La ragione principale della crisi del debito pubblico deriva dalla stagnazione del Pil negli ultimi dieci-quindici anni e dalla mancata ripresa, rispetto alla crisi dei mutui, nei Paesi avanzati. Questo è ancora più vero per l'Italia, che ha registrato per oltre dieci anni, prima della crisi, una crescita media del Pil inferiore a quella degli altri Paesi europei, subendo la crisi in modo più pesante...
Confindustria attribuisce questo ritardo alla diminuzione della
crescita della produttività. Quello che Confindustria non dice, però, è
che le cause della riduzione della produttività e della competitività
italiana derivano dalle scelte sue e dei governi che l'hanno
accontentata. In primo luogo, negli ultimi venti anni lo stock degli
investimenti destinati all'estero è quasi decuplicato, stornando molta
parte del risparmio italiano verso Paesi con costo del lavoro inferiore
allo scopo di realizzare saggi di profitto più alti. Inoltre, molti
capitali si sono spostati da settori manifatturieri, sottoposti alla
concorrenza, verso settori con prezzi di monopolio, grazie alle
privatizzazioni, che, in aggiunta, hanno eliminato o indebolito le poche
imprese italiane grandi e presenti in settori tecnologicamente
avanzati. Ma la ragione principale del calo della produttività e della
competitività italiana sta nelle controriforme del mercato del lavoro,
dal "pacchetto Treu" (1997) alla "legge Biagi" (2003).
Come
dimostrano due studi, uno dell'FMI e un altro di docenti di Harvard e
della Northwestern University, la produttività ha rallentato in Europa
dagli anni ‘90 a causa della precarizzazione del lavoro, che ha reso
disponibile alle imprese una maggiore quantità di lavoro abbassandone il
costo. Questo è avvenuto con maggiore intensità in Italia, il cui
indice Ocse di protezione del lavoro è sceso in pochi anni al di sotto
di quello di Francia e Germania e la cui produttività tra 1990 e 2009 è
stata la più bassa tra i Paesi del G7. L'abbondanza di lavoro a basso
prezzo ha scoraggiato le imprese dal fare nuovi investimenti e
miglioramenti di processo. Alle controriforme del mercato del lavoro si è
aggiunta la massiccia esternalizzazione che ha aumentato le
micro-imprese, permettendo di aggirare l'articolo 18, ma, allo stesso
tempo, riducendo le economie di scala e la ricerca innovativa.
In tal
modo si è ridotta la produttività del fattore capitale, basando la
competitività solo sulla produttività del fattore lavoro, cioè
sull'intensità e sulla lunghezza del lavoro. Questo meccanismo ha retto
per un po' grazie alle svalutazioni competitive della lira e
all'evasione-elusione fiscale e contributiva. La prima è venuta meno con
l'euro, e le seconde hanno contribuito al rigonfiamento del debito
pubblico.
La riduzione della base produttiva industriale e della
produttività hanno indebolito le esportazioni. Nello stesso tempo,
l'immissione di massicce dosi di liquidità da parte delle banche
centrali, favorendo la bolla immobiliare e l'indebitamento delle
famiglie europee, ha incentivato le importazioni.
L'effetto
negativo è stato duplice. Da una parte, è aumentato il debito
commerciale con l'estero e, dall'altra, è esploso il debito pubblico,
perché, al momento dello scoppio della bolla, le banche, alle prese con
crediti inesigibili, sono state salvate dagli Stati. Senza crescita non
si risolve la crisi del doppio debito e senza produzione industriale non
c'è crescita. Dagli Usa all'Italia ci si rende conto che bisogna
rilocalizzare. Il punto è come farlo. Marchionne vuole applicare il
"modello Detroit": contrazione di salario, diritti e welfare in cambio
delle rilocalizzazioni. Confindustria vuole continuare nella stessa
disastrosa direzione: privatizzazioni e riduzione del costo del lavoro,
giudicato troppo alto. Secondo Eurostat, però, il costo del lavoro
manifatturiero è di 24 euro all'ora per addetto in Italia, di 27,7 euro
nell'area euro, di 33,4 euro in Germania e di 33,2 in Francia.
Viceversa, i margini di profitto sul fatturato sono il 7,5% in Italia,
il 6,6% in Germania e il 5,4% in Francia. Soprattutto, è assurdo pensare
di affrontare la competizione mondiale abbassando il costo del lavoro
italiano a quello polacco o brasiliano. La crescita di un Paese come il
nostro può essere perseguita solo con investimenti e innovazione. Ma ciò
richiede il ribaltamento del paradigma politico-economico prevalente,
cioè stabilire l'intervento dello Stato nell'indirizzo dell'economia e
nella produzione, da quella dei servizi in regime di monopolio ai
settori tecnologici avanzati, che i privati non coprono, e l'abolizione
delle controriforme del lavoro, a partire dalla "legge Biagi". Le
risorse ci sono, da quelle della Cassa depositi e prestiti a quelle
recuperabili da una vera riforma fiscale, che ristabilisca la
progressività delle imposte prevista dalla Costituzione e combatta
l'evasione.
Domenico Moro, articolo pubblicato sull'inserto Asilo Politico del Nuovo Corriere di Firenze
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