Regno Unito, il 7,5 della
Francia, il 7 del Giappone, il 6,3 della Germania e il 4,8 degli Stati
Uniti. Siamo più ricchi di loro ma stiamo peggio. Perché?
Per spiegarlo dobbiamo
partire dall'inizio, ovvero da come abbiamo fatto ad accumulare tanto. I
motivi principali sono che siamo un popolo di risparmiatori (virtù in
erosione) e un popolo di evasori fiscali (difetto che non si erode
affatto). Un elevato risparmio consente di accumulare e non pagando le
tasse si risparmia e si accumula molto di più. Nel 2009 per esempio la
ricchezza complessiva è cresciuta di 93 miliardi, 70 dei quali
rappresentati dal risparmio e il resto dall'aumento del valore. Non è
un'eccezione, tra il 1995 e il 2009 l'aumento della ricchezza è dovuto
per il 60 per cento al risparmio e per il 40 all'aumento del valore. Il
passo successivo per avvicinarci a capire perché stiamo peggio è nella
struttura economica dell'Italia, la cui sintetica fotografia questa:
debito pubblico enorme e debito privato relativamente contenuto,
ricchezza privata immensa che però non produce crescita.
Il presidente del consiglio e il ministro dell'economia, oltre a
dirci fino a giugno scorso che l'Italia stava benissimo, ci hanno
venduto quel contenuto debito privato e la gigantesca ricchezza delle
famiglie con elementi di forza, garanzie della tenuta del nostro debito
pubblico. Alla prova dell'estate purtroppo non si sono rivelate tali,
per la semplice ragione che più che elementi di forza sono segni di
squilibrio. Per quello che comportano e per quello che rivelano.
Quello che comportano è sotto i nostri occhi: il debito pubblico
elevato sbilancia l'intero paese e rende più costoso anche quello
privato. Se la ripartizione fosse diversa, con un 20-30 per cento in più
di debito privato e altrettanto in meno di debito pubblico le agenzie
di rating e i mercati ci guarderebbero con occhi assai diversi.
Quanto alla ricchezza privata, se è certo che è meglio averla che non
averla, è però assai poco utile se non produce crescita. Vuol dire che è
immobile e mal gestita. E' come quelle famiglie aristocratiche
che hanno immensi palazzi che non producono neanche il reddito
necessario a mantenerli. Il loro destino è segnato, cominceranno a
venderne dei pezzi fino a ritrovarsi nella casa del guardiano.
Se questo
è quello che la struttura economica dell'Italia comporta, ancora più
illuminante è quello che rivela. Debito pubblico e ricchezza privata
sono due facce della stessa medaglia, uno stato senza credibilità e
autorevolezza e un privato opportunista spesso saccheggiatore.
A questo punto però, per capire perché questa immensa ricchezza
privata non produce crescita, dobbiamo guardarci dentro. Quello che
troviamo già dice quasi tutto. Di quei 9 mila 732 miliardi di patrimonio
lordo il 57,8 percento è rappresentato da immobili, il 4,9 per cento da
beni di valore e da impianti, macchinari, scorte, attrezzature,
brevetti, avviamenti (le cosiddette attività reali) e il 37,3 per cento
da attività finanziarie.
Cominciamo da quei 5 mila e 600 miliardi di immobili. Solo il 6 per
cento, 330 miliardi o giù di lì, sono negozi, uffici o capannoni; il 4,3
per cento (240 miliardi) sono terreni e il resto, ovvero 4 mila 900
miliardi, sono abitazioni. Di queste (in totale sono 29 milioni 642
mila) l'80 per cento sono abitazioni principali e il restante, 5,7
milioni, sono seconde case (poco utilizzate) o case sfitte. Quelle
vuote, inutilizzate, sono ben 1 milione e 200 mila.
Passiamo ora alla seconda voce per importanza, le attività
finanziarie. Non sono poca cosa, si tratta di oltre 3 mila e 600
miliardi, metà dei quali sono detenuti in contanti, depositi bancari e
postali, titoli pubblici e obbligazioni, altri mille miliardi in azioni e
fondi comuni e circa 630 sono riserve tecniche delle assicurazioni. Nel
complesso la quota rappresentata dal capitale di rischio è più vicina a
un quarto che a un terzo del totale.
Infine la cenerentola di questo elenco, le attività reali, 476
miliardi di euro investiti per un quarto circa in beni di valore
(quadri, gioielli, mobili di antiquariato) e solo 380 miliardi in beni produttivi.
Pochissimo, per un paese che si dice manifatturiero, per un popolo che
si ritiene abbia l'imprenditoria nel sangue. Guardandosi intorno,
osservando le decine di migliaia di imprese che affollano tutto il Nord,
una parte del centro e qualche pezzetto fortunato del sud, e anche
escludendo le società quotate, le cui azioni vanno nel capitolo della
ricchezza finanziaria, sembrerebbe che il valore dei macchinari, degli
avviamenti e delle scorte di tutte quelle imprese sia ben superiore a
quei sparuti 380 miliardi.
La spiegazione c'è. Se calcoliamo che secondo il Rapporto Coraporate
EFIGE 2011, la percentuale dell'attivo di bilancio delle imprese
italiane finanziata con il capitale proprio è pari al 12 percento (in
Francia il 30 e in Germania il 34) e 1'88 per cento è coperto dal
debito, i conti tornano. Il valore complessivo di tutte quelle attività è
vicino a 4 mila miliardi, il problema è che i proprietari di tasca loro
ci mettono poco, pochissimo, e infatti uno dei vincoli alla crescita di
quelle imprese è che sono poco capitalizzate e molto indebitate. I loro
proprietari preferiscono mettere i soldi in appartamenti e nella
finanza piuttosto che nelle aziende, e infatti loro sono ricchi e le
aziende povere.
A questo punto possiamo tornare alla domanda iniziale: perché con un
patrimonio così ricco la crescita del nostro paese è così bassa? La
risposta, che è già nel modo in cui quel patrimonio è investito, la dà
Giacomo Neri, partner di Pricewaterhouse Coopers, curatore insieme a
Gino Gandolfi dell'Università di Parma di un osservatorio sul risparmio
degli italiani (Orfeo): «La struttura di questo patrimonio è difensiva e
la sua gestione non è ottimale». Questo patrimonio non serve a
costruire il futuro ma a difendersi, per una serie di ragioni di ieri e
di oggi, che poi sono le stesse che stanno dietro i capitali all'estero.
Alla base c'è la sfiducia nello stato, nel suo arbitrio, nelle sue
incertezze e instabilità; in passato c'era anche l'inflazione, che
aggiungeva sfiducia nella moneta (e quindi gli immobili). A questa si
aggiunge la sfiducia nei mercati finanziari, quelli del parco buoi,
quelli nei quali le azioni si pesano e non si contano, nei quali gli
azionisti di controllo anche se con un pugno di titoli in mano usano
l'impresa come casa propria.
C'è anche, dice Roberto Nicastro, direttore Generale di Unicredit,
«una ragione culturale: l'immobile piace e rassicura, conserva il valore
o lo accresce nel tempo. E l'imprenditore che rischia con la sua
attività con il suo risparmio preferisce non rischiare». Ma la ragione
chiave è il fisco. Le tasse servono a pagare i servizi comuni, le
strade, l'illuminazione, la giustizia, la difesa, per coprire
investimenti comuni come l'istruzione e per difenderci da rischi che
abbiano deciso di mettere in comune, come la salute e la vecchiaia. Ma
il modo come le si raccoglie non è indifferente, disegna il modo di
essere di un paese e della sua economia.
Il fisco italiano da decenni ha deciso di caricare tutto il suo peso
sull'impresa e sul lavoro, ovvero su quello che crea la ricchezza, e di
privilegiare gli immobili e le rendite finanziarie (il cui prelievo solo
con l'ultima manovra è passato dal 12,5 al 20 percento). C'è una
tabella di Banca d'Italia chiara e terribile: nel 2010 le imposte
dirette sono state pari al 14,6 per cento del pil, quelle indirette al
14 per cento e quelle in conto capitale, ovvero sul patrimonio, pari ad
un misero 0,2 per cento. Il denaro fugge dove viene meno colpito, e in
Italia è meno colpito se si ferma, si immobilizza, esce dalla famigerata
denuncia dei redditi.
Lo stock di ricchezza è un vantaggio competitivo nazionale - dice
Neri - ma bisogna valorizzarlo, gestirlo bene, renderlo produttivo e
dinamico. Ci vuole una politica orientata a questo, in un paese con tanto
risparmio a valorizzare il risparmio gestito favorendo la nascita di
grandi imprese del settore, in un paese con un ricco patrimonio
immobiliare favorendo la crescita di gestori più grandi e più
professionali. In un paese ricco ma fermo riorientando il prelievo
fiscale tassando i patrimoni e i beni improduttivi e alleggerendo il
carico su lavoro e impresa».
Ci stiamo occupando molto, e giustamente, della produttività del
lavoro, forse dovremmo cominciare a occuparci anche della produttività
del capitale. Roberto Nicastro aggiunge un segnale di allarme: «Negli
ultimi mesi si sta inaridendo il flusso di fondi esteri disponibili a
investire in Italia, e se non si recupera rapidamente credibilità e
fiducia potrebbe diventare un problema. Questo pone una sfida al
risparmio italiano: se continuiamo a mettere i soldi negli immobili come
faremo a finanziare la crescita?» Nicastro dà anche la risposta, che
riguarda anch'essa le tasse: «Bisogna pensare a un nuovo equilibrio nel
trattamento fiscale relativo tra le varie forme di risparmio».
La conclusione che dobbiamo decidere che paese vogliamo, se puntiamo
sull'impresa e sul lavoro oppure sulla rendita. Ma dobbiamo sapere che
la rendita non sarà eterna: se le cose non cambiano quel patrimonio
cominceremo presto a mangiarcelo.
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