Sarà meglio parlare fuori dai denti e dai tecnicismi: l'Europa è in crisi e l'Unione Europea può solo aggravarla.
I dati statistisci pubblicati stamattina
confermano, in misura aggravata, le previsioni peggiori. Ovvero quelle
più realistiche. Il dato più clamoroso, e dunque anche più strombazzato
da tutti i media, è quello relativo al prodotto interno lordo della
Germania, che nel secondo trimestre è calato dello 0,2% rispetto al
primo trimestre. Il dato è peggiore delle attese degli analisti, che si
aspettavano un calo congiunturale "solo" dello 0,1%. L'istituto di
statistica di Berlino, per spiegarne il perché, si arrampica su tutti
gli specchi possibili: «una delle ragioni è stata probabilmente il clima
estremamente mite che ha portato ad alti tassi di crescita all'inizio
dell'anno. Secondo i calcoli più recenti, l'economia tedesca era
cresciuta dello 0,7% nel primo trimestre del 2014 e nell'ultimo
trimestre 2013 era salita dello 0,4% congiunturale». Non è impossibile
da capire, ma è ridicolo: faceva caldo di inverno e si è lavorato un po'
di più. Poi, a primavera, ci si è riposati?
La spiegazione vera è naturalmente
un'altra: la forte contrazione degli investimenti. Che a sua volta
chiama in causa sia ragioni strutturali (eccesso di capacità produttiva
in ogni comparto), sia contingenti (i “rischi geostrategici”, ovvero la
crisi ucraina e le sanzioni decise contro la Russia, che colpiscono
soprattutto la prima potenza esportatrice verso Mosca. Insomma, sono una
punizione soprattutto per la Germania). Se non si vedono prospettive di
profitto, gli imprenditori accorciano il braccio e investono meno. Se
poi ci aggiungiamo l'inflazione scesa a zero (o sotto, in molti paesi
Ue), allora non c'è proprio ragione perché un capitalista normale metta
in campo dei soldi. Sa bene che gliene torneranno indietro, se tutto va
bene, un po' meno del versato.
Ma il problema è continentale (noi
preferiamo dire: globale), al punto che la Francia – ferma per il
secondo trimestre consecutivo allo zero fisso – ha già annunciato che
non rispetterà gli obiettivi di bilancio fissati dall'Unione. Supererà
insomma il 4% nel rapporto defcit/Pil (contrattata in precedenza e ben
sopra i valori di Maastricht, inchiodati al 3%), avvicinandosi al 5. E
chiede – guarda un po' - “maggiore fesibilità” nel rispetto dei
trattati.
L'ignoranza economica di Matteo Renzi si è potuta così esplicitare en plain air,
con tutta una serie di battutine gravitanti in zona “mal comune, mezzo
gaudio”, nel tentativo di equiparare il -0,2% registrato dall'Italia nel
scondo trimestre con l'analoga prestazione tedesca; oltre a pontificare
sul "basta austerità" che però non trova riscontro nelle decisioni
effettive del governo. Naturalmente tace sul fatto che la Germania
veniva da un lungo periodo positivo (quasi 4 anni di crescita continua a
ritmo a volte anche sostenuto), lo stesso in cui il Belpaese è
rapidamente affondato.
Al di là delle necessità di questo attore
prestato alla politica, dunque, bisogna prendere atto che non ci sono
prospettive di uscita "indolore" dalla crisi esplosa nel 2007. Per
qualche anno si è veleggiato nell'attesa – sempre rinviata – di “una
ripresa che non poteva non arrivare”. Intanto venivano ridisegnate le
filiere produttive e la divisione internazionale del lavoro, con
l'Italia e altri piigs nello scomodo ruolo di “svenditori” del proprio
patrimonio – produttivo e non - nel penoso tentativo di ridurre il
debito dando via i gioielli di famiglia. A godere della micro-bonanza
realizzata sulle disgrazie altrui, soltanto i capitali multinazionali
più forti (a cominciare da quelli tedeschi, nella nostra area), senza
troppe distinzioni di passaporto (vero Etihad?).
Ora il gioco è finito anche per loro.
Non sembri paradossale o annuncio di una
prospettiva migliore la reazione “positiva” delle borse continentali. È
da tempo che andamento borsistico (positivo e oltre ogni record
immaginabile) ed economia reale viaggiano su binari divergenti. La
ragione è semplice: le innumerevoli “iniezioni di liquidità” realizzate
dalle banche centrali principali (soprattutto Federal Reserve, Banca del
Giappone, Banca di Inghilterra, la Bce annuncia prossime mosse dello
stesso tipo a giorni) sono finite nell'unico luogo in cui investitori
refrattari all'investimento “fisico” potevano convogliare questa massa
di liquidi: nelle borse, nella finanza ombra, nella speculazione su
qualsiasi cosa purché “non reale”. Una riprova? I prezzi delle risorse
naturali non riproducibili, a partire dal petrolio, non hanno subito
alcuna pressione speculativa. Sono un termometro invece dello stato
catalettico delle economie globali, e infatti sono fermi o in calo
(contribuendo così alla deflazione generale).
Di fronte a questo sconquasso che si
annuncia come definitivo, gli esponenti più rievanti della Troika –
naturalmente Mario Draghi e quel curioso caso di ottusangolo geniale di
nome Jens Weidmann, presidente di Bundesbank – dicono che il sistema va
bene così e c'è solo da fare “riforme strutturali”. A cominciare dal
mercato del lavoro e dalle pensioni.
In molti citano come esempio di
“validità” di questa ricetta quello del Portogallo – spremuto come un
limone, costretto a deflazionare i salari – che ha fatto registrare nel
secondo trimestre una crescita dello 0,7% dopo quasi cinque anni di
tracolli consecutivi. Nessuno, invece, che citi la Grecia (il paese che
più di tutti ha subito la falce delle “riforme strutturali”), che nello
stesso trimestre ha perso un altro 0,8%. Chissà se verrebbe incolpato il
clima, anche in questo caso...
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