giovedì 7 agosto 2014

La caporetto economica di Renzi.


Intervista a Riccardo Realfonso, di Roberto Ciccarelli, Il Manifesto
L'economista sostiene il referendum "Stop austerità": "Ulteriori tagli cancellerebbero diritti sociali e ridurrebbero ancora la domanda. E ciò metterebbe in ulteriore difficoltà le imprese, che già soffrono per l’assenza di politiche industriali"
Siamo in reces­sione. Nel primo seme­stre del 2014 il pil si è ridotto dello 0,3% e a fine anno il governo rischia di far lie­vi­tare il rap­porto deficit/pil oltre il 3%.
 
Pro­fes­sore Ric­cardo Real­fonzo, ordi­na­rio di eco­no­mia all’università di Bene­vento, dopo appena 200 giorni, siamo alla capo­retto eco­no­mica di Renzi?
Il punto è che l’impianto com­ples­sivo del Docu­mento di Eco­no­mia e Finanza del mini­stro Padoan si è posto in con­ti­nuità con il pas­sato. E oggi risulta ancora più evi­dente che io e altri ave­vamo ragione nel chie­dere una discon­ti­nuità, una azione espan­siva che rilan­ciasse l’intervento pub­blico in chiave anti-crisi, andando oltre i vin­coli euro­pei sul defi­cit. E dire che lo stesso Renzi aveva attac­cato i vin­coli euro­pei a ini­zio anno, defi­nen­doli “supe­rati” e sot­to­li­neando la neces­sità di pro­porre una svolta key­ne­siana. Poi però Padoan ci ha pre­sen­tato la solita vec­chia ricetta: rispetto dei vin­coli euro­pei e tagli alla spesa pub­blica come stru­mento per risa­nare i conti. E così ci tro­viamo sem­pre di fronte agli stessi risul­tati cui assi­stiamo dallo scop­pio della crisi del 2007. Le poli­ti­che che pun­tano a gene­rare avanzi pri­mari, cioè eccessi del pre­lievo fiscale sulla spesa pub­blica, accen­tuano la reces­sione e la disoc­cu­pa­zione, finendo per peg­gio­rare anche i conti dello Stato. È sem­pre più urgente cam­biare le poli­ti­che economiche.
L’Ue nic­chia sul rin­vio del pareg­gio di bilan­cio al 2016, il governo nega la mano­vra cor­ret­tiva in autunno. L’unica solu­zione è una sas­sata da 30 miliardi in autunno. Chi sarà col­pito?
Una mano­vra con nuovi tagli alla spesa sarebbe una iat­tura, appro­fon­di­rebbe ancora la crisi. La spesa pub­blica ita­liana, pur avendo al suo interno intol­le­ra­bili pri­vi­legi e gravi sac­che di spreco, è già infe­riore ai valori medi euro­pei. In par­ti­co­lare, la spesa sani­ta­ria, per l’istruzione, per il soste­gno ai red­diti dei cit­ta­dini meno abbienti. Ulte­riori tagli can­cel­le­reb­bero diritti sociali e ridur­reb­bero ancora la domanda. E ciò met­te­rebbe in ulte­riore dif­fi­coltà le imprese, che già sof­frono per l’assenza di poli­ti­che indu­striali. Non si torna a cre­scere con­ti­nuando a tagliare.
Le «riforme» chie­ste dall’Europa ser­vono a curare la reces­sione?
Le riforme utili riguar­dano la rior­ga­niz­za­zione della mac­china sta­tale e la con­se­guente riqua­li­fi­ca­zione della spesa pub­blica. Se, invece, il rife­ri­mento fosse a ulte­riori libe­ra­liz­za­zioni del mer­cato del lavoro, allora cadremmo in nuovi errori. Molti studi che esa­mi­nano gli effetti della ridu­zione del grado di pro­te­zione del lavoro sull’occupazione dimo­strano che que­ste libe­ra­liz­za­zioni non ridu­cono la disoc­cu­pa­zione e non aumen­tano la com­pe­ti­ti­vità delle imprese.
La Bce chiede all’Italia «aggiu­sta­menti strut­tu­rali»…
Piut­to­sto che dare indi­ca­zioni ai governi, le auto­rità mone­ta­rie dovreb­bero disporsi a ope­rare come la Fed sta­tu­ni­tense: soprat­tutto in reces­sione, sarebbe neces­sa­rio che finan­zias­sero diret­ta­mente la spesa pub­blica. Pur­troppo, in Europa pre­vale un modello di banca cen­trale di tipo tede­sco e la Bce si guarda bene dal soste­nere le poli­ti­che anti­ci­cli­che dei governi.
Que­ste poli­ti­che acco­mo­danti non creano deva­stanti bolle finan­zia­rie?
È un rischio che può essere evi­tato con poli­ti­che mone­ta­rie coor­di­nate con le poli­ti­che fiscali. Ma restiamo ai fatti: oggi gli Usa hanno un Pil che è circa 9 punti più alto rispetto allo scop­pio della crisi del 2007, men­tre nell’Eurozona siamo ancora due punti sotto.
Si può uscire dal para­digma dell’«austerità espan­siva» per cui ser­vono ancora misure fiscali restrit­tive per otte­nere la cre­scita?
Certo, come stanno facendo gli USA e il Giap­pone. La dif­fi­coltà con­si­ste nel fatto che i dogmi dell’austerità sono radi­cati nelle tec­no­cra­zie euro­pee e in par­ti­co­lare tra i ban­chieri cen­trali. E i popoli di Europa sino a oggi hanno finito col subire la volontà di sog­getti e isti­tu­zioni in defi­cit di legit­ti­ma­zione democratica.
Lei è tra i pro­mo­tori del refe­ren­dum stop auste­rità. In che modo con­tri­bui­rebbe a miglio­rare que­sta situa­zione così cupa?
Il suc­cesso del refe­ren­dum potrebbe essere deci­sivo, anche per quei governi che vogliono dav­vero pro­vare a cam­biare. Sarebbe una forte e demo­cra­tica spinta dal basso per lasciarci alle spalle le poli­ti­che di auste­rità in Ita­lia e in Europa. È giunta l’ora che i popoli euro­pei fac­ciano sen­tire la loro voce, con­tro poli­ti­che che hanno pro­dotto nell’Eurozona, dal 2007 ad oggi, circa 8 milioni di disoccupati.

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