L’autore discute in questo articolo alcuni dei contributi presenti nel numero uno di Pandora.
Condivido
in generale la prospettiva per una critica del presente, per fare
uscire la politica dalla sua crisi e per un recupero di autonomia
politica della sinistra avanzata da Mario Tronti, in particolare nel suo
libro dell’anno scorso e recentemente nel suo articolo sul primo numero di Pandora (
Mi colloco però a un livello di elaborazione meno avanzato, più limitato e incompleto, rispetto alla loro proposta di ricostruzione politica, anche se al contempo e contraddittoriamente avverto, mi sembra più di loro, l’esigenza di un progetto politico collettivo già da subito più concreto.
Ci viene detto: una critica del presente e una cultura politica minimi per questa
fase. Indicazioni, da riprendere, apparentemente ragionevoli, ma forse
non sufficienti e non del tutto adeguate a soddisfare quell’esigenza di concreta
rivendicazione della politica e addirittura a fare irrompere la critica
e la coscienza teorica all’interno delle esangui forme attuali, come
una sorta di ambizioso cuneo rosso che spezza il cerchio bianco. In
particolare, se capisco bene le indicazioni di Tronti e di Bottos, al
centro dei loro sforzi di riflessione teorica è un ripensamento della
forma partito come punto di vista, come modo di stare nel
partito (che poi sarebbe il Pd), con l’obiettivo di restituire alla
politica uno sfondo culturale che la liberi ed emancipi dal vincolo di
un presente fatto di campagne elettorali e primarie continue, incapace
di pensare gli obiettivi di fondo e spesso neppure solo di risolvere i
problemi di un governo pure da tanti tanto voluto a tutti i livelli. Se
però non si tratta di fare o rifare questo o un altro partito, un
partito concreto c’è ed è un campo politico in cui agire, fatto anche di
militanti, iscritti, simpatizzanti, elettori e dirigenti concreti.
Dunque quale critica e quale cultura politica bastano in questa fase?
Basta, come dice Tronti, un realismo politico per dire la verità, per
la critica di questa forma sociale che ponga le condizioni di un suo
superamento? Basta, detto altrimenti, l’ideologia del realismo politico residuo
del comunismo italiano, per dire la verità? Basta dire la verità? Si
possono separare nella lotta verità e giustizia? Ed esattamente quale
forma sociale abbiamo di fronte o basta evocarla? Basta pensare ciò che
basta o dobbiamo anche pensare ciò che servirà? Qualunque tattica, per
essere tale, deve stare dentro a una strategia: quale è la strategia? Un
punto di vista che davvero contesti il presente non può non
trascenderlo, una critica davvero rischiaratrice non può non aprire a
un’utopia domani ragionevole per quanto oggi impensabile
di emancipazione e liberazione, per cui valga la pena impegnarsi.
D’altronde, la possibilità di trasformare il mondo è sempre stata impensabile
prima di essere pensata, magari a iniziare da uno studio della storia e
della geografia come distanziamento critico-antropologico (Rousseau,
Kant, Marx), per apparire poi in tutta la sua ragionevolezza.
Il condivisibile punto di
partenza è che la guerra di classe c’è, qui e ora condotta con i mezzi
delle forme storiche sue proprie, e va smascherata in quanto è
potentemente occultata. Il primo passo per contrastare le forme
politiche in Italia della guerra di classe unidirezionale in atto e per
contribuire a restituire coscienza politica di questa guerra ai
lavoratori, è pertanto lo smascheramento delle ideologie politiche che
la occultano, restituendo legittimità democratica al conflitto sociale e
ripensando politicamente il punto di vista dei lavoratori oggi. Ma la
politica non può, quand’anche lo volesse, fare la rappresentazione del
conflitto sociale e contribuire a smascherarlo dall’ideologia che lo
seda, senza fare parzialmente anche il conflitto stesso, senza agirlo
essa stessa. Inevitabile ricominciare dalla critica dell’ideologia
politica ma, in quanto elemento parziale del conflitto sociale, davvero
una politica che faccia di questo una rappresentazione può non fare
anche una critica di se stessa, del modo stesso di fare la
rappresentazione e in particolare di una rappresentazione nei termini di
un realismo politico? Si può davvero fare una critica dell’ideologia,
quella critica dell’ideologia necessaria, nei termini di un realismo
politico? Sia pure nei termini di un realismo politico erede residuale
della tradizione del comunismo italiano. O non finirebbe esso stesso
almeno oggi, venute meno le sue basi materiali, con il divenire
un’ideologia integrazionista funzionale ad un sistema in crisi? Il
realismo politico non è mai neutrale, facilmente porta al cinismo nel
senso più deteriore.
È possibile oggi una critica
dell’ideologia che maschera la realtà, assumere un punto di vista di
parte e una cultura politica per un progetto di ritorno in campo di un
pensiero critico e di una prassi trasformatrice senza partire
dall’analisi critica del Capitale? Si può leggere il Marx giovane senza
leggere il Capitale, senza la compagnia del Marx maturo? Io penso di no.
Ma allora serve ripensare Marx e i marxismi per il XXI secolo e il
mondo di oggi, per l’agire politico nello spazio sociale contemporaneo.
Serve innanzitutto ri-leggere il Capitale (magari nella nuova traduzione
del MEGA 2, quando l’editoria italiana riuscirà finalmente a offrircene
una traduzione completa, e anche su questo dovremmo riflettere
autocriticamente) in compagnia di Marx, anche per restaurare una scienza
dell’analisi critica del mutamento storico. Se no come comprendere la
realtà e dire la verità insieme vivendo nella miseria di un
cripto-marxismo filosofico o peggio di un idealismo storicistico, senza
peraltro neppure potere usare a viso aperto linguaggio e vocabolario
della sinistra che di quel pensiero recano ovunque traccia?
Prima il Capitale del
giovane Marx, che invece Tronti dice oggi bastare, non solo per
correttezza e rigore scientifico storico-critico circa la sua centralità
interpretativa – per quanto pure sia convinto anche di questo e che non
ne basti una lettura parziale, frammentaria, filosofica – ma per tante
altre ragioni sempre più attuali oggi in questa parte di mondo: per la
critica che smaschera la posizione del lavoratore di fronte al capitale e
alle sue contraddizioni interne; per la critica che smaschera il
conflitto distributivo non solo tra capitale e lavoro, ma tra
capitalisti; per la critica della rendita e della sua svalutazione,
anche in rapporto alle cause antagonistiche; per la critica che supera
la separabilità teorica di produzione e circolazione. Perché, nonostante
letture datate e fuorvianti tuttora in voga, si pongono inaggirabili le
questioni marxiane di teoria del valore. E l’elenco potrebbe continuare
all’infinito non limitato alle tematiche economico politiche.
Occorrerebbe quindi innanzitutto meglio tratteggiare i caratteri della nuova fase che va delineandosi dalla crisi, a partire dal corretto livello mondiale dell’unità d’analisi e delle trasformazioni materiali micro e macro, specialmente per quanto attiene il problema della sovranità sovra-statuale, tramite una chiara ed esplicita analisi marxista. Potremmo allora chiamarla per l’Italia
fase ordo-liberista europea? Di certo, anche in questa fase la
democrazia dei ceti medi resta il miglior “involucro politico” per il
capitalismo europeo, ma in quali forme? Davvero la crisi della
democrazia, o meglio il mutamento antipopolare delle sue forme storiche,
sia ideologiche che di regime reale, è secondaria alla crisi della
politica, dell’autorità politica, dello stato? Davvero è meritata? O non
è stato invece un preciso e consapevole disegno della controffensiva
capitalistica proprio contro i processi di democratizzazione? La
democrazia non è neutrale rispetto al conflitto di classe e può assumere
diverse direzioni, un “contrassegno” più o meno progressivo.
Affrontiamo in questa fase, mi pare, un crescente distacco tra
democrazia sostanziale e democrazia procedurale, una chiusura
oligarchica in nome di una governabilità a-consensuale, cui anche la
nostra democrazia repubblicana non sfugge. Democrazie senza democrazia.
Penso poi che in questo
contesto ripartire all’attacco a cominciare, come dice Tronti, dagli
ultimi e dagli esclusi sia nobile ma illusorio, forse di retroguardia,
molto probabilmente impossibile, specialmente nella crisi. Con la sola
eccezione di tanti migranti, non ho modo qui di approfondire perché, che
forse proprio ultimi ed esclusi per l’appunto non sono. Si può forse
ripartire invece da alcuni elementi dei nuovi ceti medi giovanili in
continuo accrescimento e dalla loro frustrazione sociale, incuneando la
critica e spingendo a un’autocritica laica, spregiudicata e
autenticamente cinica, che li sottragga almeno in parte all’egemonia di
giornali (o meglio dei loro siti internet) e università. Meno nobile, ma
probabilmente più efficace e praticabile, perché lì è il potenziale di
conflitto che c’è. Non siamo ancora nelle condizioni di potere lavorare
(davvero, all’attacco) con il grande corpo oggi qui passivo delle
“persone semplici”. Per ora meglio meno, ma meglio. E poi, quando saremo
pronti e ce ne sarà l’occasione, quando avremo ripulito la memoria e
riarmato la prospettiva, per fare uscire dall’angolo la sinistra,
potremo cercare di spezzare con un linguaggio combattente, critico
dell’ideologia, la barriera comunicativa alto/basso (in fondo Renzi da destra e a favore di corrente ha fatto così).
Ma anche solo questo primo
passo non mi sembra affatto semplice. Critica dell’ideologia dicevamo.
Concretizzare l’universalità in lotte determinate per un umanesimo
reale. Per uno sviluppo umano basato sul riconoscimento della dignità
della persona. Ecco allora ad esempio per pertinenza la difesa
dell’intervento statale nell’economia e del welfare state, non solo per
ragioni contingenti e keynesiane, ma per la difesa selettiva e
consapevole delle funzioni di direzione sociale parzialmente
antagonistiche agli interessi immediati della classe dominante. Quindi
critica di un’ideologia del “pubblico non statale” e del “privato
sociale”, sempre più connotati imprenditorialmente verso una spoliazione
parassitaria volta alla sostituzione di impiego pubblico con
un’organizzazione del lavoro più “moderna” e “flessibile”. Ecco allora
la critica dell’ideologia del “sii imprenditore di te stesso”, paravento
della precarizzazione dei rapporti di lavoro, e dell’ideologia della
“meritocrazia”, aggressiva difesa dell’ereditarietà sociale. E così via.
Vinceremo una battaglia ogni volta che avremo fatto un passo e aggiunto
un camminante verso l’unità del lavoro salariato oggi.
Per questi motivi penso che
servirebbe una rivista teorica, interdisciplinare, di analisi e
riflessione culturale, ma a ridosso dell’iniziativa politica
democratica. Combattente, militante, apertamente marxista nella
battaglia delle idee. Perché ci servirà una conoscenza non solo teorica
ma ottenuta attraverso l’esperienza della vita politica. Forse una
rivista di un marxismo critico nella sinistra democratica italiana di
oggi è troppo e impossibile. Ma una rivista che si limitasse a
rispolverare la memoria del realismo politico del comunismo italiano,
così influenzato da storicismo e idealismo, sarebbe poco e fuori tempo.
Dobbiamo uscire dall’asfissia della politica italiana. Non basta la
storia, serve anche la geografia. Non bastano parole alte, il latino,
servono anche parole chiare ed esatte, l’inglese e la matematica.
Una rivista che contribuisca
a rimettere al centro il conflitto sociale capitale-lavoro nella
sinistra democratica, a partire da un’analisi marxista della situazione
concreta di una moderna forza del conflitto sociale. Senza dimenticare
mai il valore anche progressivo e il potenziale emancipativo della
modernizzazione capitalistica, non cedendo mai al contro-discorso
antimoderno immanente alla modernità, neppure nelle sue forme post
moderne. Ma adottando un punto di vista critico di classe e
internazionalista sul modello del Manifesto. Un punto di vista che,
perlomeno, cerchi di non dimenticare mai da un punto di vista di parte
il quadro storico generale, il processo storico complesso
dell’accumulazione e le dinamiche economico-sociali, in particolare nel
quadro della dialettica tra ambiti nazionali e contesti sovranazionali
in quel progressivo ma difficile e contraddittorio dissolvimento europeo
della nostra nazionalità, che vede una problematica perdita di
autonomia politica dei paesi periferici dell’eurozona dettata dal vincolo europeo.
E insieme organizzarci
intorno ad essa nel tempo breve imposto dal capitale a partire dai
grandi spazi urbani nella dimensione nazionale e oltre. Senza paura
delle nuove tecnologie e delle loro reti sociali, di cui è possibile un
uso comunicativo e non solo di disciplinato intrattenimento, luogo
possibile di una riconquista dell’azione collettiva purché l’iniziativa
non si limiti a una critica passiva e impotente dell’opinione, ma
presupponga e predisponga un’iniziativa reale e non solo virtuale. E
senza disdegnare la proposta di politiche catalizzatrici.
Un’iniziativa che inizi con il connettere studenti e lavoratori
salariati in particolare delle università, della scuola e della pubblica
amministrazione in genere, dei mass media, dei social media,
dell’editoria. Non ci è data l’autonomia di un partito, ma il Pd e il
Pse come campi da gioco di una lotta sociale e politica da un punto di
vista di parte. A nuove condizioni di oppressione e sfruttamento nuove
forme di lotta. Senza mai disconoscere la centralità del lavoro vivo e
del mondo della produzione per ogni lotta di emancipazione. Comunque, è
importante non perdersi di vista.
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