I
marxisti hanno interpretato la propria tradizione, finora, con il
linguaggio della vulgata o con le raffinatezze del più dotto
accademismo. Ai «nuovi marxisti» si richiede invece di far progredire
la ricerca (come ricerca sulle cose) impiegando – se possibile – una
lingua scarna e largamente accessibile: recuperando – per così dire –
alcuni pregi di chiarezza didascalica che furono del vituperato diamat
sovietico, senza ripeterne gli schematismi ideologici; o, se si
preferisce, assimilando la virtù stilistica della cultura anglosassone,
senza ricadere nelle angustie della visione empiristica1.
1. Contro il pessimismo
Così
titolava Antonio Gramsci l’editoriale pubblicato in grande evidenza nel
secondo numero del rinato “L’Ordine Nuovo”. Era il 15 marzo 1924. Il
primo del mese, il primo numero della nuova serie si apriva con un altro
editoriale, Capo, tutto dedicato a un confronto tra Lenin e
Mussolini, tra la dittatura del proletariato e la dittatura fascista.
Lenin era morto da pochi giorni, il 21 gennaio, e tutto il presente
poteva apparire, a un militante comunista in esilio, sotto una cattiva
stella. Eppure, con quella combinazione tra l’analisi comparativa di
fascismo e comunismo, e la netta critica del pessimismo, Gramsci si
ripresenta sulla scena italiana – rientrerà solo in maggio, grazie
all’immunità garantitagli dall’elezione alla Camera dei deputati –
tentando di rianimare le truppe disperse e disanimate del piccolo
partito nato tre anni avanti a Livorno.
Così inizia Contro il pessimismo: occorre
fare
un esame di coscienza, un esame del pochissimo che abbiamo fatto e
dell’immenso lavoro che ancora dobbiamo svolgere, contribuendo così a
chiarire la nostra situazione, contribuendo specialmente a dissipare
questa oscura e grave nuvolaglia di pessimismo che opprime i militanti
più qualificati e responsabili e che rappresenta un grande pericolo, il
più grande forse del momento attuale, per le sue conseguenze di
passività politica, di torpore intellettuale, di scetticismo verso
l’avvenire. Questo pessimismo è strettamente legato alla situazione
generale del nostro paese; la situazione lo spiega, ma non lo
giustifica, naturalmente. Che differenza esisterebbe tra noi e il
Partito socialista, tra la nostra volontà e la tradizione del partito se
anche noi sapessimo lavorare e fossimo attivamente ottimisti solo nei
periodi di vacche grasse, quando la situazione è propizia, quando le
masse lavoratrici si muovono spontaneamente, per impulso irresistibile, e
i partiti proletari possono accomodarsi nella brillante posizione della
mosca cocchiera?2
Pessimismo
era dunque, in quel momento, sinonimo di quella terribile mistura di
fatalismo e passività, contro la quale Gramsci lottò lungo tutta la sua
vita di giornalista e politico, fuori e dentro il carcere. Allora egli
si trovava a Vienna, ed era difficile dire cosa rimaneva, a quella
altezza, della “rivoluzione russa” del 1917. Proprio pochi giorni prima
(15 febbraio 1924) l’Unione sovietica era stata riconosciuta
ufficialmente dal governo italiano come l’unico potere «legalmente
esistente in Russia»3:
una modificazione decisiva nei rapporti tra movimento comunista e
politica internazionale era dunque in corso, e Gramsci ne era certamente
consapevole. Ciò nonostante, “contro il pessimismo” egli ritiene di
potere e dovere rilanciare l’opposizione tra Stato operaio e Italia
fascista, e con essa la lotta contro l’idea che ormai gli avvenimenti
giocavano a sfavore di qualsiasi iniziativa politica autonoma da parte dei comunisti italiani.
Quali
erano le basi dell’atteggiamento di Gramsci? Sprovvedutezza temerarietà
fanatismo? Proviamo a distinguere la questione nei suoi termini
generali, dal modo in cui essa si presentava in quel particolare
frangente. Non vi è dubbio, a mio modo di vedere, che sul terreno
generale Gramsci avesse ragione di far notare che l’attitudine
pessimistica non è mai giustificata, per almeno due ragioni:
perché, se anche esprime una condizione di sconfitta, contribuisce nei
fatti a perpetuarla; e perché (e questa ragione è decisiva) il
pessimismo e il suo contrario, l’ottimismo, sono in fondo lo stesso
atteggiamento: quello che pensa il ruolo della politica come qualcosa di
differente e di staccato dalla storia, per cui quando la
storia è “in ebollizione” si mette “alla testa” del movimento (ma in
realtà crede o si arroga il diritto di farlo, dato che non ha fatto
nulla per suscitarlo), e quando la storia “stagna” cade
nell’autocommiserazione e nella letargica attesa che i bei tempi si
decidano a tornare, un giorno...
La chiave di tutto sta nell’espressione “mosca cocchiera”. Più che un contenuto morale, dalla fedriana Musca et mula
Gramsci estrae un criterio di giudizio storico-politico. L’espressione
torna con grande frequenza nei suoi scritti, fin dal periodo torinese,
ed è sempre usata contro chi s’illude di essere alla testa del movimento
storico; ma è nei Quaderni del carcere che essa trova la sua
definizione precisa: «ogni individuo che prescinda da una volontà
collettiva e non cerchi di crearla, suscitarla, estenderla, rafforzarla,
organizzarla, è semplicemente una mosca cocchiera, un “profeta
disarmato”, un fuoco fatuo»4. Si noti: non si parla qui di un individuo che agisca in assenza di una “volontà collettiva”, ma prescindendo
da essa. Che la volontà collettiva non esiste sempre, è anzi un punto
di partenza dell’analisi. Ciò che fa la differenza, è la concezione del
modo in cui la propria (al limite, individuale) iniziativa si dispone
rispetto alla presente o assente volontà collettiva: se si concepisca
indipendentemente da essa, e cioè dalla necessità di «crearla,
suscitarla, estenderla, rafforzarla, organizzarla».
Ma
veniamo allo specifico di quella situazione, nel marzo 1924. Era
Gramsci un temerario, un ingenuo sconsiderato, un sognatore nel credere di poter
lottare contro il fascismo, in quelle condizioni, in quel momento? In
realtà, Gramsci non credeva affatto di potere o non potere: egli sapeva,
invece, che l’unica forma di esistenza di un partito comunista in
Italia era quella della lotta contro la passività; e sapeva anche che
ogni rinuncia preventiva alla lotta, in nome del pessimistico
“attendiamo tempi migliori”, sarebbe stato non la presa d’atto di un
destino in corso, ma il non riconoscere che l’evento è sempre
il risultato del concorrere di più istanze e forze in tensione, e che
far mancare una di queste contribuisce a far attestare l’equilibrio
delle forze e l’evento che lo rappresenta più (o ancor più) a favore di
una soltanto di esse.
Del
resto, di temerario proprio nulla: “contro il pessimismo” non vuole
dire “per l’ottimismo”. Come si è visto, è la stessa alternativa che
andava spazzata via, a favore di una nuova attitudine, così limpidamente
delineata nei Quaderni del carcere: «Bisogna creare gente
sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si
esalti a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della
volontà»5.
«Occorre invece violentemente attirare l’attenzione nel presente così
come è, se si vuole trasformarlo. Pessimismo dell’intelligenza,
ottimismo della volontà»6.
L’endiadi rollandiana, simbolo di un’umanità che vive lo scatenamento
delle passioni più elementari in occasione della guerra mondiale,
tentando di mantenere ferma l’unità di particolare e universale, diventa
in Gramsci la nuova qualità del militante comunista: caratteriale
anzitutto, ma, senza soluzione di continuità, politica e direi anche
filosofica, in questa capacità di fare l’analisi più spietata del
presente, come funzione della sua trasformazione.
2. De te fabula narratur
La
storia di Gramsci è anche la nostra? Rivolgiamoci la domanda a
bruciapelo, e tentiamo di tessere ancora la tela di questi pensieri –
con Gramsci e oltre Gramsci. La crisi della democrazia, il nuovo
fascismo, la sostituzione della realtà da parte della sua immagine
televisiva; la frattura tra vecchia cultura dell’università e nuove
generazioni; la perdita di dignità delle materie umanistiche e la
riduzione di tutto il sapere a tecnica; la crisi della politica e la
disaffezione per i partiti; infine la nuova povertà, lo scadimento della
discussione pubblica, il nuovo analfabetismo: per fare un elenco molto
parziale degli slogans contenuti nelle “analisi critiche” del
presente. Mentre, oggi come allora, i corifei di regime intonano le lodi
di questo nostro brave new world, della sua dura inevitabilità
o addirittura della sua gaia auspicabilità. Dinnanzi a tutto ciò, la
tentazione di scivolare nel caldo rifugio del pessimismo è grande, se
non si riconosce ciò che quello scivolamento implica: pensarsi indipendentemente
dalla necessità di “creare, suscitare, estendere, rafforzare,
organizzare” una volontà collettiva capace di modificare in modo
decisivo la struttura dei rapporti di forze – con ciò che ne segue.
Ma
cosa vuole dire “volontà collettiva”? e cosa esattamente significa “non
prescinderne”? A questa domanda si può oggi dare una risposta solo a
condizione di essere in chiaro su quale sia la fase che noi
attraversiamo, e questo conduce inevitabilmente a interrogarsi sulla
struttura dei rapporti di forze che costituisce il nostro presente. Ma, a
sua volta, questa analisi non è neutra né impregiudicata: non c’è
niente di naturalistico nella scelta del punto di osservazione e dello
strumentario analitico. Tale scelta è determinata da quell’“attitudine”
che Gramsci mette così lucidamente in evidenza: è il modo in cui
pensiamo il possibile legame della nostra iniziativa con un più vasto
movimento di formazione di volontà collettiva, che definisce i
presupposti dell’analisi; che, in altre parole, può impedirci – o meno –
di scambiare l’essenziale per la scoria, i mutamenti transitori per
quelli permanenti.
Esprimerò questo punto ancora in altro modo, prendendo le mosse da chi formula la critica e pone le domande: dall’intellettuale.
Perché in definitiva, nelle tante analisi a cui ho fatto allusione – e
che per la loro notorietà non mette conto citare in esplicito7 – la crisi che viviamo si identifica con la crisi dell’intellettuale,
si riassume in essa come in un diorama: l’intellettuale vive “sulla
propria pelle”, “in prima persona”, tutti i danni che questo tempo ci
infligge; il suo malessere è l’epitome del nostro malessere. In Italia,
in particolare, tutto si “aggrava”, come in un avvitamento vertiginoso
dell’analisi, che finisce per fare del nostro paese un enigma della
storia e al contempo un inferno per gli intellettuali...
Propongo
di impostare l’analisi in modo diverso – gramsciano appunto. E inizio
col domandarmi se ciò che abitualmente si chiama crisi e tramonto degli
intellettuali non possa forse essere letto come un insieme di
trasformazioni dell’organizzazione interna di un determinato ceto, trasformazioni che non eliminano la funzione ma al contrario la estendono immensamente, rendendo periferica una frazione
di quel ceto. Detto altrimenti: la cosidetta “crisi (più o meno
irreversibile, definitiva ecc.) degli intellettuali” non potrebbe più
modestamente essere la crisi di una certa figura? È tutta una questione di prospettiva: per una formica, tre gocce di pioggia sono un diluvio...
L’interrogativo formulato sopra può essere tradotto in tutta una serie di altri: che cosa intendiamo per cultura e per il suo contrario, l’ignoranza?
cosa vogliamo dire quando parliamo di impoverimento dell’esperienza? di
banalizzazione del linguaggio? Non rischiamo, a ogni passo, di parlare
solamente di noi stessi e poco più, delle difficoltà che
conosce la meschina e ridotta frazione a cui apparteniamo? In modo
ancora più drastico: sono queste analisi qualcosa di più del documento o
della testimonianza emotiva di un travaglio personale (giustificato e
rispettabile, come travaglio personale) surrettiziamente eretto a
criterio di valutazione della “storia”? Il “pessimismo” disperato che
trasuda da certe prese di posizione dice veramente la crisi presente
(crisi terribile: non intendo banalizzare), o solamente lo spaesamento
di qualcuno incapace di pensare il legame che lo unisce alla volontà
collettiva anche e sopratutto nella sua attuale latenza?
Chi
scrive pensa che, per rispondere ai corifei “integrati” dell’unico
mondo possibile, non abbiamo bisogno di utopie, e neppure di
atteggiamenti “apocalittici”. Per almeno tre ragioni. La prima,
intuitiva, è che l’apocalittico è la controfigura dell’integrato (come
l’ateo lo è del teologo), l’uno e l’altro parti della stessa commedia.
La seconda, storica, è che, molto semplicemente, i toni apocalittici
possono essere solo propri di un intellettuale che si pensa come
portavoce della Verità, e questa figura dell’intellettuale è
verificabile nella sua origine in un luogo e in un tempo precisi: l’affaire Dreyfus e il 13 gennaio 1898, giorno di pubblicazione su «L’Aurore» del J’accuse...! di Emile Zola. Insomma: l’apocalisse della cultura è un concetto borghese,
perché essa è modernamente possibile solo quando l’intellettuale si
presenta come martire (cioè testimone) della verità, suo detentore,
estensore e unico interprete autorizzato8.
La terza ragione è alla base delle prime due, e nasce dal modo in cui
Gramsci affronta la questione: «trovare che tutto va male e non indicare
criticamente una via d’uscita da questo male»9
contiene, implicita, la pretesa che questa via d’uscita la trovi
qualcun altro: qualcuno che sia disposto ad accollarsi quel minuto
lavoro analitico e costantemente autocritico, che
l’“intellettuale” (borghese) non è disposto a intraprendere: perché
noioso, perché scomodo, perché inelegante e stridente col beau geste10. E infatti lo lascia ai “tecnici”...
3. Intellettuale borghese
Intellettuale
borghese: in questa definizione non vi è nulla di offensivo. Essa
descrive un arco storico ampio, che va dal tredicesimo al ventesimo
secolo. Gramsci studia questo arco storico dal punto di vista dello
Stato nazione italiano: mancato nel momento in cui analoghi processi
erano in corso altrove, poi costituito sulla base di un’ideologia
retroattiva e falsante dell’Italia eterna, sempre esistita e perciò
“irredenta”. Dentro questo spazio, l’intellettuale italiano è la figura
di una mancanza e di una potenza specifiche: manca l’aggancio con la
massa popolare, ma sviluppa la peculiare capacità di assorbire il
conflitto entro quadri tradizionali, riservando gli spazi della libertà e
della liberalità a pochi membri, eletti, della nazione.
La
legittimazione, idealizzazione, apoteosi di questa figura traspare in
filigrana, praticamente da ogni passaggio, nella diuturna opera di
assorbimento delle energie nuove e potenzialmente eversive dell’ordine
borghese, condotta da Benedetto Croce nel corso della sua lunga e
operosa vita. Nel 1927 esce il libro di Groethuysen sull’origine dello
spirito borghese11, che programmaticamente annuncia:
Ci
rendiamo conto sempre meglio che rappresentiamo soltanto uno fra i modi
di essere uomini: il nostro. Ci riconosciamo destinati a perire. Il
borghese nulla è di definitivo. Un tempo non esisteva. Egli ha delle
origini e risalendo appunto alle proprie origini imparerà a conoscersi.
Conosci te stesso: per mezzo della storia. Sappi, cioè rivivendo il
tempo in cui non eri, passando per il tempo in cui sei cominciato ad
essere, vederti come se già non fossi più. In questo consiste la
coscienza storica, l’opera dello storico, per il quale tutto diviene
passato12.
L’opera dello storico è insomma un memento mori:
l’invito a non credersi eterni, e la dimostrazione dell’assurdità di
una tale fede. Coscienza di sé è coscienza della propria mortalità come classe, cioè come specificazione storica dell’umanità. Il borghese è «un essere socialmente determinato»13, egli ha una delineata «coscienza di classe»14honnête homme che sa ragionare»15.
Questo
dato, innegabile autorappresentazione del borghese sei-settecentesco,
viene afferrato come un’ancora di salvezza da Croce, che nel 1928
pubblica su «La Critica» un ampio saggio dal titolo Di un equivoco concetto storico: la “borghesia”.
Criticando il libro di Groethuysen e consimili tentativi di trasformare
il borghese in una «personalità spirituale intera, e, correlativamente,
un’epoca storica, in cui tale formazione spirituale domini o predomini»16,
il filosofo abruzzese conclude proprio avocando alla «borghesia» la
titolarità del retto pensare, cioè di quel pensare scevro da faziosità,
particolarismi, meschini interessi, che può solamente qualificare il
rappresentante dell’universale. Borghesia però non indica una classe, ma
una «classe non classe», cioè un «ceto generale»17,
insomma: «il complesso di tutti coloro che hanno vivo il sentimento del
bene pubblico, ne soffrono la passione e determinano i loro concetti a
quest’uopo, e operano in modo conforme»18. Simile allo hegeliano allgemeiner Stand,
ma non identico, perché nella costruzione di Hegel quel «ceto» aveva
tuttavia una «consistenza economica» e un preciso lavoro da svolgere «al
“servizio del governo”»19, mentre con Croce perde anche questo legame, per identificarsi direttamente con la freischwebende Intelligenz teorizzata l’anno dopo, nel 1929, da Karl Mannheim in Ideologie und Utopie20.
La borghesia è identificata col concetto hegeliano, cioè moderno, di intellettuale come funzionario; ma quest’ultimo viene subito emancipato dallo Stato in quanto «governo» (Regierung)
e assegnato a quell’altro «Stato» che Croce – in uno scritto dello
stesso 1928 – chiama «Chiesa» e identifica con la «coscienza e azione
morale» che è “eternamente” in lotta e dissidio con la «coscienza e
azione politica»21. Da Hegel, Croce trae tutto il tema della funzionalità
dell’intellettuale all’interesse generale, ma lo emancipa dalla sua
tracciabilità sociale, e dal suo inquadramento nella burocrazia. In
questo modo, l’intellettuale viene restituito all’universale sans phrase: i compromessi, i patteggiamenti con il sovrano, respinti, con fermezza e la Verità reintegrata in tutti i suoi diritti.
Certo,
questa opera di purificazione non impedisce a Croce, ogni qual volta
ciò gli torni utile, di far emergere da dietro le quinte il potere
politico – un ben determinato potere politico – come garante di quella
Verità. Recensendo nel 1923 la seconda edizione degli Elementi di scienza politica
di Gaetano Mosca, il filosofo schernisce quegli «storici che prendono
come criterio della storia umana la sognata democrazia o governo di
tutti, o l’idolo del cosiddetto Peuple (Michelet) o la
distribuzione della ricchezza [...]. Storico democratico, storico
socialista e simili equivalgono per definizione a storici antistorici»22.
Invece la storia la si capisce solamente se si pone a suo criterio
interpretativo la «classe politica o dirigente, nella quale è veramente
riposta la vita politica dello Stato: classe, che è quantitativamente
una minoranza, ma qualitativamente maggioranza, perché sa e può»23.
Sa e può: quale più schietta dichiarazione classista – di un classismo moderno, s’intende – si potrebbe desiderare? Il peuple
giacobino e le sue chimere democratiche possono aspettare... In realtà
tra il 1923 e il 1928 alcune cose cambiano, ma forse non cambia
l’essenziale. Il 1° maggio 1925 Croce si converte nel campione
dell’antifascismo, pubblicando e patrocinando il famoso Manifesto degli intellettuali antifascisti24
e si avvia a diventare il sacerdote della religione liberale. Nel 1928
la Verità deve essere salvaguardata dalle ambizioni “totalitarie” del
fascismo al potere. Ma il 9 luglio 1924, in piena crisi Matteotti (il
deputato era stato rapito il 9 giugno e il suo cadavere sarebbe stato
rinvenuto il 16 agosto), in un’intervista al «Giornale d’Italia», Croce
poté affermare:
Non
si poteva aspettare, e neppure desiderare che il fascismo cadesse a un
tratto. Esso non è stato un infatuamento o un giochetto. Ha risposto a
seri bisogni e ha fatto molto di buono, come ogni animo equo riconosce.
Si avanzò col consenso e tra gli applausi della nazione. Sicché, per una
parte, c’è, ora, nello spirito pubblico, il desiderio di non lasciar
disperdere i benefici del fascismo, e di non tornare alla fiacchezza e
all’inconcludenza che lo avevano preceduto; e dall’altra, c’è il
sentimento che gli interessi creati dal fascismo, anche quelli non
lodevoli e non benefici, sono pur una realtà di fatto, e non si può
dissiparla soffiandovi sopra. Bisogna, dunque, dare tempo allo svolgersi
del processo di trasformazione25.
Seri bisogni, molto di buono, animo equo, consenso e applausi della nazione, spirito pubblico: quanti corposi sottintesi in queste generalità, pronunciate dall’interno di quel mondo esclusivo (con Gaetano Mosca: naturalmente
esclusivo) di chi sa e può, da parte di chi sa e può! Liberalismo e
fascismo non sono poi così distanti, nella loro comune opposizione
all’anarchia, alla democrazia e finanche «alla fiacchezza e
all’inconcludenza» del parlamentarismo giolittiano. È Croce a dirlo apertis verbis:
perché non prenderlo sul serio? Così, quando nel 1928 perora la causa
dell’universale, non siamo forse autorizzati a leggere dietro
quest’altro universale, così rimesso a nuovo, ben altro che una vuota
generalità? Non sono sempre gli stessi interessi “borghesi” – della
classe e dell’universo borghese – che esso deve salvaguardare dagli strattoni del fascismo?
Del
resto, che prima del 1933 Croce intendesse la sua posizione come assai
più anticomunista che antifascista, viene testimoniato dalla definizione
che egli stesso, nel 1929, autorizza della sua nuova invenzione: la
«storia etico-politica»: «Che quest’ultima sia il mio cavallo di
battaglia contro il materialismo storico e i suoi derivati, è verissimo»26.
Ovviamente il percorso è oscillante e volutamente ambiguo: così, nel
1930, al Congresso di filosofia di Oxford, Croce pronuncia un discorso
sull’Antistoricismo, a cui dà ampia pubblicità, dove mette
nello stesso sacco «l’imperialismo e nazionalismo, il socialismo
marxistico, lo statalismo che si decora del nome di “etico”, la ripresa
cattolica e clericale, e via enunciando»27; nella Storia d’Italia del 1928 aveva già inanellato irrazionalismo, imperialismo e nazionalismo28, salvo anche definire la guerra mondiale «una sorta di guerra del “materialismo storico”»29; e nella Storia d’Europa nel secolo decimonono, del 1932, oppone alla religione della libertà «le fedi religiose» del «cattolicesimo della Chiesa di Roma», del legittimismo ancien Régime, dell’«ideale democratico» e del «comunismo»30.
Si tratta, in tutti questi casi, di prese di posizione congiunturali,
che – esattamente come la posteriore idea della fine della civiltà in
presenza del nazismo31
– come tali andrebbero studiate: in esse il richiamo alla Verità e il
nesso privilegiato intellettuale/verità è un formidabile strumento a
disposizione di una classe che pretende governare senza dominare, essere
forte senza esercitare violenza, ricevere una legittimità storica però
immodificabile, difendere i propri privilegi con motivi che dovrebbero
essere condivisi da tutti. Come non accorgersi di quanto questo modello
di “intellettuale” sia contrassegnato politicamente e socialmente, sia
l’esito di un grande progetto di egemonia che molti, troppi oggi
continuano inconsapevolmente ad alimentare?
4. «...si è ampliata in misura inaudita...»
Se
l’esame del caso Croce contiene un insegnamento, esso sta nella
necessità di ripartire da Hegel, se si vuole intendere cosa sia un
intellettuale nel mondo moderno, e cosa esso sia, proprio in quanto propagandista dell’egemonia borghese. Essere intellettuale ed essere funzionale
a un’egemonia: ecco un’identità che Hegel stabilisce con nettezza e che
Croce, come si è visto, smaterializza e riconsegna nell’indistinto
generico, affinché perda la sua riconoscibilità di “parte” che aspira a
dirigere il “tutto”. Il risuonare in Hegel, tuttavia, di un afflato
espansivo della borghesia, Gramsci lo riconosce chiaramente: «La
concezione di Hegel è propria di un periodo in cui lo sviluppo in
estensione della borghesia poteva apparire illimitato, quindi l’eticità o
universalità di essa poteva essere affermata: tutto il genere umano
sarà borghese»32.
Ma riconosce anche il «passo indietro» che Croce e Gentile fanno
compiere a Hegel: «È da vedere se il movimento da Hegel a Croce-Gentile
non sia stato un passo indietro, una riforma “reazionaria”. Non hanno
essi reso più astratto Hegel? Non ne hanno tagliato via la parte più
realistica, più storicistica?»33.
La parte più realistica e storicistica, vale a dire il legame tra intellettuali e Stato come produzione di universalità:
Intellettuali.
Nella concezione non solo della scienza politica, ma in tutta la
concezione della vita culturale e spirituale, ha avuto enorme importanza
la posizione assegnata da Hegel agli intellettuali, che deve essere
accuratamente studiata. Con Hegel si incomincia a non pensare più
secondo le caste o gli «stati» ma secondo lo «Stato», la cui
«aristocrazia» sono appunto gli intellettuali. La concezione
«patrimoniale» dello Stato (che è il modo di pensare per «caste») è
immediatamente la concezione che Hegel deve distruggere (polemiche
sprezzanti e sarcastiche contro von Haller). Senza questa
«valorizzazione» degli intellettuali fatta da Hegel non si comprende
nulla (storicamente) dell’idealismo moderno e delle sue radici sociali34.
Con Hegel gli intellettuali, lungi dall’essere asserviti al «governo» come vorrebbe Croce35,
si identificano con lo Stato come totalità contraddittoria di governo e
società civile, e ne pensano le condizioni, ne alimentano la dinamica,
ne rendono possibile la vita espansiva. La loro funzionalità si
riferisce all’affermazione della borghesia come capace di condurre la
vita nazionale. Ma la borghesia nega le caste, nega lo Stato di diritto privato:
l’espansione del suo progetto coincide con la dissoluzione dei legami
di servaggio personale, con l’istituzione di un piano di eguaglianza
indistinta in cui le differenze si riaffermano come differenze di fatto,
non più di diritto. La sfera pubblica si estende, invadendo anche gli
spazi della società civile. La divisione del lavoro, e la conseguente distribuzione degli individui in classi sociali36, non rimangono senza elaborazione politica e pedagogica: le corporazioni funzionano come apparati privati di mobilitazione e di formazione37.
«Nella corporazione, il desiderio di sicurezza dell’individuo diventa
un diritto [...] L’appartenenza di un individuo alla società civile è
così sanzionata dal fatto che la sua attività vi è legalmente
riconosciuta: la corporazione è l’apparato di questo riconoscimento,
essa funziona dunque come un vero e proprio apparato ideologico»38.
Le corporazioni, queste «organizzazioni volontarie, nelle quali le
persone si organizzano sulla base delle proprie professioni, commerci,
interessi»39,
sono dunque, al contempo, luogo di esercizio del potere statale
“innestato” nella società civile, ed espressioni delle istanze
irriducibilmente diverse e conflittuali della società; sono istanze di
ricostituzione della sovranità e della sua messa in
discussione. In quanto volontarie, le corporazioni “producono” ordine e
quindi passaggio allo Stato, ben più delle istanze negative o
paternalistiche del diritto e della Polizei: producono
«soddisfazione» e dunque «consenso» perché sorgono dall’iniziativa
interna delle stesse energie sociali, nel momento in cui danno loro un
ordine40. Organismi privati, le corporazioni svolgono un’ineludibile funzione pubblica.
Il
ruolo dell’intellettuale ne risulta straordinariamente accresciuto:
proprio perché le differenze non ci sono già come punti di partenza, la
costruzione storica di esse diventa la chiave di volta del potere. Non
c’è bisogno, per questo, di essere ligio allo Stato prussiano: è lo
Stato post-rivoluzionario che si organizza per questo scopo, e che
elegge gli intellettuali a propri rappresentanti, in tutte le istanze in
cui essi si trovino a operare. Essere funzionale allo Stato ed essere
libero e indipendente non istituisce una dicotomia: piuttosto si tratta
di un’endiadi, atteso che lo spazio moderno è sempre in qualche modo
organizzato, proprio perché di per sé fluido e indifferenziato. A
differenza di Croce, Gramsci può così riconoscere nella “Restaurazione”
non il trionfo degli ideali del reazionario professore dell’Università
Humboldt, ma «lo sviluppo del giacobinismo»:
Lo
sviluppo del giacobinismo (di contenuto) ha trovato la sua perfezione
formale nel regime parlamentare, che realizza nel periodo più ricco di
energie «private» nella società l’egemonia della classe urbana su tutta
la popolazione, nella forma hegeliana di governo col consenso
permanentemente organizzato (coll’organizzazione lasciata all’iniziativa
privata, quindi di carattere morale o etico, perché consenso
«volontario», in un modo o nell’altro)41.
Nelle
virgolette apposte a «volontario» sta tutta la complessità
dell’egemonia, cioè del potere specificamente moderno. Quello che
Gramsci dipinge, non è un paesaggio da idillio agreste: il potere
moderno contiene strutturalmente la tendenza a oscillare continuamente
tra apertura di spazi di eguaglianza e segregazione interna ed esterna, a
dissimularsi entro le pieghe della razionalità tecnico-burocratica, a
sottrarre alla politica ciò che per altro verso le consegna, e così via42.
Non si tratta di scambiare la società civile con un’aula universitaria,
né di confondere il concetto di consenso (con o senza virgolette) con
un irenistico manifesto per la pace perpetua. Si tratta – e qui sta la
difficoltà – di capire la dialettica della realtà: il fatto che apertura
di nuovi spazi di subordinazione e di libertà vanno insieme, e che di
conseguenza, dal punto di vista delle classi subalterne, la
valorizzazione degli intellettuali come «aristocrazia» dello Stato non
può essere liquidata come faccenda estranea (salvo poi ritrovarsi questa
figura, ma in forma caricaturale, tra le proprie file), ma studiata e
trasformata dall’interno.
Ecco le ragioni di questa singolarissima definizione: gli intellettuali sono
non
solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in
generale tutta la massa sociale che esercita funzioni organizzative in
senso lato, sia nel campo della produzione, sia nel campo della cultura,
sia nel campo amministrativo politico: corrispondono ai sott’ufficiali e
agli ufficiali subalterni nell’esercito (e anche a una parte degli
ufficiali superiori con esclusione degli stati maggiori nel senso più
ristretto della parola)43.
E più avanti, affinando la messa a fuoco:
[...]
il rapporto tra gli intellettuali e la produzione non è immediato, come
avviene per i gruppi sociali fondamentali, ma è mediato ed è mediato da
due tipi di organizzazione sociale: a) dalla società civile, cioè dall’insieme di organizzazioni private della società, b)
dallo Stato. Gli intellettuali hanno una funzione nell’«egemonia» che
il gruppo dominante esercita in tutta la società e nel «dominio» su di
essa che si incarna nello Stato e questa funzione è precisamente
«organizzativa» o connettiva: gli intellettuali hanno la funzione di
organizzare l’egemonia sociale di un gruppo e il suo dominio statale,
cioè il consenso dato dal prestigio della funzione nel mondo produttivo e
l’apparato di coercizione per quei gruppi che non «consentono» né
attivamente né passivamente o per quei momenti di crisi di comando e di
direzione in cui il consenso spontaneo subisce una crisi. Da
quest’analisi risulta un’estensione molto grande del concetto di
intellettuali, ma solo così mi pare sia possibile giungere ad una
approssimazione concreta della realtà44.
L’approssimazione
concreta alla realtà: per chi intenda progettare una strategia dalla
prospettiva delle classi subalterne, la restituzione degli intellettuali
alle loro funzioni è essenziale per poter afferrare l’intima
meccanica del potere statale e l’irresistibile sua capacità di
autodissimulazione. Per questo, come si vede, occorrono distinzioni: tra
chi è funzionario dello Stato e chi della società civile, tra chi può
essere integrato nel consenso e chi recalcitra, tra fasi in cui la
macchina dell’egemonia funziona a pieno regime e fasi di crisi, ecc.
Tutte queste distinzioni vanno riempite di contenuti concreti, ed è solo
a questo punto che la realtà inizia ad apparire.
Ma
in ogni caso non si tratta, come spesso si è creduto, di ridurre
l’intellettuale a un grigio burocrate. Al contrario, si tratta di
restituire alle grigie funzioni burocratiche la potenza ordinatrice che
hanno, se viste nell’unità con quelle cosiddette superiori:
La
maggiore difficoltà ad accogliere questo modo di impostare la quistione
mi pare venga da ciò: che la funzione organizzativa dell’egemonia
sociale e del dominio statale ha vari gradi e che tra questi gradi ce ne
sono di quelli puramente manuali e strumentali, di ordine e non di
concetto, di agente e non di funzionario o di ufficiale, ecc., ma
evidentemente nulla impedisce di fare questa distinzione (infermieri e
medici in un ospedale, sacristi bidelli e preti in una chiesa, bidelli e
professori in una scuola, ecc. ecc.).
Dal
punto di vista intrinseco, l’attività intellettuale può essere distinta
in gradi, che nei momenti di estrema opposizione danno una vera e
propria differenza qualitativa: nel più alto gradino troviamo i
«creatori» delle varie scienze, della filosofia, della poesia ecc.; nel
più basso i più umili «amministratori e divulgatori» della ricchezza
intellettuale tradizionale, ma nell’insieme tutte le parti si sentono
solidali. Avviene anzi che gli strati più bassi sentano di più questa
solidarietà di corpo e ne traggano una certa «boria» che spesso li
espone ai frizzi e ai motteggi.
È
da notare che nel mondo moderno, la categoria degli intellettuali, così
intesa, si è ampliata in misura inaudita. La formazione di massa ha
standardizzato gli individui e come qualifica tecnica e come psicologia,
determinando gli stessi fenomeni che in tutte le altre masse
standardizzate: concorrenza individuale che pone la necessità
dell’organizzazione professionale di difesa, disoccupazione, ecc.45.
Anche
gli intellettuali sono una massa: di più, sono una massa polverizzata,
sottoposta alle stesse “leggi” del mercato, che colpiscono la restante
popolazione. Così, ciò che per i teorici del totalitarismo
post-arendtiani è una «massa grigia» espropriata ed eterodiretta46,
alla luce della teoria dell’egemonia – cioè alla luce di
un’approssimazione concreta alla realtà dal punto di vista della sua
trasformazione – si rivela una formidabile acquisizione democratica,
dato che suscita in modo endemico, in tutto il territorio sociale, le
stesse esigenze di “sindacalizzazione”, cioè di aggregazione dal basso.
Questo poi non vuole dire che un Benedetto Croce non sia un
intellettuale: anzi, il modello “militare” aiuta a capire quanto la sua
funzione sia imprescindibile, ma insufficiente, da sola, a capire come
“concretamente” funziona la realtà.
Riassumiamo.
Rispetto alla nozione a cui Gramsci poteva accedere, profondamente
condizionata da Zola, abbiamo uno scarto nettissimo: il «criterio di
distinzione» della categoria di intellettuali viene individuato non
«nell’intrinseco delle attività intellettuali» ma «nell’insieme del
sistema di rapporti in cui esse (e quindi i gruppi che le impersonano)
vengono a trovarsi nel complesso generale dei rapporti sociali»47. In conseguenza di ciò, e contrastando frontalmente con l’idea canonica di “intellettuale”, tra questi e il potere vi è in ogni società un legame strettissimo, che solo in età moderna si allenta parzialmente. Nei Quaderni
Gramsci tenta di ricostruire per sommi capi la storia di questo
parziale scioglimento, la storia dell’incontro tra intellettuali e
popolo: «il passaggio dall’esaltazione di un tipo sociale feudale
all’esaltazione delle masse popolari genericamente, con tutti i suoi
bisogni elementari (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, riprodursi) ai quali
si cerca di dare razionalmente una soddisfazione»48
con la letteratura utopistica della prima età moderna, e poi la grande
svolta segnata dall’Illuminismo e quindi dalla Rivoluzione francese49.
4. E oggi?
Quale
l’eredità, oggi, di questa teoria degli intellettuali? Si potrebbe
ripetere di essa, ciò che Gramsci scrive a proposito delle «scoperte» di
Machiavelli:
L’importanza
storica e intellettuale delle scoperte del Machiavelli si può misurare
dal fatto che esse sono ancora discusse e contraddette ancora al giorno
d’oggi: ciò significa che la rivoluzione intellettuale e morale
contenuta in nuce nelle dottrine del Machiavelli non si è ancora realizzata «manifestamente» come forma «pubblica» della cultura nazionale50.
Di
fatto, la teoria gramsciana degli intellettuali, anche quando è stata
formalmente in auge, non è stata recepita, se non in forma edulcorata e
in definitiva falsante51.
Basti pensare a uno snodo decisivo della sua ricezione, la relazione
che Eugenio Garin nel 1967 tenne al convegno cagliaritano dell’Istituto
Gramsci su Politica e cultura in Gramsci (il problema degli intellettuali)52.
Si tratta del più importante contributo sul tema, ed è tutto incentrato
sul nesso tra l’intellettuale e il “dire la verità”, schiacciando così
l’accezione messa a punto nei Quaderni su quella di cui Gramsci
faceva uso negli anni torinesi: di matrice dreyfusarda, quella in
effetti, legata com’era all’esempio di internazionalismo impersonato da
Romain Rolland e alla dimostrazione, data da Benedetto Croce durante la
guerra, di come all’intellettuale non sia lecito mescolare verità
universale e utilità immediata53.
Ma la nozione che si ritrova nei Quaderni
è profondamente diversa, come si tentato di mostrare: essa trae origine
dalla riflessione sulla crisi dello Stato liberale durante i tumultuosi
anni del fascismo nascente54, e raggiunge un punto di condensazione nello scritto del 1926 Note sul problema meridionale55, dove appare già perfettamente messa a punto:
In
ogni paese lo strato degli intellettuali è stato radicalmente
modificato dallo sviluppo del capitalismo. Il vecchio tipo
dell’intellettuale era l’elemento organizzativo
di una società a base contadina e artigiana prevalentemente; per
organizzare lo Stato, per organizzare il commercio la classe dominante
allevava un particolare tipo di intellettuali. L’industria ha introdotto
un nuovo tipo di intellettuale: l’organizzatore tecnico, lo specialista della scienza applicata.
Nelle società, dove le forze economiche si sono sviluppate in senso
capitalistico, fino ad assorbire la maggior parte dell’attività
nazionale, è questo secondo tipo di intellettuale che ha prevalso, con
tutte le sue caratteristiche di ordine e disciplina intellettuale. Nei
paesi invece dove l’agricoltura esercita un ruolo ancora notevole o
addirittura preponderante, è rimasto in prevalenza il vecchio tipo, che
dà la massima parte del personale statale e che anche localmente, nel
villaggio e nel borgo rurale, esercita la funzione di intermediario tra
il contadino e l’amministrazione in generale56.
Si noti un punto molto importante: tanto il vecchio quanto il nuovo tipo di intellettuale sono elementi organizzativi:
con mezzi e in forme diverse, quanto sono differenti la società
agricola e artigianale da quella poggiante sull’industria di massa. Ma
rimane fermo che non c’è il passaggio da uno specialista dell’universale
a un freddo funzionario, esecutore razionale di un compito e incapace
di pensare al di là di esso. In modo volutamente paradossale, si
potrebbe dire che, con Gramsci, l’intellettuale sia prima, sia dopo la
nascita della società industriale, è tanto esecutore quanto indipendente
e creativo. Se un mutamento c’è, sta altrove: ed è tutto a vantaggio
della società industriale, tanto aborrita dai vagheggiatori di
un’arcaica ricchezza dell’esperienza. Il mutamento sta nell’affermarsi
diffuso, di massa, di quelle «caratteristiche di ordine e disciplina
intellettuale» che prima erano semplicemente impensabili o patrimonio di
ristrette ed esclusive cerchie di “sacerdoti”. Questa è una delle
ragioni per le quali Gramsci guarda con grande attenzione al taylorismo e
al fordismo: perché queste pratiche gli sembrano «il maggior sforzo
collettivo verificatosi finora per creare con rapidità inaudita e con
una coscienza del fine mai vista nella storia, un tipo nuovo di
lavoratore e di uomo»57.
È a partire da questa base di massa
che le classi subalterne potranno riformulare dalla loro prospettiva la
questione del potere: base di massa, non proclami, non manifesti, non
appelli da parte di chi pretende custodire la Verità. Anche chi, come
Edward Said, ha tentato generosamente e con sforzo di sincerità di
mettersi all’altezza di questo angolo visuale, di afferrare la ricchezza
della concezione gramsciana dell’intellettuale, ha finito per ricadere
nell’usato cammino del modello offerto da Zola. Già
il punto di partenza è sbagliato: «Today – scrive Said – everyone who
works in any field connected either with the production or distribution
of knowledge is an intellectual in Gramsci’s sense»58. Per
questa ragione l’intellettuale in senso gramsciano sarebbe assimilabile
a quello che Foucault chiama «“specific” intellectual» per opposizione
allo «universal intellectual»59. Il seguito viene da sé:
There is a danger that the figure or image of the intellectual might disappear in a mass of details, and that the intellectual might become only another professional or a figure in a social trend.
What I shall be arguing in these lectures takes for granted these
late-twentieth century realities originally suggested by Gramsci, but I
also want to insist that the intellectual is an individual with a
specific public role in society that cannot be reduced simply to being a
faceless professional, a competent member of a class just going about
her/his business. The central fact for me is, I think, that the
intellectual is an individual endowed with a faculty for representing,
embodying, articulating a message, a view, an attitude, philosophy or
opinion to, as well as for, a public60.
Nonostante
il tentativo di tenere insieme lo “sguardo” gramsciano con il proprio
(«but I also...»), Said è costretto a retrocedere, con attitudine
fortemente difensiva, verso una figura classica: il latore della verità
(non importa che, dopo la decostruzione, si chiami “critica”...)
dinnanzi a un pubblico. E tutto questo, perché Said, come candidamente
confessa, intende sventare il rischio che l’intellettuale venga
declassato a una figura professionale tra le altre, o a parte di una
tendenza sociale. I «preti», questa «prima forma degli ideologi», tornano qui a fare capolino61.
In
conclusione, come porre la questione in termini propositivi? Anche qui,
in linea con quanto sono venuto dicendo, non c’è niente da inventare.
Le cose essenziali – sul piano del metodo e dello stile – sono state già
scritte da tempo. Anzitutto, quella che può essere la figura
dell’intellettuale dalla parte dei subalterni, Gramsci la illustra perfettamente nel «filosofo democratico»:
[...]
si può dire che la personalità storica di un filosofo individuale è
data anche dal rapporto attivo tra lui e l’ambiente culturale che egli
vuole modificare, ambiente che reagisce sul filosofo e, costringendolo a
una continua autocritica, funziona da «maestro». Così si è avuto che
una delle maggiori rivendicazioni dei moderni ceti intellettuali nel
campo politico è stata quella delle così dette «libertà di pensiero e di
espressione del pensiero (stampa e associazione)» perché solo dove
esiste questa condizione politica si realizza il rapporto di
maestro discepolo nei sensi più generali su ricordati e in realtà si
realizza «storicamente» un nuovo tipo di filosofo che si può chiamare
«filosofo democratico», cioè del filosofo convinto che la sua
personalità non si limita al proprio individuo fisico, ma è un rapporto
sociale attivo di modificazione dell’ambiente culturale. Quando il
«pensatore» si accontenta del pensiero proprio, «soggettivamente»
libero, cioè astrattamente libero, dà oggi luogo alla beffa: l’unità di
scienza e vita è appunto una unità attiva, in cui solo si realizza la
libertà di pensiero, è un rapporto maestro-scolaro, filosofo ambiente
culturale in cui operare, da cui trarre i problemi necessari da
impostare e risolvere, cioè è il rapporto filosofia-storia62.
Possiamo
ripetere questa citazione fino a stancarci: resterà, dopo come prima,
difficilissimo essere ciò che Gramsci chiama «filosofo democratico».
Esso è per un verso la descrizione di una conquista storica: le libertà
di pensiero ecc. rendono possibile quel movimento dialettico attivo tra
ambiente e individuo, nella cui dinamica si risolve la personalità del
filosofo democratico. Ma questo movimento è costantemente svuotato e
banalizzato dalla divisione del lavoro, dalla segregazione degli
intellettuali (e dei filosofi) nei loro luoghi deputati, dalla riduzione
della libertà di pensiero ecc. all’accontentarsi «del pensiero proprio,
“soggettivamente” libero, cioè astrattamente libero», cioè infine non
libero affatto. Essere intellettuale e assumere la prospettiva dei
subalterni (assumerla davvero, non come “posa”) è quanto di più
difficile si possa immaginare, oggi come ieri; anche se,
paradossalmente, i mezzi ci sono già tutti: «l’unità di scienza e vita»
di cui parla Gramsci non è poi già data dalla tanto vituperata
organizzazione standardizzata delle masse, a cui si dedicano i grigi
“intellettuali-esecutori”?
Note con rimando automatico al testo
1 G. Prestipino, Da Gramsci a Marx. Il blocco logico-storico, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 8.
2 A. Gramsci, La costruzione del Partito comunista. 1924-1926, a cura di Elsa Fubini, Einaudi, Torino 1971, p. 16.
3 Circolare del 15 febbraio 1924, n. 14, Riconoscimento dell’U.R.S.S. da parte del R. Governo (Circolari Esteri, v. IV, p. 242), in http://www.prassi.cnr.it/prassi/content.html?id=1281.
4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, ed. critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1663.
5 Ivi, p. 75.
6 Ivi, p. 1131.
7 Rinvio per comodità riassuntiva solamente al numero 1 (luglio-agosto 2010) di «Alfabeta2», monograficamente dedicato a Intellettuali senza.
8 Questo tono,
sempre riconoscibile, di denuncia del tradimento degli ideali di
universalità e verità da parte di chi questi ideali incorpora, non ha
nulla a che vedere con la parrhesia studiata da Foucault come
caratteristica della vita politica democratica nella Grecia del quinto
secolo a.e.v., dove non è mai questione di tradimento
dell’universalità, ma si oscilla tra la piena partecipazione
all’assemblea e la (ellenistica) cura di sé, che è poi un modo di
salvarsi individuale. Cfr. M. Foucault, Discourse and Truth: the Problematization of Parrhesia. 6 lectures given at the University of California at Berkeley, Oct.-Nov. 1983, http://foucault.info/documents/parrhesia/.
9 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 892.
10 Dico costantemente autocritico per indicare l’autocritica come metodo di indagine, differenziandola dalla spettacolare e in definitiva comoda presa di posizione estemporanea.
11 B. Groethuysen, Die Entstehung der bürgerlichen Welt- und Lebensanschauung in Frankreich. 1. Das Bürgertum und die katholische Weltanschauung, Niemeyer, Halle an der Saale 1927; trad. franc.: Origines de l’esprit bourgeois en France. I. L’Eglise et la bourgeoisie, Gallimard, Paris 1927 (Origini dello spirito borghese in Francia. I. La Chiesa e la borghesia, trad. it. di A. Forti, Einaudi, Torino 1949).
12 Groethuysen, op. cit., trad. it., p. 15.
13 Ivi, p. 228.
14 Ivi, p. 47.
15 Ibidem.
16 B. Croce, Di un equivoco concetto storico: “la borghesia”, in «La Critica», XXVI, 1928, pp. 261-74, poi in Id., Etica e politica (1931), Roma-Bari, Laterza 1967, pp. 268-83, qui 269.
17 Ivi, p. 282.
18 Ivi, p. 283.
19 Ivi, pp. 282-3.
20
Croce non manca di far notare, in una recensione uscita nel 1931, il
suo diritto di primogenitura relativamente a questo concetto: «Del pari
gli si potrebbe mostrare che quel che egli dice sulla classe media,
che è una medietà ma non è una rnedietà di classe, e anzi è una classe
senza classe (p. 126), è certamente giusto, ma non nuovo nella
letteratura, essendo stato un concetto largamente esposto e dimostrato,
almeno in Italia» («La Critica», XXIX, 1931, pp. 3013, qui 302).
21 Cfr. Un detto di Leopoldo Ranke sullo Stato e la Chiesa, in «La Critica», XXVI, 1928, pp. 182-6, poi in con il titolo Stato e Chiesa in senso ideale e loro perpetua lotta nella storia, in Id., Etica e politica, cit., pp. 284-9, qui 285.
22 «La Critica», XXI, 1923, pp. 374-8, qui 375.
23 Ivi, p. 374. Su questo tema, e su questa recensione, cfr. D. Conte, Storia universale e patologia dello Spirito. Saggio su Croce, il Mulino, Bologna 2005, pp. 38-9.
24
Un “manifesto” per controbattere a un altro “manifesto”, quello degli
«intellettuali fascisti» di Giovanni Gentile, pubblicato poche
settimane avanti: questo è l’ambiente nel quale gli intellettuali
borghesi meglio si muovono, questo il loro modo di “affrontarsi”.
25 Cit. in D. De Napoli, S. Bolognini, A. Ratti, La resistenza monarchica in Italia, 1943-1945,
Guida, Napoli 1985, p. 35. Sul nesso Croce-fascismo ha scritto pagine
definitive Eugenio Garin: «Allorché Croce, e altri con lui, non
poterono più approvare un’operazione che dopo il ’24-25 non seguiva i
piani prestabiliti, parlarono di una sorta di invasione barbarica
venuta a turbare il luminoso sviluppo della vita italiana. Ma quei
barbari non venivan di fuori; erano i compagni fraterni di ieri; si
appellavano a un comune magistero; e per tanta parte dicevano le stesse
cose». L’«antifascismo di tipo conservatore» ebbe questo di peculiare:
che fu «simmetrico al fascismo, e interno a una prassi politica di cui
il fascismo veniva a rappresentare, se si vuole, una degenerazione
abnorme, ma unicamente in quanto sfuggito, a un certo punto, al
controllo di chi aveva voluto farsene strumento contro le forze
popolari in ascesa, contro il risveglio suscitato dalla tragedia della
prima guerra mondiale» (E. Garin, Cento anni: interpretazioni storiche e programmi politici, in Id., La cultura italiana tra ’800 e ’900, Laterza, Roma-Bari 19633, pp. 3-26, qui 22-3).
26 Cfr. la lettera di Croce al direttore della«Nuova Rivista Storica», Corrado Barbagallo ivi pubblicata (Intorno alla storia etico-politica: discussione seconda,
in ««Nuova Rivista Storica», XIII, 1929, n. 1, pp. 130-3), in cui a p.
130 ricorre la frase citata. Questo testo fa parte di uno scambio
epistolare pubblico tra Croce e Barbagallo svoltosi nel 1928-1929 sulle
colonne della rivista citata, e ricordato da Gramsci in un testo dei Quaderni del carcere intitolato Croce e Marx (Quaderni, cit., p. 436).
27 Antistoricismo, in «La Critica», XXVIII, 1930, pp. 401-9, poi in B. Croce, Ultimi saggi, Laterza, Bari 1935, pp. 246-58, qui 254.
28 Cfr B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928, pp. 250-7.
29
Cfr. ivi, pp. 294-5, dove si riporta l’opinione dei neutralisti (i
socialisti), secondo la quale la guerra non era «chiara guerra d’idee»,
ma dettata da motivi «industriali e commerciali», «una sorta di guerra
del “materialismo storico” o dell’“irrazionalismo filosofico”». Cfr.
inoltre ivi, p. 347n., una citazione da Guido de Ruggiero, La pensée italienne et la guerre,
in «Revue de métaphysique et de morale», 1916: «Un pensatore italiano –
(ero io che avevo ciò detto in conversazione) – ha riassunto in modo
scientifico questa concezione, affermando che questa guerra gli pareva
essere “la guerra del materialismo storico”. È un’osservazione felice e
che invita a riflettere».
30 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1993, pp. 31, 38-9, 43, 47.
31 Esplora questi passaggi Conte, Storia universale e patologia dello Spirito. Saggio su Croce, cit.
32 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1049-50.
33 Ivi, pp. 1316-7. Una messa alla prova di questa tesi in F. Valentini, La controriforma della dialettica. Coscienza e storia del neoidealismo italiano, Editori Riuniti, Roma 1966.
34 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1054.
35 Dice Croce che Hegel si lasciava «qui e altrove dominare dalle condizioni della Germania del suo tempo» (Di un equivoco concetto storico, cit., p. 282). Cfr. anche Croce, Elementi di politica (1925), in Id., Etica e politica, cit., p. 188: «la personale disposizione conservatrice dello Hegel, ligio allo Stato prussiano della restaurazione», ecc.
36
I «sistemi dei bisogni», sorgenti nei «mezzi infinitamente complessi» e
nel «loro movimento, che si intrecciano in modo parimenti infinito
nella produzione e nello scambio reciproci» (G. W. F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts oder Naturrecht und Staatswissenschaft im Grundrisse, § 201, in Id., Werke, hrsg. v. E. Moldenhauer und K. M. Michel, Bd. 7, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1986, p. 354).
37 Sottolinea questo lavoro di mobilitazione e formazione P. Salvucci, Lezioni sulla hegeliana Filosofia del diritto. La società civile,
nuova ed. riv. e ampl. a cura di L. Sichirollo e P. Venditti, Guerini e
associati, Milano 2000, pp. 265-78 (commento ai §§ 250-256).
38 J.-P. Lefebvre, P. Macherey, Hegel e la société, PUF, Paris 1984, pp. 49-51 (e cfr. tutte le pp. 48-52). Il riferimento è ai §§ 253-254 della Filosofia del diritto.
39 S. Avineri, Hegel’s Theory of the Modern State, Cambridge U. P., Cambridge 1972, p. 164. Cfr. Hegel, Grundlinien, §§ 251-5, ed. cit., pp. 394-5.
40 Cfr. Lefebvre, Macherey, Hegel e la société, cit., p. 49.
41 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 58.
42 Cfr., in riferimento all’Italia, A. Burgio, Senza democrazia. Per un’analisi della crisi, DeriveApprodi, Roma 2009.
43 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 37.
44 Ivi, p. 476.
45 Ivi, pp. 476-7.
46 Una sintesi assai chiara di questo approccio in D. Fisichella, Totalitarismo: un regime del nostro tempo, Carocci, Roma 2002.
47 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 1516.
48 Ivi, p. 812.
49 Su questa storia mi permetto di rinviare al mio «Tradurre» l’utopia in politica. Filosofia e religione nei «Quaderni del carcere», in «Problemi. Periodico quadrimestrale di cultura», 1999, n. 113, pp. 26-45.
50 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 431.
51
Ciò vale anche per i modi in cui oggi si discute del tema,
implicitamente riprendendo la lezione di Zola. Cfr. solamente due
esempi assai diversi: Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, trad. it. di G. Franzinetti, Bollati Boringhieri, Torino 1992; N. Bobbio, Intellettuali, in Enciclopedia del Novecento, Vol. 3, Treccani, Roma 1978, ad voc., in cui a Gramsci non viene assegnata rilevanza alcuna.
52 In Gramsci e la cultura contemporanea.
Atti del convegno internazionale di studi gramsciani tenuto a Cagliari
il 23-27 aprile 1967, 2 voll., a cura di P. Rossi, Editori Riuniti,
Roma 1969-1970, Vol. 1, pp. 37-74.
53
Su Rolland e Croce, nella loro diversità profonda, ma accomunati dal
rifiuto della «guerra di civiltà», in relazione a Gramsci, cfr. L.
Rapone, Cinque anni che paiono secoli. Antonio Gramsci dal socialismo al comunismo (1914-1919), Carocci, Roma 2011, pp. 223-5.
54 Cfr. L. Paggi, Antonio Gramsci e il moderno principe. I. Nella crisi del socialismo italiano, Editori Riuniti, Roma 1970, pp. 377-85.
55 A. Gramsci, Note sul problema meridionale e sull’atteggiamento nei suoi confronti dei comunisti, dei socialisti e dei democratici, ed. crit. di F. M. Biscione in «Critica marxista», XXVIII (1990), n. 3, pp. 51-78.
56 Ivi, p. 69, corsivi miei.
57 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., p. 2165.
58 E. W. Said, Representations of the Intellectual. The 1993 Reith Lectures, Vintage Books, New York 1996, p. 9.
59 Ivi, pp. 9-10.
60 Ivi, p. 11, corsivo mio.
61 Cfr. Die deutsche Ideologie (in K. Marx-F. Engels, Werke, Bd. 3, Dietz, Berlin 1962, p. 31, annotazione marginale di Marx): «Prima forma degli ideologi, preti».
62 Gramsci, Quaderni del carcere, cit., pp. 1331-2.
Nessun commento:
Posta un commento