La sensazione e l’umore di molti economisti sono quelli delle
cronache del “tormentato periodo che va dal 1929 al 1936 […]dove[…]
gli economisti accademici […]non avevano saputo offrire
pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa
un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente
convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di
mercato … l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto
che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione
di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale” (Hyman
P. Minsky, Keynes e l’instabilità del capitalismo, 2009).
Ma quest’umore non potrebbe essere diverso. Tanti anni di (tesi)
politiche ed economiche fondate sulla concorrenza, sulla
flessibilità e sui fallimenti dello Stato hanno eroso il senso
comune e, aspetto ben più grave, compromesso quel vasto patrimonio
di conoscenze che era alla base della risposta politica ed
economica della crisi del ’29. Se dovessimo prendere per assolute
le dichiarazioni di Fmi (Lagarde e Blanchard), Bce (Draghi),
Commissione europea (Barroso e Juncker) e di molti opinionisti
italiani tra cui Boeri, per non citare con le dovute distinzioni
Alesina, Giavazzi, Tabellini e consimili, dovremmo chiudere
baracca e burattini.
L’aspetto drammatico di queste tesi è l’effetto che hanno sugli economisti critici (liberal, strutturalisti, circuisti, keynesiani, anche in senso lato). Molti commenti riflettono l’impotenza e, sotto sotto, l’amarezza del dibattito. Ridursi a criticare il pareggio di bilancio, l’insensatezza della riduzione del debito o della esasperata flessibilità del lavoro, l’austerità espansiva, tra tutte crediamo la più indigesta perché non comprendiamo il nesso tra austerità ed espansione, e per ultima la precarietà espansiva, è un esercizio di buon senso e necessario. Lascia tuttavia un vuoto di progetto e prospettiva che riduce l’economista a mero “critico”, seppur diversamente declinato.
L’aspetto drammatico di queste tesi è l’effetto che hanno sugli economisti critici (liberal, strutturalisti, circuisti, keynesiani, anche in senso lato). Molti commenti riflettono l’impotenza e, sotto sotto, l’amarezza del dibattito. Ridursi a criticare il pareggio di bilancio, l’insensatezza della riduzione del debito o della esasperata flessibilità del lavoro, l’austerità espansiva, tra tutte crediamo la più indigesta perché non comprendiamo il nesso tra austerità ed espansione, e per ultima la precarietà espansiva, è un esercizio di buon senso e necessario. Lascia tuttavia un vuoto di progetto e prospettiva che riduce l’economista a mero “critico”, seppur diversamente declinato.
Quello che manca alla critica è un orizzonte minimo e condiviso.
Saremo dei romantici, ma l’economia è una scienza sociale e, prima
o poi, dovremo farci carico di una prospettiva diversa dalla gestione
della crisi o dalla critica. Questo atteggiamento ha radici molto
nobili: senza critica è difficile costruire un progetto
alternativo. Pensiamo a Sraffa, Kalecki, Robinson, Sylos Labini,
Graziani, Pasinetti, Leon. Con tutta l’attenzione possibile, la
critica svolta da questi è più che sufficiente.
Non dobbiamo raffinare ciò che è già stato declinato in più modi.
Erano (sono) personaggi enormi, ma non hanno costruito una idea
organica di società diversa. Abbiamo delle intuizioni, delle
suggestioni, ma possiamo dire che il progetto (futuristico) di
società più avanzato è quello delle prospettive economiche dei
nostri nipoti?
Non ci mancano i lasciti dei nostri maestri. Pensiamo ai “conti
senza l’oste” di Graziani, alla “dinamica strutturale” di Pasinetti
e alla “tecnica superiore” di Leon. Senza mancare di rispetto
a nessuno il lascito più grande è forse di Sylos Labini quando afferma
che “in una analisi dinamica lo sviluppo economico è da
riguardare, non semplicemente come un aumento sistematico del
prodotto nazionale concepito come aggregato a composizione data
ma, necessariamente, come un processo di mutamento strutturale,
che influisce sulla composizione della produzione
e dell’occupazione e che determina cambiamenti nelle forme di
mercato, nella distribuzione del reddito e nel sistema dei prezzi” (Progresso tecnico e sviluppo ciclico, 1993). Tecnicamente dovremmo avere molti più strumenti degli economisti mainstream
per disegnare un futuro migliore per i nostri nipoti, ma il clima che
ci circonda è invalidante e disarmante, con un lascito che annulla
anche le più elevate buone intenzioni.
In un modo o nell’altro l’Europa è oggi il terreno e lo snodo che
segnerà la fine o l’inizio di una nuova società. Abbiamo un compito
gravoso e possiamo assumerlo se usciamo dalla logica della critica.
Per il nostro paese significa qualcosa di più. Non la ripetizione di
svalutazione (deflazione) del lavoro. Per la prima volta l’Italia
deve assumersi delle responsabilità nuove e inedite se vuole
rimanere un paese moderno, sia per quanto riguarda le politiche
economiche interne e sia per quanto riguarda le politiche europee.
Si tratta di cambiare il motore della macchina senza fermarla
(Riccardo Lombardi). Non si tratta di politiche dell’offerta,
piuttosto della necessità di assecondare e guidare la dinamica di
struttura di Pasinetti, i conti senza l’oste di Graziani e il segno
del nostro Pil di Sylos Labini. Tutti sosteniamo che l’intervento
pubblico è indispensabile. Possiamo almeno declinare alcuni pezzi
di questa necessità? Perché non prendere la ricerca e sviluppo
pubblica, altra non né conosciamo, e industrializzarla al fine di
modificare il segno del Pil, della struttura e del ben-essere?
Possiamo affidare alla Cdp, o chi per essa, il compito di
anticipare il denaro necessario (Graziani) per spostarci dai
settori in declino verso i settori a maggiore contenuto
tecnologico e cognitivo? Se poi il privato ha voglia di spendere
quel tanto o poco di buono che è rimasto, dobbiamo esserne solo
felici. Il conflitto capitale-lavoro ritroverebbe l’agio descritto
accuratamente dalla immensa Robinson.
Per l’Europa, dobbiamo spingerci oltre la flessibilità di
bilancio, la moneta parallela o la ri-appropriazione della moneta. La
sfida è quella di uno stato federale o uno stato europeo a tutto
tondo. Lasciamo i multipli delle politiche territoriali. Sono
giustappunto multipli. L’Europa non sarà mai l’Europa se non
riuscirà a istituire i princìpi, le norme e le regole dell’economia
pubblica, cioè definire l’insieme delle politiche di bilancio
comunitarie con le quali indirizzare il sistema economico
europeo verso obiettivi democraticamente definiti. L’Europa,
infatti, non possiede un bilancio autonomo e finanziato con entrate
fiscali legate ad un’ampia base imponibile. Immaginiamo un bilancio
comunitario pari al 5% del Pil dell’insieme dei paesi membri. Lo
stato nasce e si consolida con le imposte. I coloni irlandesi hanno
fondato gli Stati uniti d’America proprio sulle imposte. In questo
modo sarebbe possibile rimuovere il vincolo discrezionale dei
trasferimenti statali. Se la crisi è strutturale, occorre creare
istituzioni adeguate per tenere in tensione la domanda effettiva,
riducendo il mancato impiego delle risorse produttive a cominciare
dalla disoccupazione. Pensare ad un bilancio europeo molto più
consistente, finanziato con strumenti come l’Iva, imposte
ambientali ed una tassa sulle transazioni finanziarie, l’emissione
di bond acquistati dalla Bce per sostenere la crescita e gli
investimenti necessari per Europa 2020, che deve ridurre il gap tra
i Paesi, infine meccanismi di riequilibrio dei deficit ed avanzi
commerciali tra i paesi che adottano la stessa moneta, non sarebbero
strumenti cardine per un progetto di società o l’embrione di società
europea?
Gli economisti mainstream hanno sempre la stessa proposta “naturale” di società ed economia, ma una qualche colpa gli economisti non–mainstream devono pur averla se i primi hanno tutto questo potere culturale.
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