venerdì 28 ottobre 2011

La sovranità fuggita, di Dante Barontini, www.contropiano.org

Se il debito è sovrano, la sovranità va limitata...
Dopi 18 mesi di tormenti continentali intorno alla debacle della Grecia, all'emergere di problemi irresolubili anche per Irlanda, Portogallo Spagna e Italia, il concetto di “sovranità limitata” è stato affinato fino al punto da non prevedere vie di fuga o rinegoziazioni in corso d'opera.
Per la Grecia si dice apertamente che è addirittura “sotto tutela”. E i greci lo sanno bene. Un numero eccezionale di scioperi generali tutti riuscitissimi, con manifestazioni popolari oceaniche, in presenza di un governo ufficialmente “socialista” neppure responsabile della falsificazione dei conti pubblici (realizzata negli anni precedenti dai conservatori, che ora criticano i tagli), hanno prodotto un risultato chiaro: zero.
Il governo greco dunque non esiste più. Esiste un “liquidatore amministrativo” (Bce, Ue, Fmi) che dà disposizioni a un “amministratore locale” (Papandreou e Venizelos) su come mettere a valore il patrimonio pubblico residuo e cancellare l'autogoverno di un popolo. Se non può decidere su cosa fare della propria produzione di ricchezza, infatti, uno stato nazionale non esiste più. Tecnicamente.
Ma sulla Grecia è stato messo a punto un format che ora viene applicato a tutti gli altri Piigs. Di cui l'Italia rappresenta il pezzo forte. “Troppo grande per fallire, troppo grande per essere (eventualmente) salvata.
La “lettera al Consiglio d'Europa” firmata da Berlusconi (ma scritta da Sacconi e Brunetta) indica come una parte della classe dirigente di questo paese pensa di risolvere i problemi “strutturali” della nostra economia: azzerando il lavoratore quanto a tutele, diritti, salario, reddito, attese e livelli di vita, possibilità di parlare e far pesare anche il proprio interesse nella definizione di quello considerato “generale”.
Quella lettera accetta la “limitazione di sovranità” che l'Unione e “i mercati” pretendono, ma chiarisce anche quale parte – ancorché ampiamente maggioritaria ­ della popolazione dovrà perdere completamente e fin da subito il proprio “diritto sovrano”, la propria quota. C'è insomma un'asimmetria evidente tra le limitazioni che valgono per l'intero paese e quelle che valgono interamente per una sua parte.
Ogni programma economico, lo sappiamo, è un programma sociale e uno spartito politico. Il fatto che l'Europa abbia apprezzato, chiedendo addirittura l'anticipazione del “licenziamento libero”, non rovescia affatto il giudizio continentale sul “Tappo” di Arcore, ma chiarisce quale sia il programma europeo di gestione della crisi. Indipendentemente dal governo in carica, come si è preoccupato subito di chiare il presidente Napolitano, vero garante – insieme a Mario Draghi – della fedeltà italiana all'Unione.
Abbiamo dunque l'attuale situazione: Gli stati nazionali “con problemi” non controllano più da tempo la politica militare (gli aerei italiani hanno preso a bombardare la Libia mentre ancora Berlusconi esitava); ora hanno perso anche l'autonomia sulla politica di bilancio.
Non siamo ingenui. Una costruzione sovranazionale deve avvenire con cessione di sovranità da parte delle nazioni. Il problema è sempre come e in quale direzione.
La cessione che si è realizzata è asimmetrica sia a livello di rapporti tra gli stati (la Germania non ne ha ceduta affatto, anzi), sia e soprattutto a livello sociale (“pagare la crisi” significa non solo peggiorare le condizioni di vita, ma rendere politicamente ininfluenti intere figure sociali, classi, ceti). La direzione tracciata è dunque quella di una centralizzazione politica sottratta ad ogni “controllo democratico” come conseguenza della creazione di un mercato e una moneta comuni. Svuotamento dei poteri intermedi “condizionabili” elettoralmente, creazione di superpoteri intangibili autocentrati.
Non esiste ovviamente una via a ritroso, verso “politiche nazionali”. Nè per i governi, né per i popoli. Quindi neppure per i sindacati, i movimenti, le forze politiche. L'internazionalizzazione della “politica di classe” non è mai stata un fatto ideologico, ma oggi diventa la condizione minima per poter immaginare una dimensione dell'agire conflittuale all'altezza dei problemi, per incidere sulle soluzioni. Ovvero, all'altezza delle mosse dell'avversario.
Come dice la Ue all'Italia, anche qui si tratta di “passare dalle parole ai fatti”. Subito.

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