È diffusa la consapevolezza del fatto che la «Costituzione neoliberista» comporta un duplice processo di migrazione della sovranità: dalla politica all’economia; dagli Stati nazionali a organismi transnazionali rappresentanti dei poteri che articolano la dinamica economica.
Questa sommaria sintesi è sufficiente a dar conto del problema più serio generato dal radicarsi del neoliberismo nell’arco degli ultimi 30–35 anni. Il riassetto della sovranità ha coinciso con uno scadimento della sua qualità, in quanto i poteri economici premiati sono costitutivamente sottratti al controllo democratico. Indipendentemente dalla loro configurazione (non si tratta soltanto di grandi imprese industriali e finanziarie o dei grandi investitori, ma anche di istituzioni abilitate a interagire con gli Stati e a produrre norme per essi vincolanti), sono poteri privati, naturalmente vocati a contendere quote di sovranità al pubblico. Cosicché possiamo aggiungere un terzo fenomeno ai due indicati in apertura. La Costituzione neoliberista è venuta realizzando anche un passaggio della sovranità dal pubblico al privato: un processo di privatizzazione della sovranità che contamina la stessa sfera politico-istituzionale, esponendola a una sempre più invasiva penetrazione da parte di poteri e interessi particolari.
Se questo è vero, possiamo senz’altro affermare che tra neoliberismo e democrazia sussiste una tensione irriducibile, che concerne anche il versante della capacità critica e di resistenza dei corpi sociali. Abbiamo detto che la consapevolezza degli effetti perversi della metamorfosi della sovranità è comune. Comune, non diffusa. Essa è oggi patrimonio di quelle che in passato avremmo definito «avanguardie di classe» e in anni più vicini «popolo dei movimenti», mentre sarebbe irrealistico attribuirla all’insieme della cittadinanza. La grande maggioranza dei cittadini è investita dal processo, del quale subisce i molteplici effetti, ma non ne è criticamente avvertita. Ciò per varie ragioni, non ultima — per quanto concerne in particolare un paese come il nostro, tradizionalmente provinciale — l’abitudine a considerare l’ambito nazionale come il solo politicamente rilevante.
Da questo punto di vista le ultime dichiarazioni del presidente della Bce potrebbero segnare un tornante e sortire, paradossalmente, effetti progressivi. Giovedì scorso, in occasione della conferenza-stampa mensile, Mario Draghi ha, come si suol dire, messo i piedi nel piatto. Non si è limitato a spendere parole di incoraggiamento o di elogio nei confronti delle immancabili «riforme strutturali» — immancabili da decenni nell’agenda dei paesi membri dell’Unione e nella retorica di supporto alla grande trasformazione neoliberista.
Non si è nemmeno accontentato di minacciare il commissariamento degli Stati da parte delle istituzioni comunitarie — un commissariamento in larga misura già in atto, per legittimare il quale le Costituzioni nazionali vengono «riformate» in modo da estromettere le assemblee elettive e conferire centralità agli esecutivi, interlocutori privilegiati della tecnocrazia. Draghi ha finalmente deciso di chiamare le cose per nome, invocando un processo riformatore definito in sede europea e imposto senza ulteriori mediazioni agli Stati più «arretrati» o recalcitranti. L’idea è quella di una «rivoluzione dall’alto», scaricata sulla cittadinanza senza che essa vi svolga alcuna parte attiva.
In che senso il proclama del gran governatore potrebbe avere imprevisti effetti progressivi? Nel senso che si tratta di un manifesto talmente radicale da favorire, almeno potenzialmente, una presa di coscienza generalizzata del processo in corso. Se un elemento ha sin qui agevolato la regressione oligarchica delle democrazie occidentali, questo è stato il carattere informale o esoterico di trasformazioni realizzatesi per aggiustamenti surrettizi delle normative e della prassi oppure, nei passaggi topici, tramite la riscrittura dei Trattati. Ora la sortita di Draghi potrebbe segnare un’inversione di tendenza nel senso della pubblicizzazione del processo.
La portata delle conseguenze di quanto da lui auspicato della Bce è tale (gli Stati dovrebbero in sostanza sbaraccare, trasformarsi in strutture amministrative subordinate e magari rinunciare ad appuntamenti elettorali sempre più simili a vuoti rituali) che, in linea di principio, non si dovrebbe potere non discuterne in sede pubblica. Ma qui evidentemente casca l’asino, e diciamo subito che siamo più che sicuri del fatto che, nonostante la loro enormità, le parole del presidente della Bce non susciteranno alcun serio dibattito pubblico. Non perché resteranno inascoltate, tutt’altro. Esse rafforzeranno e accelereranno dinamiche di accentramento della sovranità in capo alle tecnocrazie europee (e di spoliazione dei corpi sociali). Ma ciò avverrà senza provocare alcun contraccolpo sul piano della consapevolezza, del giudizio critico e della prassi collettiva.
Niente su questo piano avverrà per il semplice fatto che l’opinione pubblica si è progressivamente rarefatta sino a perdere consistenza e a coincidere di fatto con gli stessi poteri privati che ne rappresentano il simulacro sul terreno mediatico. Anche l’opinione pubblica è stata privatizzata nell’arco degli ultimi decenni, di pari passo con il controllo sempre più efficiente degli «apparati ideologici» da parte dei potentati finanziari (e con la riorganizzazione dell’elettorato dei grandi partiti in settori d’opinione eterodiretti). In quest’arco di tempo si è verificato un processo di spoliticizzazione della massa (è questa la verità dell’apparente rifiuto della politica da parte dei corpi sociali) funzionale alla sua de-emancipazione. Un processo che restituisce attualità alla classica rappresentazione della cittadinanza come una «moltitudine bambina» bisognosa di tutori.
Da questo punto di vista anche le vicende politiche italiane di queste settimane rivelano un profilo diverso da quello solitamente rilevato. Abbiamo più volte insistito sul ritorno del segreto quale cifra caratteristica dell’azione di governo, sul non casuale infittirsi dell’opacità intorno alle decisioni-chiave dei gruppi dominanti. Il pactum sceleris siglato da Renzi e Berlusconi intorno a due cardini dell’assetto democratico del paese (la Costituzione e la legge elettorale) è il simbolo più eloquente di tale fenomeno. Ma è appunto solo un simbolo. All’insegna del segreto si dispiega ormai tutta l’azione dei governi post-democratici, a cominciare dalla gestione reazionaria della crisi economica a suon di misure funzionali alla redistribuzione verso l’alto della ricchezza sociale e alla sistematica distruzione dei sistemi di tutela conquistati dal movimento operaio in oltre 150 anni di lotte sanguinose.
Detto questo, non sta scritto da nessuna parte che siamo obbligati a subire passivamente e tacitamente tale stato di cose. Possiamo, al contrario, e dobbiamo insorgere per contrastarlo, cominciando col ritessere tenacemente la tela del pensiero critico allo scopo di generalizzare la consapevolezza dei processi in atto: di fare della coscienza di classe il primo e fondamentale bene comune. Ma perché ciò si verifichi appare indispensabile che, al di là degli sforzi individuali di ciascuno di noi, venga ricostituendosi finalmente una forza critica in grado di farsi valere nella battaglia delle idee e di raggiungere il più vasto uditorio nel confronto politico-ideologico.
Il dominio oligarchico della società per mezzo del segreto è possibile perché non vi è più — in Italia da almeno vent’anni a questa parte — dialettica politica tra gli interessi sociali fondamentali, perché l’interesse dei subalterni è privo di voce, escluso dal conflitto politico. La lotta per la democrazia passa quindi necessariamente per la ricostruzione di una soggettività capace di far sì che la lettura critica della realtà ridivenga patrimonio comune del corpo sociale, e di ridare efficacia politica al punto di vista della classe lavoratrice.
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