“E’
mattina nella contea di Mitchell, in Iowa. Il cielo è grigio e dorato e
Christina Dreier manda il figlio Keagan all’asilo senza colazione. Il
bimbo ha 3 anni, è paffuto e testardo e di solito si rifiuta di mangiare
il pasto gratuito a cui ha diritto a scuola. Ma la dispensa di casa è
quasi vuota e Dreier tenta la carta della severità: se Keagan ha fame,
magari non farà più storie davanti alla colazione gratuita della scuola e
a casa ci sarà più cibo per il pranzo”.
Non c’è saggio sociologico che possa eguagliare il coacervo di
illusioni, disillusioni e assenza di pensiero che si srotolano come un
inquietante tappeto in un articolo del National Geographic di agosto,
sul “Nuovo volto della fame” negli Stati Uniti. Soprattutto non c’è che
io sappia, un articolo che tanto limpido squallore riproduca l’afasia
politica e intellettuale di un Paese e imiti per mancanza di domande e
risposte proprio il mondo del piccolo Keagan, nuovo e inconsapevole
povero e tuttavia già così neoliberializzato da rifiutare il pasto a
scuola. Per la verità l’articolo viene presentato proprio con una
domanda: “Perché c’è gente malnutrita nel Paese più ricco del mondo?”
Interrogativo fondamentalmente ambiguo perché con malnutrizione si
intende sia la carenza di cibo, sia la scarsa qualità della dieta da
povero, ma al quale comunque non si fornisce alcuna spiegazione come se
si descrivesse un paesaggio o un panorama senza la possibilità di
cambiare nulla.
Certo si dice che gli americani malnutriti sono 48 milioni, cinque
volte di più rispetto agli anni ’60 e quasi il doppio rispetto
all’inizio del secolo, il che al netto della crisi mostra una chiara
linea di tendenza. Certo si dice che la povertà è in aumento proprio in
quelle periferie che erano state il sogno della classe media ed è per
questo che si parla di “poveri del suv”, rende conto dei sussidi
alimentari forniti dal ministero dell’Agricoltura in connessione, non si
sa bene per quale motivo (o forse lo sappiamo benissimo) con
organizzazioni religiose, degli aiuti in orride scatolette delle
organizzazioni di beneficenza che lucrano sulle esenzioni fiscali sulle
donazioni. Ma quando si arriva al dunque emerge come una roccia di
granito la voglia di non farsi domande.
Così quando prende la scena la famiglia Jefferson e i suoi guai si
scopre che la carenza di cibo non è dovuta solo alla disoccupazione: ”
Benché i tre adulti lavorino a tempo pieno non hanno un reddito
sufficiente a sfamare la famiglia senza sussidi alimentari. Il problema
di base sta nella mancanza di lavori con salari dignitosi e quindi
l’aiuto per il cibo è diventato un modo di integrare i bassi salari. I
Jefferson ricevono un bonus di 125 dollari al mese.”
A chiunque verrebbe in mente di chiedersi come mai si sia arrivati a
questa situazione. Quali dinamiche siano nascoste sotto la superficie e
perché la mano pubblica debba intervenire con aiuti che servono
soprattutto a preservare il reddito da dedicare all’auto, alle
assicurazioni, alle bollette, ai telefonini e via dicendo, insomma per
sostenere i consumi non essenziali, Ma a questo punto il servizio devia
sul modo di mangiare in maniera più sana, nonostante le carenze.
Naturalmente mangiare più sano secondo l’interpretazione talebana e
asfittica tipica degli degli Usa, come si evince da questa intervista: ”
Quando la dispensa comincia a svuotarsi, Christina Dreier tenta di
convincere i suoi figli a saltare la merenda. A volte mangiamo
biscottini che prendiamo alla banca del cibo – ammette con un sospiro –
lo so che non vanno bene, ma non posso impedire ai bambini di mangiare
se hanno fame.”
Mangiare biscottini a merenda è grave, una vergogna che giustamente
assorbe tutta l’attenzione dell’autrice alla quale nemmeno per sbaglio
viene da chiedersi come mai i lavori con salari da fame, appunto, si
siano moltiplicati in maniera così dilagante. Per non parlare di quelli
con un livello retributivo molto più basso rispetto a un tempo, ma che
ancora permettono di tirare avanti senza sussidio, magari saltando
qualche pasto o qualche rata. Così abbiamo il cortocircuito fra la
povertà effettiva e i consigli da rivista patinata invece di occuparsi
della caduta dei salari: chi ha ritrovato lavoro dopo lo sprofondo del
2009 quando il tasso di disoccupazione arrivò al 17,5% lo ha fatto per
l’80 per cento in attività part time e chi invece è riuscito ad
riacchiappare il tempo pieno ha dovuto rinunciare mediamente al 57% del
reddito, secondo alcuni studi ancora parziali ed è per questo che la
crisi tra alti e bassi è divenuta in un certo senso endemica e più
esposta a ulteriori terremoti per eccesso di credito inesigibile,
nonostante la numerologia statistica e macroeconomica non sia in grado
(o meglio non vuole essere in grado) di far emergere queste realtà.
Tanto che anche una rete di orientamento liberista come la Cbs ha dovuto
ammettere che “La gente viene a sapere che l’economia va bene dai
giornali, non per quello che capita a casa propria”.
Del resto l’arricchimento stratosferico di esigue minoranze che si
appropriano di quello che viene sottratto al lavoro fanno media, le
operazioni finanziarie fanno pil e le borse possono tranquillamente
preparare nuove bolle. Ecco perché nel Paese più ricco del mondo aumenta
il numero di persone che hanno difficoltà persino a mangiare. Ma dirlo
significherebbe accusare il modello e la cultura dominante e le medesime
illusioni che vengono smerciate apertamente anche da noi attraverso gli
Ichini, i Sacconi , i Renzi i sindacati gialli e la cupola bocconiana :
meglio battersi eroicamente contro i biscotti.
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