Tagli al welfare. Si
persegue quella che il mondo anglosassone da sempre considera l’essenza
della democrazia moderna: una società di individui fondata sulla
libertà d’impresa
Afferma un celebre adagio che nella pervicacia si annida
il demonio. Se è vero, le leadership europee sono prigioniere di
potenze infere. Da sette anni infliggono ai propri paesi e alle loro
economie una terapia nel segno dell’austerity che dovrebbe
debellare la crisi e rimettere in moto la crescita. Non solo questa
cura non ha prodotto nessuno dei risultati attesi. Tutte le evidenze
depongono in senso contrario, al punto che sempre più numerosi
economisti mainstream si pronunciano a favore di
politiche espansive. Ciò nonostante la musica non cambia, nemmeno
ora che l’Istituto statistico nazionale della Germania federale ha
reso noti i dati sul secondo semestre di quest’anno. Anzi, il mantra delle «riforme strutturali» imperversa più forte che mai.
Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere. Sta di fatto che a suon di «riforme» l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano.
Insomma, il demonio sbanca. O c’è semplicemente un dio dispettoso che si diverte ad accecare gente che vuol perdere. Sta di fatto che a suon di «riforme» l’Europa si sta suicidando, come già avvenne nel secolo scorso dopo il crollo di Wall Street, nonostante il buon esempio degli Stati uniti rooseveltiani, che pure di capitalismo ne capivano.
Questa è una lettura possibile. I capi di Stato e di governo e i
grandi banchieri starebbero sbagliando i conti. Per superbia
e presunzione, forse per incapacità, come pare suggerire il
ministro Padoan parlando di previsioni errate. Ma c’è un’altra
ipotesi altrettanto plausibile. Anzi, a questo punto ben più
verosimile. Che non si tratti di errori ma del pesante tributo
imposto dal massimo potere oggi regnante. Nonché (di ciò troppo di
rado si discute) del perseguimento di un lucido progetto. E di un
calcolo costi-benefici forse spericolato ma coerente, in base al
quale la recessione, con i suoi devastanti effetti collaterali
(deflazione, disoccupazione, deindustrializzazione), appare un
prezzo conveniente a fronte del fine che ci si prefigge: la messa in
sicurezza di un determinato modello sociale nei paesi dell’eurozona.
Quale modello, è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le «riforme strutturali» di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a «far quadrare i conti» significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose.
Quale modello, è facile a dirsi, se leggiamo in chiave politica le «riforme strutturali» di cui si chiede a gran voce l’adozione. Costringere gli Stati a «far quadrare i conti» significa nei fatti imporre loro, spesso congiuntamente, tre cose.
La prima: vendere
(svendere) il proprio patrimonio industriale e demaniale.
La seconda: accrescere la pressione fiscale sul lavoro dipendente
(posto che ci si guarda bene – soprattutto ma non solo in Italia – dal
colpire rendite, patrimoni e grandi evasori).
La terza: tagliare la
spesa sociale destinata al welfare (vedi le ultime
esternazioni del ministro Poletti in tema di pensioni), al sistema
scolastico pubblico e all’occupazione nel pubblico impiego (dato che
altre voci del bilancio non sono mai in discussione).
Non è difficile capire che tutto ciò significa affamare il lavoro
e spostare enormi masse di ricchezza verso il capitale privato. Nel
frattempo, accanto a questi provvedimenti, ci si impegna
a modificare le cosiddette relazioni industriali. Così si varano
“riforme del lavoro” che hanno tutte un denominatore comune:
l’attacco ai diritti dei lavoratori (“rigidità”) al fine di fare
della forza-lavoro una variabile totalmente subordinata
(“flessibile”) al cosiddetto “datore”, che deve poter decidere in
libertà se, quanto e a quali condizioni utilizzarla.
Ne emerge un progetto nitido, che rovescia di sana pianta non solo
il sogno sovversivo degli anni della sommossa operaia ma anche
quello dei nostri costituenti. Si vuole fare finalmente della vecchia
Europa quello che il mondo anglosassone da sempre considera
l’essenza della democrazia moderna: una società di individui
fondata sulla libertà d’intrapresa, cioè sul potere pressoché
assoluto del capitale privato. Dopodiché potrà forse spiacere che
dilaghino disoccupazione e povertà mentre enormi ricchezze si
concentrano nelle mani di pochi. Pazienza. La “libertà” è un bene
sommo intangibile, al quale è senz’altro opportuno sacrificare un
feticcio d’altri tempi come la giustizia sociale.
A chi obiettasse che questa è una lettura tendenziosa, sarebbe
facile replicare con un rapido cenno alla teoria economica. L’enfasi
sulla disciplina di bilancio suppone il ruolo-chiave del capitale
finanziario nel processo di produzione, secondo quanto stabilito
dalla teoria neoclassica. Nel nome della “democrazia” questa
teoria affida la dinamica economica alle decisioni del capitale
privato. Il processo produttivo si innesca soltanto se esso
prevede di trarne un profitto, il che significa concepirlo non
soltanto come dominus naturale della produzione ma anche come il sovrano sul terreno sociale e politico.
Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza-lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne.
Vi sono naturalmente altre teorie. Marx, per esempio (ma anche Keynes) vede nella produzione una funzione sociale determinata principalmente da due fattori: la domanda (i bisogni sociali, compresi quelli relativi a beni o servizi “fuori mercato”) e la forza-lavoro disponibile a soddisfarli. In questa prospettiva la funzione del capitale (soprattutto di quello finanziario, il denaro) è solo quella di mettere in comunicazione la domanda col lavoro. Per questo non gli è riconosciuto alcun potere di veto, meno che meno la sovranità. Anzi: la disponibilità di capitale è interamente subordinata alla decisione politica, per quanto concerne sia la leva fiscale, sia la massa monetaria. Inutile dire che queste teorie sono tuttavia reiette, bollate come stravaganti e antimoderne.
Si pensa alle teorie come cose astratte, ma, come si vede, esse in
filigrana parlano di soggetti in carne e ossa e di concretissimi
conflitti. Il che spiega in abbondanza la povertà logica delle
resistenze alle critiche keynesiane e marxiste. Spiega il
vergognoso servilismo dei media, fatto di ignoranza e opportunismo. E spiega soprattutto perché, per l’establishment europeo,
le “riforme strutturali” propugnate nel nome della teoria
neoclassica siano un valore in sé, benché non servano affatto
a risolvere la crisi, anzi la stiano aggravando oltremisura.
La questione, insomma, è solo in apparenza economica e in realtà
squisitamente politica. Del resto, nella sovranità assoluta del
capitale e nella totale subordinazione della classe lavoratrice
risiede la sostanza dei trattati europei che in questi vent’anni
hanno modificato i rapporti di forza tra Stati e istituzioni
comunitarie, tra assemblee elettive e poteri tecnocratici.
È questo il punto di caduta di provvedimenti in apparenza dettati
dalla ragion pura economica come il famigerato fiscal compact; questa la ratio della
sciagurata decisione, al tempo del “governo del presidente”, di
inserire il pareggio di bilancio in Costituzione. Non ve n’era
bisogno, essendoci già Maastricht. Ma si sa, si prova un brivido
particolare nel prosternarsi dinanzi ai primi della classe,
nell’eccedere in espressioni servili. In altri tempi si sarebbe
parlato di collaborazionismo.
Un solo dubbio resta, nonostante tutto. È chiaro che alle leadership
europee non interessa granché dell’equità sociale, né fa problema,
ai loro occhi, l’instaurarsi di un’oligarchia. Ma a un certo momento
(ormai prossimo) non sarà più tecnicamente possibile
drenare risorse verso il capitale. Già oggi l’impoverimento di massa
genera disfunzioni gravi, come dimostra l’imperiosa esigenza di
“riformare” le Costituzioni per affrancare i governi dall’onere del
consenso. Insomma, è sempre più evidente che il modello
neoliberista urta contro limiti sociali e politici non facili
a varcarsi. È vero che in un certo senso il capitale non conosce
patria (è di casa ovunque riesca a valorizzarsi). Ma, a parte il
fatto che gli equilibri geopolitici risentono del grado di forza
interna delle compagini sociali (per cui l’Occidente rischia grosso
nel confronto con l’«altro mondo», in vertiginosa crescita, ricco
di capitali e di risorse umane), davvero è pensabile tenere a bada
società già avvezze alla democrazia sociale (in questo l’Europa si
distingue dagli Stati uniti) a dispetto di una regressione ad assetti
neofeudali? Abbiamo detto che non si capisce la discussione
economica se non la si legge in chiave politica. Ma è proprio un
problema politico quello che le leadership neoliberiste sembrano non porsi. Confermando tutta la distanza che corre tra gli statisti e i politicanti.
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