sabato 1 ottobre 2011

Il comitato d’affari della borghesia

di Nicola Melloni (Liberazione del 1 ottobre 2011)
 
La lettera inviata al governo italiano da Trichet e Draghi contribuisce a far chiarezza sullo stato politico ed economico dell’Unione Europea. E’ una lettera lineare, quasi disarmante nella sua semplicità, che spiega perfettamente sia le linee guida che il modus operandi della Banca Centrale Europea. I due banchieri non usano giri di parole. Due sono i passaggi altamente significativi. 
Nell’introduzione stabiliscono che è «necessaria un’azione pressante da parte delle autorità italiane per ristabilire la fiducia degli investitori». La lettera diventa ancora più precisa quando suggerisce le misure da intraprendere per ristabilire la fiducia degli investitori: permettere «accordi a livello di impresa così da ritagliare su misura (taylor nell’orginale inglese) i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende».
Non si tratta di una semplice lettera di suggerimento, ma di un manifesto politico a tutto tondo. Un manifesto politico che riprogramma la società in funzione delle necessità e dei desideri di pochi – le banche, le imprese, in una parola, il capitale – contro il lavoro, contro l’equità e la giustizia sociale, con il profitto e contro il salario. Un manifesto politico che avrebbe una sua legittimità se presentato agli elettori e votato, ma che si vuole invece far passare per imposizione e ricatto («O così o vi abbandoniamo alla speculazione»). 
D’altronde, la natura antidemocratica della lettera viene ribadita in un altro passaggio, quando si invita a privatizzare i servizi locali, fondamentalmente fregandosene del fatto che il popolo italiano ha appena deciso che, ad esempio, l’acqua è un bene comune e non può essere privatizzato. Forse Trichet non segue con attenzione le vicende politiche della nostra penisola, ma Draghi? Qui si tratta, in maniera del tutto lapalissiana, del disprezzo per le decisioni democratiche quando queste siano d’ostacolo al progetto oligarchico del capitale. Quel che sostanzialmente si propone è un superamento della democrazia del Novecento ed un ritorno al governo come comitato di affari della borghesia, di marxiana memoria.
D’altronde, le banche centrali sono ormai diventate istituzioni di parte, sottratte a qualsiasi forma di controllo popolare, totalmente unaccountable. Nonostante abbiano nelle loro mani importanti politiche pubbliche, in primis quella monetaria, non rispondono a nessuno delle loro azioni.
Da quando le banche centrali sono divenute indipendenti – in Italia il famoso divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro risale al 1981 – l’economia ha preso la piega che ben conosciamo: attenzione spasmodica (e senza nessun fondamento empirico) all’inflazione, crescita contenuta e comunque distribuita in maniera ineguale, a favore del profitto e contro il salario. Certo non solo a causa delle banche centrali, ma con il loro decisivo contributo. Le banche centrali sono spesso diventate ostaggio delle banche private che dovrebbero controllare, ma da cui sono in effetti controllate vista la partecipazione di queste ultime nel capitale delle istituzioni monetarie pubbliche. Stranamente però, mentre tutti parlano della riforma delle agenzie di rating, nessuno parla della riforma della governance delle banche centrali che dovrebbe essere il primo punto in agenda.
Non solo è urgente come non mai cambiare lo statuto della Bce, inserendo l’obbligo di preoccuparsi ed occuparsi di crescita e occupazione, ma è necessario riportare sotto il controllo politico questa istituzione. Non è accettabile che mentre le economie dell’Europa mediterranea affondano e milioni sono i senza lavoro, Trichet possa alzare i tassi di interesse, come ha fatto in estate. Non è pensabile che la Banca Centrale Europea metta il veto sul default parziale di Atene ed imponga di pagare un debito impagabile, che distrugge l’economia greca e che la trasforma in una economia centro-africana. Non è soprattutto immaginabile che una cricca di banchieri centrali possa pensare di imporre politiche fiscali e di “sviluppo” economico a parlamenti sovrani. 
La risposta alla crisi non è e non può essere una ulteriore involuzione tecnocratica (leggi: antidemocratica) come invece propongono De Ioanna e Galimberti sul Sole24ore, ma proprio l’esatto contrario. Quel che serve è una politica democratica, trasparente e giudicabile dagli elettori, al servizio degli interessi economici collettivi e non serva delle esigenze del capitale. Il comitato d’affari della borghesia

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