martedì 12 agosto 2014

La grande riforma della piccola sovranità di Alberto Burgio

 
È dif­fusa la con­sa­pe­vo­lezza del fatto che la «Costi­tu­zione neo­li­be­ri­sta» com­porta un duplice pro­cesso di migra­zione della sovra­nità: dalla poli­tica all’economia; dagli Stati nazio­nali a orga­ni­smi trans­na­zio­nali rap­pre­sen­tanti dei poteri che arti­co­lano la dina­mica economica.
Que­sta som­ma­ria sin­tesi è suf­fi­ciente a dar conto del pro­blema più serio gene­rato dal radi­carsi del neo­li­be­ri­smo nell’arco degli ultimi 30–35 anni. Il rias­setto della sovra­nità ha coin­ciso con uno sca­di­mento della sua qua­lità, in quanto i poteri eco­no­mici pre­miati sono costi­tu­ti­va­mente sot­tratti al con­trollo demo­cra­tico. Indi­pen­den­te­mente dalla loro con­fi­gu­ra­zione (non si tratta sol­tanto di grandi imprese indu­striali e finan­zia­rie o dei grandi inve­sti­tori, ma anche di isti­tu­zioni abi­li­tate a inte­ra­gire con gli Stati e a pro­durre norme per essi vin­co­lanti), sono poteri pri­vati, natu­ral­mente vocati a con­ten­dere quote di sovra­nità al pub­blico. Cosic­ché pos­siamo aggiun­gere un terzo feno­meno ai due indi­cati in aper­tura. La Costi­tu­zione neo­li­be­ri­sta è venuta rea­liz­zando anche un pas­sag­gio della sovra­nità dal pub­blico al pri­vato: un pro­cesso di pri­va­tiz­za­zione della sovra­nità che con­ta­mina la stessa sfera politico-istituzionale, espo­nen­dola a una sem­pre più inva­siva pene­tra­zione da parte di poteri e inte­ressi particolari.
Se que­sto è vero, pos­siamo senz’altro affer­mare che tra neo­li­be­ri­smo e demo­cra­zia sus­si­ste una ten­sione irri­du­ci­bile, che con­cerne anche il ver­sante della capa­cità cri­tica e di resi­stenza dei corpi sociali. Abbiamo detto che la con­sa­pe­vo­lezza degli effetti per­versi della meta­mor­fosi della sovra­nità è comune. Comune, non dif­fusa. Essa è oggi patri­mo­nio di quelle che in pas­sato avremmo defi­nito «avan­guar­die di classe» e in anni più vicini «popolo dei movi­menti», men­tre sarebbe irrea­li­stico attri­buirla all’insieme della cit­ta­di­nanza. La grande mag­gio­ranza dei cit­ta­dini è inve­stita dal pro­cesso, del quale subi­sce i mol­te­plici effetti, ma non ne è cri­ti­ca­mente avver­tita. Ciò per varie ragioni, non ultima — per quanto con­cerne in par­ti­co­lare un paese come il nostro, tra­di­zio­nal­mente pro­vin­ciale — l’abitudine a con­si­de­rare l’ambito nazio­nale come il solo poli­ti­ca­mente rilevante.
Da que­sto punto di vista le ultime dichia­ra­zioni del pre­si­dente della Bce potreb­bero segnare un tor­nante e sor­tire, para­dos­sal­mente, effetti pro­gres­sivi. Gio­vedì scorso, in occa­sione della conferenza-stampa men­sile, Mario Dra­ghi ha, come si suol dire, messo i piedi nel piatto. Non si è limi­tato a spen­dere parole di inco­rag­gia­mento o di elo­gio nei con­fronti delle imman­ca­bili «riforme strut­tu­rali» — imman­ca­bili da decenni nell’agenda dei paesi mem­bri dell’Unione e nella reto­rica di sup­porto alla grande tra­sfor­ma­zione neo­li­be­ri­sta.
Non si è nem­meno accon­ten­tato di minac­ciare il com­mis­sa­ria­mento degli Stati da parte delle isti­tu­zioni comu­ni­ta­rie — un com­mis­sa­ria­mento in larga misura già in atto, per legit­ti­mare il quale le Costi­tu­zioni nazio­nali ven­gono «rifor­mate» in modo da estro­met­tere le assem­blee elet­tive e con­fe­rire cen­tra­lità agli ese­cu­tivi, inter­lo­cu­tori pri­vi­le­giati della tec­no­cra­zia. Dra­ghi ha final­mente deciso di chia­mare le cose per nome, invo­cando un pro­cesso rifor­ma­tore defi­nito in sede euro­pea e impo­sto senza ulte­riori media­zioni agli Stati più «arre­trati» o recal­ci­tranti. L’idea è quella di una «rivo­lu­zione dall’alto», sca­ri­cata sulla cit­ta­di­nanza senza che essa vi svolga alcuna parte attiva.
In che senso il pro­clama del gran gover­na­tore potrebbe avere impre­vi­sti effetti pro­gres­sivi? Nel senso che si tratta di un mani­fe­sto tal­mente radi­cale da favo­rire, almeno poten­zial­mente, una presa di coscienza gene­ra­liz­zata del pro­cesso in corso. Se un ele­mento ha sin qui age­vo­lato la regres­sione oli­gar­chica delle demo­cra­zie occi­den­tali, que­sto è stato il carat­tere infor­male o eso­te­rico di tra­sfor­ma­zioni rea­liz­za­tesi per aggiu­sta­menti sur­ret­tizi delle nor­ma­tive e della prassi oppure, nei pas­saggi topici, tra­mite la riscrit­tura dei Trat­tati. Ora la sor­tita di Dra­ghi potrebbe segnare un’inversione di ten­denza nel senso della pub­bli­ciz­za­zione del pro­cesso.
La por­tata delle con­se­guenze di quanto da lui auspi­cato della Bce è tale (gli Stati dovreb­bero in sostanza sba­rac­care, tra­sfor­marsi in strut­ture ammi­ni­stra­tive subor­di­nate e magari rinun­ciare ad appun­ta­menti elet­to­rali sem­pre più simili a vuoti rituali) che, in linea di prin­ci­pio, non si dovrebbe potere non discu­terne in sede pub­blica. Ma qui evi­den­te­mente casca l’asino, e diciamo subito che siamo più che sicuri del fatto che, nono­stante la loro enor­mità, le parole del pre­si­dente della Bce non susci­te­ranno alcun serio dibat­tito pub­blico. Non per­ché reste­ranno ina­scol­tate, tutt’altro. Esse raf­for­ze­ranno e acce­le­re­ranno dina­mi­che di accen­tra­mento della sovra­nità in capo alle tec­no­cra­zie euro­pee (e di spo­lia­zione dei corpi sociali). Ma ciò avverrà senza pro­vo­care alcun con­trac­colpo sul piano della con­sa­pe­vo­lezza, del giu­di­zio cri­tico e della prassi collettiva.
Niente su que­sto piano avverrà per il sem­plice fatto che l’opinione pub­blica si è pro­gres­si­va­mente rare­fatta sino a per­dere con­si­stenza e a coin­ci­dere di fatto con gli stessi poteri pri­vati che ne rap­pre­sen­tano il simu­la­cro sul ter­reno media­tico. Anche l’opinione pub­blica è stata pri­va­tiz­zata nell’arco degli ultimi decenni, di pari passo con il con­trollo sem­pre più effi­ciente degli «appa­rati ideo­lo­gici» da parte dei poten­tati finan­ziari (e con la rior­ga­niz­za­zione dell’elettorato dei grandi par­titi in set­tori d’opinione ete­ro­di­retti). In quest’arco di tempo si è veri­fi­cato un pro­cesso di spo­li­ti­ciz­za­zione della massa (è que­sta la verità dell’apparente rifiuto della poli­tica da parte dei corpi sociali) fun­zio­nale alla sua de-emancipazione. Un pro­cesso che resti­tui­sce attua­lità alla clas­sica rap­pre­sen­ta­zione della cit­ta­di­nanza come una «mol­ti­tu­dine bam­bina» biso­gnosa di tutori.
Da que­sto punto di vista anche le vicende poli­ti­che ita­liane di que­ste set­ti­mane rive­lano un pro­filo diverso da quello soli­ta­mente rile­vato. Abbiamo più volte insi­stito sul ritorno del segreto quale cifra carat­te­ri­stica dell’azione di governo, sul non casuale infit­tirsi dell’opacità intorno alle decisioni-chiave dei gruppi domi­nanti. Il pac­tum sce­le­ris siglato da Renzi e Ber­lu­sconi intorno a due car­dini dell’assetto demo­cra­tico del paese (la Costi­tu­zione e la legge elet­to­rale) è il sim­bolo più elo­quente di tale feno­meno. Ma è appunto solo un sim­bolo. All’insegna del segreto si dispiega ormai tutta l’azione dei governi post-democratici, a comin­ciare dalla gestione rea­zio­na­ria della crisi eco­no­mica a suon di misure fun­zio­nali alla redi­stri­bu­zione verso l’alto della ric­chezza sociale e alla siste­ma­tica distru­zione dei sistemi di tutela con­qui­stati dal movi­mento ope­raio in oltre 150 anni di lotte sanguinose.
Detto que­sto, non sta scritto da nes­suna parte che siamo obbli­gati a subire pas­si­va­mente e taci­ta­mente tale stato di cose. Pos­siamo, al con­tra­rio, e dob­biamo insor­gere per con­tra­starlo, comin­ciando col rites­sere tena­ce­mente la tela del pen­siero cri­tico allo scopo di gene­ra­liz­zare la con­sa­pe­vo­lezza dei pro­cessi in atto: di fare della coscienza di classe il primo e fon­da­men­tale bene comune. Ma per­ché ciò si veri­fi­chi appare indi­spen­sa­bile che, al di là degli sforzi indi­vi­duali di cia­scuno di noi, venga rico­sti­tuen­dosi final­mente una forza cri­tica in grado di farsi valere nella bat­ta­glia delle idee e di rag­giun­gere il più vasto udi­to­rio nel con­fronto politico-ideologico.
Il domi­nio oli­gar­chico della società per mezzo del segreto è pos­si­bile per­ché non vi è più — in Ita­lia da almeno vent’anni a que­sta parte — dia­let­tica poli­tica tra gli inte­ressi sociali fon­da­men­tali, per­ché l’interesse dei subal­terni è privo di voce, escluso dal con­flitto poli­tico. La lotta per la demo­cra­zia passa quindi neces­sa­ria­mente per la rico­stru­zione di una sog­get­ti­vità capace di far sì che la let­tura cri­tica della realtà ridi­venga patri­mo­nio comune del corpo sociale, e di ridare effi­ca­cia poli­tica al punto di vista della classe lavoratrice.

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