E' un terreno accidentato quello di San Martino in Campo, pur
così lineare e tranquillamente disteso oltre il lembo del Tevere, tra Deruta e
Torgiano e davanti alle magnifiche colline del contado perugino, ma non per
colpa del disinteresse generale che ha sciupato - con la presenza di piccole discariche
abusive, capannoni dismessi, costruzioni artigianali aborrite, - quelli che il
piano regolatore definiva, pur con qualche compiacente eccesso, terreni agricoli
di pregio.
Quello di San Martino in Campo non pare così naturalmente
pianeggiante da quando non è più destinato alle coltivazioni di qualità ma alle
magnifiche e progressive idee del futuro, quelle del commercio e della grande
distribuzione. E da quando, soprattutto, l’affare IKEA, che non è ancora affaire, ma ci manca poco, è entrato
nella sfera di competenza non solo dei progettisti e di tutti gli altri addetti
ai lavori, ma della magistratura. Per carità siamo solo agli inizi di un’inchiesta
e per ora la sola notizia certa è che delle persone in divisa sono entrate
nelle stanze del comune di Perugia e in quelle delle Opere Pie, proprietarie
del pacchetto di San Martino in Campo e protagoniste di uno scambio complicato
di proprietà con un imprenditore di Marsciano, per capire se dietro questa
specie di baratto si possa nascondere un reato, quello di corruzione e se in
questa storia abbia una qualche responsabilità anche il Comune.
Dunque, i terreni, è il caso di dire, sonno due, quello del
giudizio nel merito del progetto e sul quale il dibattito è aperto da tempo, e
l’altro, quello giudiziario, ed è un peccato perché la cancellazione
freddamente pianificata di una delle zone più meritevoli di tutela e di una
diversa valorizzazione, avrebbe avuto
bisogno di una discussione libera da condizionamenti di questo tipo. C’è chi guarda al valore del paesaggio, all’equilibrio
del territorio, alla necessita di coniugare le ragioni dello sviluppo con
quelle dalla tutela e chi, al contrario, costringe la stessa idea di progresso
dentro un orizzonte più limitato ed immediatamente esigibile. Sarebbe stato un bel dibattito, ma a Palazzo dei Priori hanno corso come un
treno per arrivare, senza tanti complimenti, all’obiettivo che si voleva
raggiungere. Del resto si poteva dire di no ad Ikea?
Succede sempre così a
Perugia e non è
certo cosa nuova. Si poteva dire di non
al multiplex di Centova? E si poteva dire di no al progetto di una nuova
Monteluce concepita come una specie di Perugia 2 e, negli anni più lontani, si
poteva dire di no alla Perugina e alla costruzione del centro direzionale di
Fontivegge? Sulla giustezza di queste scelte, tra l’altro ognuna con una
propria e diversa connotazione, non è più neanche il caso di discutere. Sono state
fatte e sono lì, così che ognuno può misurare nel tempo la loro utilità
sociale. In fondo questa città non è il
risultato di ciò che i piani regolatori avevano previsto, ma delle varianti che
sono arrivate, immancabili, quando c’è stata la necessità di soddisfare
esigenze fortemente sostenute.
C’è però una riflessione da non tralasciare. Tutti questi progetti, figli di altrettante
varianti, destinati a cambiare il volto della città e, in alcuni casi, il
nostro stesso modo di viverla, sono nati non per rispondere ad un bisogno
collettivo, ad una necessità di carattere generale. Di tutte queste cose si
poteva tranquillamente fare a meno o scegliere altre strade. Perché allora è
andata così? È andata così perché la ragione fondamentale di questi progetti è
sempre stata la ricerca di una rendita
fondiaria, necessaria in quel momento per ragioni ogni volta diverse. Così,
in fondo, un po’ a caso è cresciuta nel corso della nostra vita questa città. A
Monteluce servivano fondi per completare l’ospedale Silvestrini, a Fontivegge
per rinfrescare le finanze di un’azienda che assicurava occupazione. A Centova
le cose erano assolutamente diverse perché si trattava , chissà se proprio a
ragione, di soddisfare aspettative private. A San Martino in Campo l’intreccio
è più complesso ancora e i cosiddetti diritti acquisiti di chi possiede un
terreno, molto meno chiari e dimostrabili.
Siamo solo al principio di un’indagine che deve completare la
magistratura, ma l’affare Ikea è piuttosto semplice da capire. È una delle
tante storie italiane dove, ad un certo punto, compare un personaggio che è
svelto e molto furbo. Non è questo il paese dei furbi? Solo che perché ci siano
i furbi è necessario che ci siano quelli che non sanno riconoscere i furbi se
no, il furbo, è nudo come il re. Certo con gli svedesi non faremo una gran bella
figura. Troviamo, noi italiani, sempre il modo di farci riconoscere.
Fonte: Il Corriere dell’Umbria
del 22.10.2011
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