Tutti
aspettavano che l’Istat parlasse. I più con motivato terrore,
qualcuno coltivando ancora qualche irragionevole speranza. E il
responso ufficiale è giunto. L’economia italiana è in recessione. Lo è
tecnicamente. Anche il secondo trimestre si è chiuso in negativo:
–0,2%, peggio delle già grame previsioni.
È il peggiore secondo trimestre dal 2000, quindi da prima
dell’inizio della crisi. Le previsioni sono che su base annua questi
valori ci porteranno come minimo a un – 0,3%, se non meno. E non si
tratta di andamenti congiunturali, ma strutturali visti i dati del
calo della produzione industriale.
Si può discutere all’infinito se gli italiani, quelli che l’hanno
avuto, si sono o no accorti del bonus degli 80 euro, il famoso coniglio
tratto dal cappello che ha permesso a Renzi di fare il pieno alle
recenti elezioni europee. Quello che è certo è che l’economia non ne
ha tratto alcun vantaggio. Le ragioni possono essere molteplici ma
certamente dovrebbe essere noto persino a un presidente del
Consiglio, malgrado sia evidentemente a digiuno dei
fondamentali, che quando non c’è fiducia sull’andamento concreto
dell’economia le persone e le famiglie a basso reddito non sono
inclini a spendere anche se gli metti qualche soldino di più nelle
tasche. Al massimo coprono debiti precedentemente contratti o
cercano di risparmiare qualche cosa in vista di tempi ancora
peggiori. Questo è il motivo per cui le associazioni dei
commercianti non hanno registrato aumenti sensibili del volume
delle vendite.
Se poi si volesse approfondire, basterebbe ascoltare cosa dicono
ultimamente gli stessi economisti del Fondo monetario
internazionale, che hanno riconosciuto che il moltiplicatore
dello sviluppo di un aumento della spesa sociale andato a buon fine è
molto più alto di quello provocato da una riduzione delle tasse.
Pensare di contrarre la spesa sociale e di diminuire
contemporaneamente le tasse produce logiche recessive in campo
economico, oltre che ingiustizie sociali. Infatti i pensionati e
quelli a partita Iva sono rimasti esclusi dal bonus renziano, ma
subiscono al pari degli altri la riduzione complessiva della spesa
sociale e la decurtazione dei servizi, che peggiorerà, tra le altre
cose, una volta completata la famosa spending review.
La negazione del diritto al pensionamento di chi tra gli
insegnanti ha raggiunto la famosa «quota 96», derivante dalla somma
dell’età anagrafica e di quella contributiva, non è solo un
incidente di percorso, un contrasto tra la volontà politica del
governo e le ferree leggi del bilancio tutelate dalla burocrazia
del Ministero del Tesoro (in ossequio, del resto, ai vincoli
derivanti dai trattati europei e da quelli costituzionali voluti
dalla attuale maggioranza ai tempi di Monti), ma una delle sempre più
frequenti manifestazioni del disintegrarsi del castello di
promesse – di quel «populismo finanziario» come lo ha definito
Marco Bascetta sul Manifesto – con cui Renzi aveva saputo costruire un
esteso quanto rapido consenso sociale.
Ma c’è di più. Il ministro Morando esclude la necessità di una manovra correttiva in autunno. Eppure Renzi stesso parla di recuperare quanto prima almeno 8 miliardi. In realtà fonti più attendibili da tempo avevano calcolato l’esigenza di una manovra esattamente di entità doppia, pari a 16 miliardi. Difficile che il governo possa sottrarvisi, visto l’andamento disastroso dell’economia e la conseguente diminuzione delle entrate fiscali. Qualcuno dovrà pure scontentare.
Ma c’è di più. Il ministro Morando esclude la necessità di una manovra correttiva in autunno. Eppure Renzi stesso parla di recuperare quanto prima almeno 8 miliardi. In realtà fonti più attendibili da tempo avevano calcolato l’esigenza di una manovra esattamente di entità doppia, pari a 16 miliardi. Difficile che il governo possa sottrarvisi, visto l’andamento disastroso dell’economia e la conseguente diminuzione delle entrate fiscali. Qualcuno dovrà pure scontentare.
Non solo, ma con l’entrata in pieno vigore, dal 2015, degli obblighi
della riduzione forzata del debito – nel frattempo cresciuto con le
politiche di austerità – contenuto nel famigerato fiscal
compact, la situazione economica e le condizioni di vita per
milioni di persone diventeranno ancora più insostenibili. Sarà più
difficile per Renzi affermare che avere fatto la «riforma del
Senato» è una straordinaria prova di capacità di governo con
un’economia che viaggia in negativo, una disoccupazione che cresce
assieme ad una precarietà che il decreto Poletti ha trasformato in
norma e condizione generale. Persino la Cgil si è decisa a muovere
un passo, denunciando seppure in ritardo presso gli organi della Ue le
nuove norme governative sul lavoro, in palese contrasto con la
stessa disciplina europea tuttora in vigore.
Renzi può anche trastullarsi con battute da bar, come quella che
la ripresa economica è come questa estate: stenta a venire, ma poi
verrà. Ma le sue parole sono sempre più rapidamente e
inequivocabilmente smentite dai dati e dalle percezioni delle
persone. Che l’uomo abbia diverse risorse e che non vada
sottovalutato è cosa vera – e qualcuno lo ha imparato a proprie
spese -, ma che la sua credibilità cominci precocemente a venire
erosa dalla durezza dei fatti è cosa altrettanto certa.
Sappiamo dall’esperienza però, che un’alternativa non nasce solo
dalla rovina dei vecchi regimi o sistemi di governo. Ci vuole un
pensiero e una forza che traccino una strada diversa ed abbiano il
coraggio di farlo evitando di restare prigionieri ogni volta nel
presunto realismo della politica.
Se L’altra Europa per Tsipras ha ottenuto un piccolo ma concreto
risultato è perché ha capovolto tale logica. Ritornare indietro –
magari con la scusa delle elezioni regionali alle porte – sarebbe
davvero imperdonabile.
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