Nemmeno la povertà è più quella di un tempo.
Non solo per la sua dimensione, ma anche per la composizione dei
poveri, e per il modo in cui la loro condizione viene oggi vissuta.
La
crisi – è questo il dato più sconvolgente – ha aperto una voragine nel
tessuto sociale. Nel 2013 (l’ultimo anno per cui sono disponibili i dati
aggregati) i “relativamente poveri”, cioè coloro che
possono spendere meno della metà rispetto alla media dei loro
concittadini, sono arrivati alla cifra record di 10 milioni e 48mila.
Nel 2010 erano 8 milioni e 146mila. Nel 2007, prima che tutto
incominciasse, erano 7 milioni e 542mila. In pochi anni sono cresciuti
di oltre due milioni e mezzo. Un numero superiore agli abitanti di Roma
Capitale. Tre volte la popolazione di una città come Torino.
Peggio ancora per gli “assolutamente poveri”,
cioè per coloro che non possono permettersi nemmeno quello che viene
considerato “il minimo indispensabile per condurre una vita dignitosa”
(mangiare, vestirsi, curarsi …). Sono oggi più di 6 milioni; erano circa
4 milioni nel 2012 e meno di 3 milioni nel 2008. Il che significa che
in cinque anni sono raddoppiati. Che allo “zoccolo duro” della povertà
“tradizionale”, per così dire, si è aggiunto un inedito esercito di “nuovi poveri”.
Di donne e di uomini, fino a ieri censiti tra i “salvati”, e oggi
precipitati fra i “sommersi”. Persone che si consideravano “normali”,
che conducevano una vita non diversa dalla maggioranza dei loro vicini,
che facevano progetti di vita, avevano stili di consumo, coltivavano
reti di relazioni tipici di una società affluente, che di colpo si sono
ritrovati nell’indigenza radicale. Cittadini per i quali l’orizzonte si è
rovesciato di colpo, come avviene nei naufragi.
Il
loro identikit è presto fatto. Sono i nuovi disoccupati, quelli che il
lavoro l’hanno perso e quelli che il lavoro non lo possono trovare, gli
esodati, i membri delle famiglie numerose, con minori a carico, le
famiglie monogenitore, per le quali un welfare avaro non fornisce
nessuna risorsa. Lo sono anche un buon numero di lavoratori attivi, i
così detto “working poor”, per i quali il salario (da fame è il caso di
dirlo) non basta neppure a soddisfare i bisogni minimi (nel 2013 quasi
il 12% delle famiglie operaie è in condizione di povertà assoluta). Più difficile la loro “mappa mentale”. Perché
la loro esperienza della miseria non è paragonabile a quella atavica,
cui le nostre popolazioni contadine erano abituate. Non è sostenuta da
quella “cultura della povertà” che aveva permesso loro di sopportare
condizioni di vita disumane mantenendo la propria identità e la propria
dignità. Soprattutto una combattività da struggle for life che ha costituito la base del nostro successivo “miracolo”.
La
nuova povertà, dopo aver vissuto un periodo di relativo benessere, è
vissuta come “naufragio dell’io”. Il rimbalzo indietro, nella solitudine
pubblica, nell’assenza di un racconto condiviso che dia senso corale
alla sciagura, diventa fallimento personale. Si trasforma,
appunto, in quella che gli antropologi definiscono “apocalisse
culturale”, senza riscatto. Tutt’al più attraversata da bagliori di
rancore, di frustrazione, di diffidenza, nel cui torbido pescano le
tante culture politiche della disperazione: quelle dal basso come i
populismi xenofobi, e quelle dall’alto, come le retoriche degli uomini
della provvidenza, dei salvatori delle Patrie, e dei nuovi demagoghi.
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