mercoledì 13 agosto 2014

Nostalgia canaglia … della Fornero


edilizia_acrobatica_aAnna Lombroso per il Simplicissimus

Ma allora ci tenevamo la Fornero, che almeno non ha mai fatto niente per rendersi simpatica, allora ci tenevamo Monti, che almeno parlava in inglese. Meglio ancora ci tenevamo Berlusconi, che ci faceva ridere tra le lacrime.
Nel Paese che vanta il terzo posto al mondo per evasione fiscale, ma la pressione fiscale più alta dell’Occidente per quelli che le pagano le tasse, un sistema sanitario al collasso, monumenti impacchettati per nascondere la vergogna dell’abbandono, coste e isole in svendita, città d’arte oltraggiate da navi-condominio, tunnel sotterranei, traffico soffocante, oltre che impiccate dai debiti quindi messe all’incanto per quanto riguarda aziende di servizio, proprietà e monumenti. Nel Paese nel quale i costi diretti della corruzione   ammontano ogni anno a 60 miliardi di euro, e dove ciononostante, anzi, proprio per questo, si continua ad investire in quelle grandi opere che la nutrono, anziché nella cura del del territorio, mentre  il 6,6% del territorio nazionale è in frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, dove i costi della mancata manutenzione idrogeologica sono stati valutati in 3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti), dove dal 1985 al 2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120 gravi, con 970 morti, dove il consumo di suolo è del 6,9%,  circa otto metri quadrati al secondo per ciascun secondo degli ultimi cinque anni, a fronte del 2,8% europeo, ebbene in questo Paese pare che l’ostacolo che si frappone alla crescita, il peso che ci tira sotto, nel profondo della crisi sia rappresentato dalle arcaiche e scriteriate libertà che si sono negli anni concesse ai lavoratori e che è giudizioso e lungimirante oltre che moderno, smantellare come idola maligni.

E infatti Renzi ha usato le stesse parole della Fornero, le stesse di Sacconi, le stesse di Ichino, le stesse di chi negli anni ha ammansito un padronato sempre più insipiente ed avido, inidoneo a produrre e investire in ricerca, sicurezza e competitività, manager sempre più inefficienti e arroganti attenti solo a foraggiare l’azionariato, con la promessa di cancellare definitivamente quel quadro di garanzie già ampiamente minacciato da una crisi pilotata proprio al fine di abbattere lavoro, diritti e democrazia.
E infatti ha scelto come priorità allegorica di mettere mano alla Carta costituzionale che stabilisce all’articolo 1 che la nostra è una repubblica fondata sul lavoro, così una volta obliterato quello, si può passare allo Stato, già mutilato della sovranità, e al sistema repubblicano, già fortemente menomato nella rappresentanza.
La menzogna, ripetuta come un malefico mantra da politici vecchi e nuovi, imprenditori, giuslavoristi e secondo la quale l’Italia avrebbe bisogno di una illimitata flessibilità per poter competere con gli altri paesi avanzati, ha ormai il naso lungo come il mito dell’austerità e si rivelerà altrettanto inefficace, probabilmente suicida. O come la convinzione che la crisi sia un accidente nel percorso del sistema economico e che il prezzo di morti, erosione dello stato sociale, perdita dei diritti sia il costo minimo da pagare per proseguire nel cammino inarrestabile del progresso.
La loro flessibilità, comunque la si giri, significa facilità di licenziare, diffusione di contratti di durata talmente breve da non richiedere nemmeno il ricorso al licenziamento.
Ma  vuol dire anche un mutamento tossico che si vorrebbe imporre al pensiero comune e alle esistenze, perché infligge costi a carico della collettività, dei singoli, delle famiglie, della comunità, insinuando che la rinuncia ai diritti sia un obbligo sul quale non si può transigere pena l’emarginazione totale. E facendo credere che l’abiura dalla sicurezza sia una scelta inderogabile, che è necessario, ineluttabile sottoporsi a contratti a termine, a collaborazioni, quelle chiamate continuative ma di fatto discontinue, a lavori intermittenti e occasionali, oppure semplicemente in nero, come se tutto questo non producesse una ferita profonda, che origina nelle vite insicurezza, impossibilità di fare progetti, ansia e incertezza e – infine – una sfiducia e una disaffezione della cittadinanza e un disincanto della democrazia che non ha saputo proteggere gli individui da una pressione così potente e maligna.
E infatti la precarietà non definisce solo la natura dei contratti, ma entra nel profondo, rendendo atipiche le aspettative e le ambizioni, connota una condizione umana e sociale incerta, ricattabile, suscitando l’impressione che qualcosa che uno stato che dovrebbe essere provvisorio, diventi invece perenne come un ergastolo, come una condanna a una vita indeterminata,   instabile.
E non è certo casuale: c’è una volontà nel nutrimento che viene dato all’insicurezza, in modo che muovendo dalle condizioni di lavoro, intrida tutta la vita privata e pubblica, nelle quali – lo dice l’etimo stesso della parola, è stato ricordato in questi giorni – quello che si è raggiunto è  instabile, discrezionale  e dipende dall’arbitrarietà come un diritto a termine ottenuto in seguito a una preghiera.
E non sono solo le garanzie del lavoro a essere “revocabili”, ma le certezze esistenziali, le speranze, le aspettative, i vincoli affettivi, i cardini, i fondamenti e le direzioni che vogliamo far prendere alle nostre vite, a essere soggetti a decisioni di altri, padroni o chi è al loro servizio, che ci vogliono vite nude, senza sogni, senza ideali, senza passioni e senza passato, così da persuaderci che non abbiamo diritto a un riscatto che non conosciamo nemmeno più.

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