Per la Grecia si dice apertamente che è
addirittura “sotto tutela”. E i greci lo sanno bene. Un numero
eccezionale di scioperi generali tutti riuscitissimi, con manifestazioni
popolari oceaniche, in presenza di un governo ufficialmente
“socialista” neppure responsabile della falsificazione dei conti
pubblici (realizzata negli anni precedenti dai conservatori, che ora
criticano i tagli), hanno prodotto un risultato chiaro: zero.
Il governo greco dunque non esiste più.
Esiste un “liquidatore amministrativo” (Bce, Ue, Fmi) che dà
disposizioni a un “amministratore locale” (Papandreou e Venizelos) su
come mettere a valore il patrimonio pubblico residuo e cancellare
l'autogoverno di un popolo. Se non può decidere su cosa fare della
propria produzione di ricchezza, infatti, uno stato nazionale non esiste
più. Tecnicamente.
Ma sulla Grecia è stato messo a punto un format che
ora viene applicato a tutti gli altri Piigs. Di cui l'Italia
rappresenta il pezzo forte. “Troppo grande per fallire, troppo grande
per essere (eventualmente) salvata.
La “lettera al Consiglio d'Europa”
firmata da Berlusconi (ma scritta da Sacconi e Brunetta) indica come una
parte della classe dirigente di questo paese pensa di risolvere i
problemi “strutturali” della nostra economia: azzerando il lavoratore
quanto a tutele, diritti, salario, reddito, attese e livelli di vita,
possibilità di parlare e far pesare anche il proprio interesse nella
definizione di quello considerato “generale”.
Quella lettera accetta la “limitazione di
sovranità” che l'Unione e “i mercati” pretendono, ma chiarisce anche
quale parte – ancorché ampiamente maggioritaria della popolazione
dovrà perdere completamente e fin da subito il proprio “diritto
sovrano”, la propria quota. C'è insomma un'asimmetria evidente tra le
limitazioni che valgono per l'intero paese e quelle che valgono interamente per una sua parte.
Ogni programma economico, lo sappiamo, è
un programma sociale e uno spartito politico. Il fatto che l'Europa
abbia apprezzato, chiedendo addirittura l'anticipazione del
“licenziamento libero”, non rovescia affatto il giudizio continentale
sul “Tappo” di Arcore, ma chiarisce quale sia il programma europeo di gestione della crisi. Indipendentemente dal governo in carica,
come si è preoccupato subito di chiare il presidente Napolitano, vero
garante – insieme a Mario Draghi – della fedeltà italiana all'Unione.
Abbiamo dunque l'attuale situazione: Gli
stati nazionali “con problemi” non controllano più da tempo la politica
militare (gli aerei italiani hanno preso a bombardare la Libia mentre
ancora Berlusconi esitava); ora hanno perso anche l'autonomia sulla
politica di bilancio.
Non siamo ingenui. Una costruzione sovranazionale deve avvenire con cessione di sovranità da parte delle nazioni. Il problema è sempre come e in quale direzione.
La cessione che si è realizzata è asimmetrica sia
a livello di rapporti tra gli stati (la Germania non ne ha ceduta
affatto, anzi), sia e soprattutto a livello sociale (“pagare la crisi”
significa non solo peggiorare le condizioni di vita, ma rendere
politicamente ininfluenti intere figure sociali, classi, ceti). La
direzione tracciata è dunque quella di una centralizzazione politica sottratta ad ogni “controllo democratico” come conseguenza della creazione di un mercato e una moneta comuni. Svuotamento dei poteri intermedi “condizionabili” elettoralmente, creazione di superpoteri intangibili autocentrati.
Non esiste ovviamente una via a ritroso,
verso “politiche nazionali”. Nè per i governi, né per i popoli. Quindi
neppure per i sindacati, i movimenti, le forze politiche.
L'internazionalizzazione della “politica di classe” non è mai stata un
fatto ideologico, ma oggi diventa la condizione minima per poter
immaginare una dimensione dell'agire conflittuale all'altezza dei
problemi, per incidere sulle soluzioni. Ovvero, all'altezza delle mosse
dell'avversario.
Come dice la Ue all'Italia, anche qui si tratta di “passare dalle parole ai fatti”. Subito.
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