Il costo dell’operazione Mare Nostrum è stato di 115 milioni di euro,
così dicono le stime più realistiche. Un costo che, se a maggior
ragione fosse affrontato dall’Europa nel suo complesso, sarebbe una
goccia nel mare dei bilanci: 2 euro all’anno per ogni italiano, 20
cent per ogni europeo. Perché ci si indigna così tanto? Perché si
resiste così ottusamente "in alto", nelle Cancellerie europee? Ma
soprattutto perché si mugugna con rancore "in basso", nelle nostre
periferie in sofferenza?
Perché c’è un problema di povertà e di eguaglianza. Perché
i poveri italiani (ed europei) si sentono abbandonati e come
spesso capita nel mondo guasto in cui viviamo i poveri se la prendono
con chi è più povero di loro. Tanto più se l’unica voce “politica” che
parla loro è quella degli imprenditori politici dell’odio e del
rancore, che anziché risolvere i loro problemi li usano per
incassare voti.
Prima gli italiani è lo slogan della destra da anni:
prima si sistemano gli italiani, poi ci si occupa degli altri. Il
punto è però: chi si occupa dei poveri, di chi non ce la fa, di chi
è più esposto alla globalizzazione in tutte le sue forme? Quando si
propone il reddito minimo, quando ci si interroga sulla sede delle
decisioni, sulla regolamentazione del capitalismo finanziario
(pagano le tasse anche i poveri mentre le multinazionali possono
tranquillamente non farlo, per dirne una, come Roberto Saviano
scriveva su Repubblica del 21 aprile, dichiarando fallimentare il
semestre europeo guidato dall’Italia in relazione al tema del flusso
delle persone e dei capitali), proprio questo si intende affermare.
Se non c’è sostegno al reddito per chi vive in Italia,
anche le decine di euro destinate all’accoglienza dei profughi
sembrano eccessive, anche il salvataggio in mare di donne
e bambini diventa termine di paragone, al di là di ogni umanità.
Quando si tratta di cambiare la politica, a cominciare dalla
politica estera, si parla proprio di questo: del resto, non era
presentato Mare Nostrum come un fiore all’occhiello della politica
estera italiana? Non era certo il paradiso, ma almeno si moriva
di meno.
Perché nell’anno di Expo non si è insistito in quella direzione?
Perché non si fa guerra alla fame? Chiamare «schiavisti» gli
«scafisti» è certamente forte. Ma non preciso. Dà l’impressione che
col fare la guerra a loro si combatta la schiavitù. Anzi, la si
elimini. Ed è un imbroglio. Perché eliminare la schiavitù
significa “liberare gli schiavi”. Ed eliminati gli scafisti con le
loro carrette del mare, quegli uomini e quelle donne che, disperati,
sono disposti a tutto pur di attraversare il mare, non saranno
liberi. Saranno più disperati e più schiavi di prima. Schiavi della
guerra, della fame, della morte.
Cancellare il mezzo e chi lo adotta in modo criminale non risolve quella
volontà e le ragioni che li portano a sottoporsi alla violenza.
A ben guardare, chi assiste quasi impassibile siamo proprio noi.
Sono i nostri governi. Le facce di pietra che dopo qualche secondo di
cordoglio, appena il tempo di un comunicato stampa, poi,
a Bruxelles, di fronte a una tragedia immane, non sanno far altro
che mettere mano alla pistola, e in misura infima al portafoglio
(sulla coscienza mai), programmando azioni militari che, a detta di
chiunque un poco se ne intenda, sono pura idiozia. Quando l’unica
soluzione sarebbe l’apertura di corridoi umanitari, come accade per
ogni catastrofe bellica.
Si presentano come novelli Lincoln, ma chi non
affronta il problema sono proprio i cultori di una politica
dell’egoismo e dell’autoreferenzialità, sono i sacerdoti di
un’austerità che depreda in basso e accumula ricchezza in alto.
I custodi di un dogma fallito che riduce in povertà persone e popoli
(la Grecia insegna).
Rompere con quella logica è un impegno etico e politico. Per
farlo, però, dobbiamo pensare ai profughi in mare e ai profughi
sociali, buttati fuori dalla barca del lavoro e del reddito, in un
mare di precarietà. Nello stesso momento. Ora.
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