di Loris Caruso - Il Manifesto
Dopo le elezioni di febbraio, si è parlato di tutto tranne che della
sinistra radicale. La stessa cosa era successa dopo il 2008. Gran parte
dei movimenti e delle associazioni sembrano indifferenti al fatto che
esista una rappresentanza politica che ne sostenga le istanze e i
valori. Spesso, questa indifferenza, la esibiscono. Proliferano
parallelamente tentativi di ricostruzione unitaria, indipendenti e a
volte ostili tra loro (Alba, Ross@, il progetto di una “Syriza
italiana”, ecc.), ciascuno tendente a rappresentarsi come l’unica forma
di ricostruzione possibile. Non è molto lungimirante che movimenti e
associazionismo di sinistra si limitino ad osservare con compiacimento
la crisi della sinistra politica. Questa crisi ha effetti notevoli anche
sull’espansione e sull’efficacia dei movimenti. Da quando in parlamento
e nel paese non è più presente una sinistra autonoma, i conflitti hanno
assunto una dimensione prevalentemente locale e settoriale. La loro
capacità rivendicativa è diventata quasi esclusivamente reattiva e
difensiva. Con l’eccezione del movimento per l’acqua pubblica e delle
brevi mobilitazioni contro la legge Gelmini, ci sono stati, dal 2008 ad
oggi, movimenti sociali di portata nazionale? E, a parte il referendum
su acqua e nucleare, quante lotte, proteste e mobilitazioni hanno
raggiunto i propri obiettivi? Anche la più straordinaria, forte e
radicata protesta locale italiana, quella della Val di Susa, rischia di
essere sconfitta. Le numerose mobilitazioni dei lavoratori contro le
crisi aziendali rimangono spesso sconnesse una dall’altra. Non avanzano,
così, né la visibilità del dramma di una disoccupazione ormai
strutturale, né un insieme di rivendicazioni generali che parlino a
tutti i settori colpiti dalla crisi. La Fiom da sola, pur provandoci,
non riesce a costruire un sistema di alleanze che duri nel tempo.
Si rivela illusoria l’idea che la crisi della sinistra di partito dischiuda le “magnifiche sorti e progressive” della sinistra sociale, aprendo la strada alla moltiplicazione di esperienze di auto-organizzazione che, liberate dall’influsso paralizzante delle burocrazie politiche, trasformino progressivamente e capillarmente la società. Negli ultimi cinque anni non ci sono stati segnali in questo senso. L’indizio più forte sul destino di una società priva di sinistra politica, invece, è quello di una veloce assimilazione della realtà italiana a quella degli Stati Uniti, caratterizzata dalla presenza di una diffusa sinistra di movimento che non scalfisce i luoghi della decisione politica, monopolizzati da un partito unico diviso in due (o più) partiti. Stiamo andando velocemente in questa direzione. E se alle prossime elezioni politiche il campo sarà limitato allo scontro tra un Berlusconi (padre o figlia), Renzi e Grillo (di cui è davvero prematuro decretare il declino), il processo subirà un’ulteriore accelerazione.
È il momento di superare la frattura storica tra partito e movimento. Siamo in una fase di decostruzione-ricostruzione dei soggetti politici e delle strutture istituzionali. La frattura partito/movimento aveva un senso quando esistevano partiti di massa in grado di incanalare istituzionalmente la protesta e le soggettività che esprimeva e, quindi, di egemonizzarle. Per i movimenti era allora vitale mantenere una distanza di sicurezza. Ma oggi è finita la divisione del lavoro per cui i movimenti sollevano domande e i partiti organizzano le risposte. Come giustamente rivendicano, i primi sono in grado di svolgere entrambe le parti del lavoro. C’è bisogno, però, che queste risposte siano dotate di effettività.
L’Italia è tuttora un paese percorso da forme di mobilitazione collettiva ed esperienze di partecipazione dense e innovative. Tra le più importanti emerse ultimamente si possono citare la “Costituente per i beni comuni” e la rete “Per una nuova finanza pubblica”. Temi centrali, tentativi originali di costruzione di coalizioni sociali. Ma se lo scenario politico proseguirà nella direzione che si delinea, che possibilità ci sono che una riforma del diritto incentrata sul concetto di beni comuni e un cambiamento delle politiche economiche abbiano luogo? Nessuna.
È necessario che movimenti, coalizioni sociali e campagne di protesta costruiscano un luogo unitario in cui sia possibile elaborare rivendicazioni, programmi e culture politiche condivise, e che su questa base si costruisca un soggetto politico che coniughi il pluralismo e la partecipazione con la necessità di un’iniziativa unitaria e coordinata, che si sperimenti anche nella sfera politico-elettorale.
Tutto ciò che negli ultimi 150 anni è stato «sinistra» è nato dall’incontro tra conflitto, cooperazione sociale e cultura (ideologia) politica. È il momento di provare a riannodare questi tre fili. Non si tratta di trasformare i movimenti in partiti. Si tratta di cogliere il fatto che il partito non sarà più, probabilmente, la forma di organizzazione politica prevalente, e che è necessario inventare una forma di organizzazione che sappia svolgere in modo innovativo le funzioni che erano svolte dai partiti: costruire forme di azione stabili e diffuse su un territorio nazionale; coniugare partecipazione, rappresentanza e decisione. La vittoria di Accorinti a Messina e il buon risultato alle amministrative di coalizioni tra sinistra sociale e sinistra politica, dimostrano che questo è un percorso realizzabile. Se, com’è avvenuto in queste esperienze, c’è qualche partito disposto a partecipare a questi percorsi senza piegarli alle proprie necessità di auto-riproduzione, che senso ha escluderlo a priori? In nome di cosa? Sappiamo bene che, spesso, movimenti e associazioni riproducono al proprio interno i meccanismi e i difetti dei partiti. Le gare di purezza non servono più.
Soprattutto, nella politica contemporanea c’è un vuoto, un mondo sociale che da trent’anni non si traduce in azione politica: questo luogo è la condizione materiale dei ceti popolari, la frattura tra economia e vita. Non solo il lavoro, ma anche la casa, il reddito, la vita collettiva nelle periferie. Spesso nemmeno i movimenti raggiungono questi luoghi e questi soggetti. Il vuoto va colmato con un progetto innovativo che coniughi azione sociale e azione politica, per evitare che continui ad essere coperto dalle illusioni populiste. Si può partire da qui?
Si rivela illusoria l’idea che la crisi della sinistra di partito dischiuda le “magnifiche sorti e progressive” della sinistra sociale, aprendo la strada alla moltiplicazione di esperienze di auto-organizzazione che, liberate dall’influsso paralizzante delle burocrazie politiche, trasformino progressivamente e capillarmente la società. Negli ultimi cinque anni non ci sono stati segnali in questo senso. L’indizio più forte sul destino di una società priva di sinistra politica, invece, è quello di una veloce assimilazione della realtà italiana a quella degli Stati Uniti, caratterizzata dalla presenza di una diffusa sinistra di movimento che non scalfisce i luoghi della decisione politica, monopolizzati da un partito unico diviso in due (o più) partiti. Stiamo andando velocemente in questa direzione. E se alle prossime elezioni politiche il campo sarà limitato allo scontro tra un Berlusconi (padre o figlia), Renzi e Grillo (di cui è davvero prematuro decretare il declino), il processo subirà un’ulteriore accelerazione.
È il momento di superare la frattura storica tra partito e movimento. Siamo in una fase di decostruzione-ricostruzione dei soggetti politici e delle strutture istituzionali. La frattura partito/movimento aveva un senso quando esistevano partiti di massa in grado di incanalare istituzionalmente la protesta e le soggettività che esprimeva e, quindi, di egemonizzarle. Per i movimenti era allora vitale mantenere una distanza di sicurezza. Ma oggi è finita la divisione del lavoro per cui i movimenti sollevano domande e i partiti organizzano le risposte. Come giustamente rivendicano, i primi sono in grado di svolgere entrambe le parti del lavoro. C’è bisogno, però, che queste risposte siano dotate di effettività.
L’Italia è tuttora un paese percorso da forme di mobilitazione collettiva ed esperienze di partecipazione dense e innovative. Tra le più importanti emerse ultimamente si possono citare la “Costituente per i beni comuni” e la rete “Per una nuova finanza pubblica”. Temi centrali, tentativi originali di costruzione di coalizioni sociali. Ma se lo scenario politico proseguirà nella direzione che si delinea, che possibilità ci sono che una riforma del diritto incentrata sul concetto di beni comuni e un cambiamento delle politiche economiche abbiano luogo? Nessuna.
È necessario che movimenti, coalizioni sociali e campagne di protesta costruiscano un luogo unitario in cui sia possibile elaborare rivendicazioni, programmi e culture politiche condivise, e che su questa base si costruisca un soggetto politico che coniughi il pluralismo e la partecipazione con la necessità di un’iniziativa unitaria e coordinata, che si sperimenti anche nella sfera politico-elettorale.
Tutto ciò che negli ultimi 150 anni è stato «sinistra» è nato dall’incontro tra conflitto, cooperazione sociale e cultura (ideologia) politica. È il momento di provare a riannodare questi tre fili. Non si tratta di trasformare i movimenti in partiti. Si tratta di cogliere il fatto che il partito non sarà più, probabilmente, la forma di organizzazione politica prevalente, e che è necessario inventare una forma di organizzazione che sappia svolgere in modo innovativo le funzioni che erano svolte dai partiti: costruire forme di azione stabili e diffuse su un territorio nazionale; coniugare partecipazione, rappresentanza e decisione. La vittoria di Accorinti a Messina e il buon risultato alle amministrative di coalizioni tra sinistra sociale e sinistra politica, dimostrano che questo è un percorso realizzabile. Se, com’è avvenuto in queste esperienze, c’è qualche partito disposto a partecipare a questi percorsi senza piegarli alle proprie necessità di auto-riproduzione, che senso ha escluderlo a priori? In nome di cosa? Sappiamo bene che, spesso, movimenti e associazioni riproducono al proprio interno i meccanismi e i difetti dei partiti. Le gare di purezza non servono più.
Soprattutto, nella politica contemporanea c’è un vuoto, un mondo sociale che da trent’anni non si traduce in azione politica: questo luogo è la condizione materiale dei ceti popolari, la frattura tra economia e vita. Non solo il lavoro, ma anche la casa, il reddito, la vita collettiva nelle periferie. Spesso nemmeno i movimenti raggiungono questi luoghi e questi soggetti. Il vuoto va colmato con un progetto innovativo che coniughi azione sociale e azione politica, per evitare che continui ad essere coperto dalle illusioni populiste. Si può partire da qui?
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