È uso comune che se vuoi nascondere un tranello in un contratto, il
sistema più efficace è affondarlo in un mare di commi, postille, note.
Ha fatto così il governatore della Campania Caldoro, prendendo di
sorpresa gli stralunati membri del consiglio che hanno votato a
maggioranza la riapertura dei termini del condono edilizio fino al 31
dicembre 2015, cancellando una serie di norme e vincoli sulle aree
protette, perfino quelle della costiera sorrentina e amalfitana, e
autorizzando aumenti di volumetrie anche nelle zone rosse, quelle a
rischio accertato del Vesuvio, qualora siano finalizzate, per uno
sconcertante ossimoro, “alla stabilità” e al risparmio energetico degli
edifici.
Il Pd ha abbandonato l’aula, ma c’è da sospettare che l’improvvisa
resipiscenza sia stata suscitata più da motivi elettorali che da nobili
intenti di tutela del territorio, a leggere la mappa di colate di
cemento che riserva a tutto il Bel Paese il decreto “sblocca Italia”,
crisantemo all’occhiello del governo e che finanzia un lungo elenco di
grandi opere, 31,6 miliardi per quattordici maxi interventi: l’Alta
Velocità Napoli-Bari, l’Alta Velocità Torino-Lione, l’Autostrada
Orte-Mestre, la Ferrovia Messina-Catania-Palermo, l’Autostrada
Valdastico Nord, le Infrastrutture dell’Aeroporto di Fiumicino, il
Passante autostradale di Bologna, l’aeroporto Cristoforo Colombo,
l’asse viario Lecco-Bergamo, il Collegamento ferroviario
Novara-Malpensa, il Quadruplicamento asse ferroviario Lucca-Pistoia,
l’autostrada tirrenica Civitavecchia Livorno. E quasi due miliardi per
14 opere minori.
Sono un sacco di quattrini, scritti sulla carta. Ma la maggior parte
dei finanziamenti, come rivendica Renzi, , sono “già conteggiati”: il
governo si impegnerebbe a stanziare risorse fresche ogni anno per le
grandi opere per circa 4,5 miliardi, e altri 3,7 (ma in 6 anni) saranno
destinati alle miriadi di piccoli e grandi cantieri aperti e fermi, così
che, come ha detto Lupi, il Paese rialzi la testa. E meglio che guardi
in alto in modo da non vedere cosa succede per terra, sui suoli,
nell’acqua, proprio in prossimità con il disastro di Refrontolo,
anticipato da un trailer molto esplicito a febbraio, che si convinca
dei benefici effetti di quella cartina di nuove autostrade più
sfrontata e ambiziosa della mappa di Berlusconi, altrettanto colorata e
probabilmente altrettanto senza copertura, pensata e promossa per dare
ossigeno solo virtuale all’illusione della crescita, sostegno concreto
alle cordate dei soliti noti, quelli dell’Expo, quelli del Mose, quelli
della Tav, anche grazie a semplificazioni, incentivi e sgravi fiscali
per rilanciare i loro investimenti, project bond e forme di
parternariato, di quelle che pendono sempre da una parte sola.
E dire che secondo l’Associazione Nazionale Costruttori, non
Legambiente o Italia Nostra, un piano nazionale per la messa in
sicurezza del territorio richiederebbe un investimento annuo di 1,2
miliardi diluito in vent’anni, che assorbirebbe manodopera, creerebbe
occupazione, garantirebbe salvaguardia e tutela. Ancora l’Ance in un
rapporto del 2012 denunciava che il 6,6% del territorio nazionale è in
frana, il 10% a elevato rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio
sismico. Che i costi della mancata manutenzione sono stati valutati in
3,5 miliardi di euro l’anno (senza contare i morti), che dal 1985 al
2011 si sono registrati oltre 15.000 eventi di dissesto, di cui 120
gravi, con 970 morti. E che prosegue il consumo dissipato di suolo,
regalandoci il primato in Europa, dove il consumo medio del suolo è del
2,8%, a fronte del 6,9% per il nostro Paese, circa otto metri quadrati
al secondo, per ciascun secondo degli ultimi cinque anni (e il
Lombardo-Veneto è al primo posto).
Eh si perché secondo tutti i governi che si sono susseguiti, è
sufficiente riaprire i cantieri e mettere in moto le betoniere per far
ripartire lo sviluppo. Una volta si ricorreva a guerre tradizionali che
prevedevano una festosa e profittevole ricostruzione, adesso la guerra è
di un tipo più moderno, è contro la qualità della vita di tutti, i beni
comuni, il paesaggio, la bellezza, la cultura, il lavoro e la
cittadinanza. E quindi anche contro la Costituzione: l’altro capitolo
aperto è quello del ddl a firma Lupi, che si sente più a suo agio con
Matteo che con Silvio, riguardante i principi in materia di politiche
pubbliche territoriali e trasformazione urbana. E che fin dal primo
articolo mette in chiaro contenuti e forme della grande riforma,
stabilendo chi conta, chi ha diritto, chi deve essere garantito. Beh,
sappiatelo, non siamo noi, a differenza di quello che postulava la
Carta, ormai vista come tabù da infrangere e ostacolo da rimuovere al
dispiegarsi del “fare”, laddove stabiliva vincoli e obblighi alla
proprietà privata in nome dell’utilità collettiva, sancendo il principio
della “funzione sociale” della proprietà.
Macché, probabilmente re Giorgio ci dirà che anche su questo i padri
costituenti si sono fatti prendere la mano dal populismo. Adesso ci si
deve muovere nel segno della crescita, del profitto, dell’egemonia
dell’iniziativa privata a dispetto di quella pubblica, le cui facoltà
sono limitate affinché non comporti disdicevoli riduzioni al valore
immobiliare dei terreni. E se l’articolo 1 conferisce ai proprietari il
diritto di iniziativa e di partecipazione nella pianificazione, al fine
di “garantire il valore della proprietà”, l’articolo 8 recita che il
governo del territorio deve essere regolato “in modo che sia assicurato
il riconoscimento e la garanzia della proprietà privata, la sua
appartenenza e il suo godimento”.
E così lo spazio pubblico diventa una geografia non identificabile,
in modo da essere ancora meno governata e tutelata, così secondo quello
che è stato definito un vero e proprio accanimento su dei morituri,
gli standard urbanistici, viene lasciata licenza di uccidere,
discrezionalità e arbitrarietà a ogni regione, così si mette un sigillo
sulla pianificazione comunale, esautorando l’ente locale delle funzioni
di programmazione, indirizzo, vigilanza e riducendo le competenze alla
mera attività di “ricognizione”. E finora non si è avuta notizia della
legittima opposizione dei sindaci a questo esproprio: sarà perché si
riconoscono tutti, marziani e non, nel partito del sindaco d’Italia,
che non ha nulla a che fare con gli italiani?
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