di Massimo Vaggi e Alberto Piccinini, Paginauno.it
Questa primo o poi
ci toccava, che si parlasse – ma soprattutto si straparlasse
– dell’articolo 18. Ad aprile, quando uscirà questo
numero di Paginauno, la vicenda avrà probabilmente avuto un
esito politico: gli incontri con le parti sociali del governo Monti
qualcosa produrranno… Ma in verità qualcosa già
è stato prodotto: qualcosa di grave, un fatto che inquieta
e continuerà a inquietare chi auspica che le discussioni su
temi politico/sindacali, nel nostro Paese, siano condotte e trasmesse
se non altro con un minimo di rispetto del criterio di correttezza
dell’informazione. Appare sconcertante, almeno tra gli operatori
giuridici (avvocati, magistrati) che quotidianamente hanno a che fare
per il loro lavoro con la tematica dei licenziamenti, il livello di
approssimazione e di cosciente o incosciente travisamento della realtà
(ma: cosa è peggio, in fondo? La malafede o la straordinaria
cialtroneria?) con cui tanti autorevoli personaggi della politica,
del giornalismo e persino dell’economia affrontano l’argomento,
contribuendo ad alimentare una campagna di disinformazione che sembra
avere pochi precedenti.
Sta infatti entrando nella convinzione del cittadino
(che non abbia, in prima persona o attraverso persone vicine, vissuto
il dramma della perdita del posto di lavoro) la falsa, falsissima
impressione che in Italia sia pressoché impossibile licenziare,
persino nei casi in cui un’impresa, in comprovate difficoltà
economiche e finanziarie, magari con forte calo di ordini e bilanci
in rosso, avrebbe necessità di ridurre il proprio personale
(caso spesso citato nei dibattiti televisivi per mostrare l’assurdità
di una legislazione che ingessi fino a questo punto l’attività
imprenditoriale). E cosa dire poi di chi afferma che in Italia non
si può licenziare per ragioni disciplinari? Di chi afferma
con la sicumera del tuttologo che queste leggi assurde si salderebbero
con un’asserita ‘eccessiva discrezionalità interpretativa’
dei magistrati, o almeno di quei magistrati ‘schierati’
a tutela dei diritti dei lavoratori, e sarebbero la causa, o quantomeno
la concausa, del precariato giovanile. E magari – perché
no? – anche della malaria?
Senza considerare che sarebbe l’Europa a chiederci
di rivedere la normativa in tema di licenziamenti, perché eccessivamente
rigida. E che infine il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro
sarebbe un’‘anomalia nazionale’. Come si sa, il
principio di propaganda che sostiene che una bugia ripetuta mille
volte diventa verità, paga. È estremamente rara, nei
talk show televisivi, la presenza di sindacalisti o giuslavoristi
che raccontino cosa effettivamente accade nei luoghi di lavoro, nelle
trattative sindacali, negli studi degli avvocati e nelle aule di giustizia:
che cioè l’articolo 18, questo famigerato produttore
di mali, non afferma null’altro se non che l’illegittimità
di un licenziamento, come disciplinata da norme di legge diverse,
trova la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro.
E cioè: sei stato licenziato senza alcun motivo?
Il giudice ha ritenuto che le ragioni che l’azienda ha addotto
fossero false? Sei stato licenziato per una crisi aziendale che non
esiste, o per aver commesso un fatto disciplinarmente rilevante che
non hai mai commesso? Sei stato accusato di aver rubato e non è
vero? In sintesi, e in generale: qualche altra norma di legge
sparsa per l’universo giuridico consente di affermare che il
tuo licenziamento è fuori da ogni logica, da ogni criterio
di legittimità, è inventato, ritorsivo, discriminatorio,
nullo, viziato nella forma e nella sostanza, eccetera eccetera? Bene,
in questi casi, e cioè dopo che il giudice ha accertato che
quel licenziamento merita una sanzione, interviene il disposto dell’articolo
18.
Qualcuno (non si dice tra i lettori, ma tra i commentatori)
saprebbe citarne il testo?
Eccolo, nella sua parte incriminata: “Il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento […] o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità […] ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
Bum! Ecco la portata eversiva del testo di legge. Ecco il suo potere dirompente: quando qualcuno fa una cosa che non deve fare, che altre norme di legge vietano di fare, è costretto dall’ordinamento a tornare sui suoi passi, e a riprendere il lavoratore all’interno dell’azienda (sarebbe costretto: casi come quelli della Sata di Melfio la pratica abituale della Fiat ci confermano che le aziende preferiscono pagare il dipendente, ma non farlo rientrare in fabbrica).
Eccolo, nella sua parte incriminata: “Il giudice, con la sentenza con cui dichiara inefficace il licenziamento […] o annulla il licenziamento intimato senza giusta causa o giustificato motivo, ovvero ne dichiara la nullità […] ordina al datore di lavoro di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro”.
Bum! Ecco la portata eversiva del testo di legge. Ecco il suo potere dirompente: quando qualcuno fa una cosa che non deve fare, che altre norme di legge vietano di fare, è costretto dall’ordinamento a tornare sui suoi passi, e a riprendere il lavoratore all’interno dell’azienda (sarebbe costretto: casi come quelli della Sata di Melfio la pratica abituale della Fiat ci confermano che le aziende preferiscono pagare il dipendente, ma non farlo rientrare in fabbrica).
Eppure, non è l’articolo 18 che definisce
quando un licenziamento è sorretto o meno da giusta causa o
da giustificato motivo, non è l’articolo 18 che definisce
quando un licenziamento collettivo è valido ed efficace, non
è l’articolo 18 che definisce quando un licenziamento
disciplinare è valido o meno. Inoltre, l’articolo 18,
dove impone la reintegrazione nel posto di lavoro del lavoratore illegittimamente
licenziato, ha avuto statisticamente una rilevanza tutto sommato scarsa.
E dunque? Si sono forse tutti bevuti il cervello conducendo una battaglia furibonda e sproporzionata sul contenuto di una norma inutile? O forse tacciono consapevolmente e colpevolmente sulla vera, importante funzione che l’articolo 18 svolge a tutela del lavoratore dipendente? Andiamo con ordine, e affrontiamo le due questioni separatamente.
E dunque? Si sono forse tutti bevuti il cervello conducendo una battaglia furibonda e sproporzionata sul contenuto di una norma inutile? O forse tacciono consapevolmente e colpevolmente sulla vera, importante funzione che l’articolo 18 svolge a tutela del lavoratore dipendente? Andiamo con ordine, e affrontiamo le due questioni separatamente.
La legge italiana già consente di licenziare
per motivi “inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione
del lavoro e al regolare funzionamento di essa”. Conseguentemente
i licenziamenti per riduzione di personale avvengono quotidianamente,
sia da parte di aziende con meno di 16 dipendenti ai quali l’articolo
18 non si applica (aziende che dunque non avranno altro onere che
quello di pagare un’indennità di preavviso molto più
bassa di quella prevista in altri Paesi europei, ovvero, ma solo ove
un giudice accerti che le motivazioni addotte non sono veritiere,
dovrà pagare un’ulteriore indennità, comunque
non superiore a sei mensilità) sia da parte delle grandi aziende
(che in caso di esubero di personale di più di cinque unità
devono solo seguire una procedura che coinvolge il sindacato, ma che
le vincola – anche in caso di mancato accordo sindacale al suo
esito – esclusivamente a seguire dei criteri oggettivi nella
selezione del personale da licenziare).
Per quanto riguarda i licenziamenti per motivi economici,
pertanto, il giudice ha (solo) il potere di effettuare un controllo:
a) di verità sui motivi addotti nei licenziamenti individuali
e b) di regolarità della procedura nei licenziamenti collettivi.
Secondo l’articolo 30 della legge 183 del 2010, “il controllo
giudiziale è limitato esclusivamente […] all’accertamento
del presupposto di legittimità e non può essere esteso
al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e
produttive che competono al datore di lavoro”.
Al di fuori di codesti casi l’articolo 18 si applica, ma sempre e solo ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.
Al di fuori di codesti casi l’articolo 18 si applica, ma sempre e solo ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti, in caso di licenziamenti individuali, quasi sempre per motivi disciplinari.
E qui, di volta in volta, il magistrato valuta il
caso concreto, sulla base dei criteri (per esempio la ricorrenza di
una giusta causa come suggerita dall’articolo 2119 del codice
civile e come esplicitata dalle esemplificazioni dei contratti collettivi)
e delle forme che altre norme di legge impongono (in particolare l’articolo
7 della legge 300/1970, che disciplina una procedura di contestazione
per i provvedimento disciplinari). Tuttavia, il ‘caso concreto’
non appare mai come quelli da barzelletta che vengono talvolta riportati
per dimostrare l’arbitrarietà del giudice e la presunta
assurdità del sistema. Da oltre trent’anni si sente parlare
del caso del garzone del macellaio amante della moglie del datore
di lavoro, che sarebbe stato reintegrato perché i fatti avvenivano
al di fuori dell’orario di lavoro. Basta che una falsa notizia
come questa venga detta in televisione, ed ecco che il quadro è
completo e il prodotto confezionato: l’opinione pubblica, dopo
un mese di questa martellante propaganda, è pronta ad accettare
le giuste soluzioni che – condivise o non condivise da tutti
i sindacati – ci facciano fare quel passo decisivo per adeguare
l’Italia alle nuove esigenze della globalizzazione e renderla
finalmente competitiva anche rispetto ad altri Paesi europei che hanno
una maggiore flessibilità in uscita.
Ma è proprio vera (anche) quest’ultima
affermazione? Come mai non riusciamo a leggere in nessun giornale
che gli indici Ocse di cosiddetta rigidità in uscita collocano
attualmente l’Italia (indice dell’1.77) al di sotto della
media europea (basti dire che la Germania ha indice 3.00)? Ed è
proprio vero che il diritto alla reintegrazione (in caso di licenziamento
dichiarato illegittimo) è previsto solo nel nostro Paese? In
certi Paesi è addirittura costituzionalizzato (Portogallo),
in altri è un rimedio possibile (per esempio Svezia, Germania,
Norvegia, Austria, Grecia, Irlanda, in taluni casi Francia) e spesso
è accompagnato da ulteriori tutele.
La verità è che non esiste un vero
collegamento tra la ripresa produttiva e la libertà di licenziare,
se non nell’auspicio dell’attuazione di un antico progetto
di riassestamento del potere nei luoghi di lavoro, che per essere
esercitato in modo sovrano mal tollera l’esistenza di norme
di tutela dei lavoratori dagli abusi. Perché è questo,
e solo questo, il senso profondo dell’articolo 18 dello Statuto
dei lavoratori: una norma che sanziona il comportamento illegittimo
del datore di lavoro ripristinando lo status quo ante che precedeva
il licenziamento – lo si ribadisce – illegittimo. E la
cui esistenza, per l’appunto, impedisce che il potere nei luoghi
di lavoro (con più di 15 addetti, purtroppo, perché
altrove, appunto, tale tutela non c’è) possa essere esercitato
in modo arbitrario e lesivo della dignità dei dipendenti.
Esiste invece un collegamento, forte e da molti ritenuto
pericoloso, tra la tutela del proprio posto di lavoro e la capacità
di organizzazione sindacale o di affermazione dei propri diritti.
In una società poco solidale e frammentata, percorsa dalle
paure e dalle incertezze, da una incombente ipotesi di povertà
che grava sui singoli e sulle famiglie, chi potrà tranquillamente
scioperare, organizzare attività rivendicativa, affiliarsi
a quel sindacato che ritiene più rispondente ai propri desiderata,
se non è certo che queste attività non potranno essere
represse? Se non è certo che un eventuale licenziamento illegittimo
non avrà come conseguenza il diritto a tornare al lavoro? È
vero, l’articolo 18 è pericoloso: perché intorno
alla tutela che si definisce reale del posto di lavoro (la
reintegrazione) si sono amalgamate le istanze collettive e individuali,
si sono costruiti e rafforzati soggetti rivendicativi e di contrattazione
è si è proposto un sistema seppure ancora incerto di
tutela della salute in fabbrica.
L’articolo 18 vale cioè per ciò che impedisce: l’abuso, e per ciò che consente: l’esercizio dei diritti. Forse che, molto banalmente, lo si possa considerare una norma elementare di civiltà?
L’articolo 18 vale cioè per ciò che impedisce: l’abuso, e per ciò che consente: l’esercizio dei diritti. Forse che, molto banalmente, lo si possa considerare una norma elementare di civiltà?
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