Senza soluzione di continuità nel passaggio da Tremonti a Bondi
e da Cottarelli a Gutgeld, e da Prodi e Berlusconi a Monti e da
Letta a Renzi, la spending review sta planando come un
avvoltoio su coloro che ne potrebbero essere i protagonisti,
perché sono gli unici a sapere come stanno veramente le cose, e che
invece ne sono le vittime: i dipendenti delle amministrazioni
pubbliche. L’obiettivo più immediato sono i Comuni, con i quali si va
a colpire la democrazia nel punto più vitale ma anche più esposto.
Vitale perché i Comuni incarnano la tradizione europea
dell’autogoverno democratico a base associativa; perché i Comuni
e le loro aggregazioni rappresentano la democrazia di
prossimità e il possibile punto di applicazione di una
democrazia partecipata; perché i Comuni sono tuttora
i responsabili dei servizi pubblici locali, cioè di ciò che più
direttamente condiziona lo svolgimento della nostra vita
quotidiana.
Ma i Comuni sono l’oggetto delle brame di chi governa la spending review
proprio perché i sevizi pubblici locali sono l’obiettivo di un
saccheggio e di un meccanismo estrattivo messi in moto da un
capitalismo che non è più in grado di garantire margini di
profitto adeguati con l’investimento nell’industria.
E la forma giuridica della società per azioni (Spa), sia
interamente pubblica che mista, cioè pubblico-privata — in cui si
sono andati costituendo nel corso degli ultimi venti anni quasi tutti
i servizi pubblici locali — rappresenta il primo stadio della
privatizzazione. Gli affidamenti diretti (cioè senza gara: il
cosiddetto in-house) di cui beneficiano li rende particolarmente esposti a questa aggressione.
Innanzitutto perché si tratta di un soluzione societaria
incostituzionale e contraria alla normativa europea: gli
affidamenti diretti non dovrebbero mai riguardare società di diritto
privato che per loro natura perseguono il profitto, come le Spa. In
secondo luogo, perché queste Spa sono state finora (le cose
dovrebbero cambiare dal prossimo anno) una soluzione per collocare
fuori bilancio costi e introiti di servizi che rientrano a pieno
titolo nel conto del dare e avere dell’Ente che li controlla: infatti
più di un terzo di quelle società censite sono in perdita
permanente. In terzo luogo, perché grazie a questo meccanismo le
Spa promosse dagli Enti locali (ma anche quelle promosse dagli Enti
centrali) si sono moltiplicate per gemmazione: Spa create
e controllate da altre Spa di origine pubblica, che ne svolgono una
parte dei compiti in una catena di “esternalizzazioni” sempre più
lunga; ma anche Spa preposte a funzioni lontane dai compiti
istituzionali di chi le ha create. Cottarelli ne ha censite
10mila, ma secondo Ivan Cecconi, il massimo esperto italiano di
questo obbrobrio, potrebbero essere oltre 20mila. In quarto luogo
perché queste Spa sono un meccanismo corruttivo: assunzioni
clientelari (né più né meno di quanto venga spesso imposto ai
vincitori di appalti conquistati attraverso gare truccate: il
clientelismo prospera non perché il gestore è pubblico, ma perché
la mancanza di trasparenza sottrae gli affidamenti al controllo
dei cittadini), gerarchia gestionale e consigli di
amministrazione scelti tra il personale politico.
Questo spiega l’attaccamento di alcuni partiti a Giunte le cui
decisioni contraddicono frontalmente gli impegni assunti con
i loro elettori contro privatizzazioni, consumo di suolo
o proliferazione di società, incarichi e consulenze. E’ un
meccanismo di consolidamento del ceto politico che spesso tiene
in vita partiti che non avrebbero altra ragione di esistere.
La spending review non si propone certo di “fare pulizia”
in questo ginepraio, bensì di mettere i Comuni con le spalle al muro
per costringerli a svendere ai privati (dietro a cui ci sono
sempre più spesso banche e alta finanza) tutti i servizi pubblici,
insieme a beni comuni di cui sono ancora in possesso. Saranno poi
i privati a recuperare con speculazioni e aumenti delle tariffe
i costi del servizio – ma anche i “margini” (cioè i loro profitti) —
che i Comuni non sono in grado di coprire perché i trasferimenti
dallo Stato si sono prosciugati e temono l’impopolarità se ad
aumentare le tariffe fossero loro.
Ma privatizzare i servizi pubblici locali e consegnarli a una
finanza sempre più lontana dalla popolazione di riferimento vuol
dire privare i Comuni della loro ragion d’essere e trasformarli in
enti inutili, fatti solo per allevare e selezionare i membri della
casta; una democrazia priva di autonomie locali non è più tale e i
sindaci che accettano di ridursi a estrattori di risorse dai loro
concittadini, senza alcuna restituzione, si tagliano l’erba sotto
i piedi.
Ci sono alternative a questa spirale? Sì. Innanzitutto in statuti
comunali che dichiarino i servizi pubblici locali attività di
interesse generale (e non commerciale). Poi nella trasformazione
delle Spa in “aziende speciali”, per farli rientrare nel perimetro
della Pubblica Amministrazione. A Napoli la trasformazione
dell’Arin in ABC (Acqua Bene Comune) sembrava offrire un modello
a questa transizione. Ma le ultime vicende dello statuto di ABC
mostrano che senza una mobilitazione di massa e un fronte di “Comuni
per i beni comuni”, tante volte promesso e mai realizzato, una
transizione del genere rischia il soffocamento per il prevalere
degli interessi dei partiti. Ma – si dice – ripubblicizzare le Spa
non si può perché non c’è il denaro per riscattarne le azioni dai
privati; ma il loro valore è legato a contratti di servizio fondati
sull’affidamento in-house. Rivedere quei contratti
introducendo condizioni più stringenti può privarle di gran parte
del loro valore e persino rendere conveniente restituire le aziende
ai Comuni.
In ogni caso, il solo fatto di mettere in campo progetti di
conversione ecologica, di promozione dell’occupazione, di
recupero di aziende altrimenti condannate alla chiusura può dare
credibilità e basi solide a una contestazione radicale sia del
patto di stabilità interna (quello che blocca la possibilità di
investire per i Comuni), sia del patto di stabilità esterno (il fiscal compact)
attraverso cui la finanza internazionale controlla, per il
tramite della Commissione europea e della Bce, i governi e le
politiche economiche degli Stati dell’Unione Europea,
soffocandole. La conversione ecologica è un processo
necessariamente decentrato, diffuso, differenziato,
distribuito, capillare, che non può essere portato avanti senza il
coinvolgimento della cittadinanza e dei governi locali; e per
questo democratico.
Affidarla alla grande impresa (l’essenza di quello che chiamiamo green economy),
come è stato fatto in Italia e altrove con le energie rinnovabili,
è stato solo un modo per trasferire risorse da chi paga le bollette
(tutti noi) a chi incassa gli incentivi (per l’80 per cento, grandi
investitori finanziari, per lo più anche estranei al settore
energetico).
Viceversa, nella generazione energetica, nell’efficientamento di
edifici e aziende, nella gestione dei rifiuti, nel trasporto locale,
nel servizio idrico integrato, le autorità locali, con il
coinvolgimento della cittadinanza attiva, possono da un lato
promuovere sistemi sostenibili di governo della domanda, dall’altro
offrire sbocchi di mercato alla riconversione di aziende in crisi,
eventualmente con soluzioni societarie e associative tra
cittadini-utenti destinatari del servizio, aziende che lo erogano,
governi locali e imprese fornitrici degli impianti, delle
attrezzature e dei materiali necessari al soddisfacimento della
nuova domanda.
Lo stesso vale per tutti quei servizi che rientrano nella vasta gamma del welfare
municipale: nidi, scuole materne ed elementari, assistenza agli
anziani e alle persone svantaggiate, integrazione degli stranieri,
formazione, ecc. Anch’essi sono sottoposti, con la spending review,
a un processo di privatizzazione attraverso l’esternalizzazione
delle prestazioni lavorative con cooperative sempre più legate
a strutture finanziarie di comando che “trattano” con le
amministrazioni locali per conto di tutte. E anche in questo campo
occorre ricostruire un processo democratico a partire dalla
partecipazione alla loro gestione.
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