martedì 21 aprile 2015

Epurazione democratica

 
di Andrea Fabozzi

Una sosti­tu­zione su larga scala, una cosa mai vista. Il richiamo all’ordine di mag­gio­ranza col­pi­sce quasi la metà dei rap­pre­sen­tanti del Pd in prima com­mis­sione alla camera, ma il gruppo diri­gente ren­ziano lo pre­senta come nor­male ammi­ni­stra­zione: "Era già stato deciso", "sono loro che non se la sen­tono", "in com­mis­sione si sta per seguire la linea del gruppo". E così sono dieci i depu­tati del par­tito demo­cra­tico ai quali viene chie­sto di togliere il disturbo dalla com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali. Altri­menti avreb­bero votato con­tro la nuova legge elet­to­rale, con­tro il man­dato ai rela­tori o almeno a favore degli emen­da­menti che, con il soste­gno delle oppo­si­zioni, sareb­bero cer­ta­mente stati approvati.
La sosti­tu­zione fa a pugni con il divieto di man­dato impe­ra­tivo pre­vi­sto dalla Costi­tu­zione (arti­colo 67), eppure si sono già sen­tite spe­ri­co­late teo­rie in base alle quali il diritto alla libertà di giu­di­zio del par­la­men­tare sarebbe garan­tito solo in aula e non in com­mis­sione. Lo si era sen­tito l’anno scorso al senato, quando il Pd aveva pro­ce­duto ad ana­loga sosti­tu­zione, ma di un solo sena­tore con­tra­rio alla riforma costi­tu­zio­nale. Una deci­sione che pro­vocò l’ammutinamento di altri 14 sena­tori Pd, poi con­vinti a rien­trare dopo la pro­messa del capo­gruppo che — per carità — non si stava intro­du­cendo il vin­colo di man­dato. Ieri sera la seconda pun­tata, che visti i numeri pre­vede anche un secondo tempo assai elo­quente: prima di prov­ve­dere alle sosti­tu­zioni il vice­ca­po­gruppo Rosato (il tito­lare Spe­ranza è dimis­sio­na­rio) ottiene dai suben­tranti l’assicurazione che obbe­di­ranno alla linea del gruppo. Cioè del governo. Cioè di Renzi.
Così sele­zio­nato, il gruppo del Pd mar­cerà com­patto verso la boc­cia­tura di tutti i 97 emen­da­menti, anche di quelli più insi­diosi che vedreb­bero la con­ver­genza di tutte le mino­ranze e le oppo­si­zioni. Si tratta di tre o quat­tro pro­po­ste di modi­fica con­di­vise da sini­stra Pd, Sel, 5 Stelle e in qual­che caso anche Forza Ita­lia, Lega e poten­zial­mente per­sino di Scelta civica, il cui pic­colo gruppo resi­duo attra­versa una fase di fred­dezza con il governo. La pos­si­bi­lità di appa­ren­ta­mento tra primo e secondo turno, la pre­vi­sione di una soglia minima di par­te­ci­panti al bal­lot­tag­gio per asse­gnare il pre­mio di mag­gio­ranza, la dimi­nu­zione della quota dei "nomi­nati" e il con­te­stuale aumento degli eletti in base alle pre­fe­renze e infine la ridu­zione delle plu­ri­can­di­da­ture ammesse.
L’approvazione anche di una sola di que­ste modi­fi­che ripor­te­rebbe la legge elet­to­rale davanti al senato. Per evi­tarlo, Renzi ha scelto di col­pire duro la sua mino­ranza. E così si è avviato verso un pos­si­bile voto di fidu­cia che potrebbe ser­vire a evi­tare rischi in aula pro­prio sugli emen­da­menti. Ma nean­che il capo del governo potrà evi­tare il voto segreto finale sulla legge. E a quel punto potrebbe aver biso­gno del soste­gno non dichia­rato di una parte del gruppo di Forza Italia.
La rea­zione dei depu­tati di mino­ranza sosti­tuiti ieri sera è piut­to­sto con­te­nuta. Alcuni, come Ber­sani e Cuperlo, ave­vano già espresso la dispo­ni­bi­lità, per quanto pole­mica, a farsi da parte. Altri come Pol­la­strini rico­no­scono il diritto della mag­gio­ranza di imporre la linea. Un po’ tutti si tol­gono un peso, e rin­viano ancora la bat­ta­glia in aula. Nes­suno fa resi­stenza, con un richiamo agli organi di par­tito o a quelli della camera. Eppure la fac­cenda lo meri­te­rebbe, visto che sta­bi­li­sce un pre­ce­dente e in pra­tica can­cella il diritto al dis­senso in com­mis­sione. Nes­suno chiama in causa la giunta per il rego­la­mento, magari per far notare che nel testo dell’articolo 19 si parla della pos­si­bi­lità di sosti­tuire "un com­mis­sa­rio con un altro di diversa com­mis­sione", non dieci.
E i dieci nuovi desi­gnati del Pd faranno oggi pome­rig­gio il loro esor­dio in com­mis­sione accanto ai tre­dici che hanno giu­rato fedeltà al governo. Cin­que stelle, Sel e Forza Ita­lia pro­ve­ranno a bloc­care i lavori. "È inu­tile par­te­ci­pare alla farsa", dice il gril­lino Toni­nelli. "Tutto è già deciso, il par­la­mento non conta più nulla, a que­sto punto ogni stru­mento è lecito con­tro que­sto strappo alla demo­cra­zia", aggiunge il ven­do­liano Qua­ranta. Ritiro degli emen­da­menti, ostru­zio­ni­smo, Aven­tino, appello a Mat­ta­rella. Tutto già visto, nella mar­cia delle riforme.

"È solo una formalità". Così Renzi inizia lo strappo

 
di Daniela Preziosi
Ci è voluto poco, quasi niente, giu­sto il tempo di una comu­ni­ca­zione ed è par­tita ’l’operazione epu­ra­zione’, quella con cui Mat­teo Renzi accetta di met­tere a rischio la tenuta del Pd. È ini­ziata uffi­cial­mente ieri sera, si con­clu­derà con ogni pro­ba­bi­lità con il voto di fidu­cia sull’Italicum, che un grup­petto di dem non voterà, rischiando di met­tersi fuori dal partito.
Ieri sera Ettore Rosato, vice­ca­po­gruppo vica­rio del Pd della camera e di fatto già capo­gruppo al posto del dimis­sio­na­rio Roberto Spe­ranza, ha con­vo­cato l’ufficio di pre­si­denza del gruppo Pd alla camera e ha tenuto un breve discor­setto. Tanto gli è bastato per sosti­tuire d’emblée ben dieci com­po­nenti della com­mis­sione affari costi­tu­zio­nali di Mon­te­ci­to­rio che già da oggi comin­cerà a votare l’Italicum. Incre­di­bil­mente, ma anche pro­vo­ca­to­ria­mente, la fac­cenda è stata sbri­gata come un banale esple­ta­mento di for­ma­lità.
E invece è un caso che, almeno in que­ste dimen­sioni, non ha pre­ce­denti nella sto­ria par­la­men­tare recente. Una figu­rac­cia , una palese con­trad­di­zione per il Renzi che ha sem­pre giu­rato di non voler fare for­za­ture disci­pli­nari. Che però sta­volta ha pre­fe­rito di gran lunga alla pos­si­bi­lità che il testo dell’Italicum venisse modi­fi­cato in com­mis­sione per poi dover essere ’ricor­retto’ in aula attra­verso qual­che voto segreto. Che, rac­con­tano i suoi, sarà un terno a lotto e comin­cia a far­gli paura. Per que­sta ragione, giu­rano sta­volta i suoi avver­sari interni, ormai ha deciso: sull’Italicum si abbat­terà il voto di fidu­cia, e poco importa se il pre­ce­dente par­la­men­tare è nien­te­meno che la legge truffa del ’53.
Le pole­mi­che per quest’ultimo atto di impe­rio non tar­de­ranno. Ieri sera Rosato ha spie­gato che si trat­tava ’solo’ di dare ese­cu­zione di un man­dato dell’assemblea dei depu­tati, quella dello scorso 15 aprile. Dove, forse un po’ pre­ma­tu­ra­mente, Gianni Cuperlo aveva espresso la sua leale dispo­ni­bi­lità ad essere sosti­tuito in com­mis­sione in quanto ’fuori linea’: una ragio­ne­vole ’non resi­stenza’, la sua. Il dispo­si­tivo appro­vato alla fine del dibat­tito (la rela­zione del segre­ta­rio, 190 sì su 310, le mino­ranze non hanno par­te­ci­pato al voto) pre­ve­deva la veri­fica dei numeri in com­mis­sione. Su 23 dem, una doz­zina erano della mino­ranza, e som­mati con le altre mino­ranze avreb­bero fatto una mag­gio­ranza anti-renziana.
Morale: ieri l’ufficio di pre­si­denza non ha nean­che votato, ha solo preso atto che i dis­sen­zienti non si sono dimessi spon­ta­nea­mente (Alfredo D’Attorre anzi aveva annun­ciato bat­ta­glia) e ha prov­ve­duto a sosti­tuirli «rela­ti­va­mente al voto della legge elet­to­rale». A quelli della mino­ranza pre­senti non è rima­sto che tra­se­co­lare, spie­gare l’evidenza che «non si tratta di un pas­sag­gio indo­lore», poi incas­sare la sconfitta.
Fra i dieci rimossi ci sono le colonne del Pd pre-renziano: Ber­sani, Cuperlo, Rosy Bindi. E poi Andrea Gior­gis, Enzo Lat­tuca, Alfredo D’Attorre, Bar­bara Pol­la­strini, Mari­lena Fab­bri, Roberta Ago­stini e infine il gio­vane Marco Meloni, l’ultimo let­tiano in par­la­mento. Giu­seppe Lau­ri­cella, puree della mino­ranza, resta al suo posto: ha annun­ciato che si ’ade­guerà’ agli ordini di scu­de­ria. Si tratta di una sosti­tu­zione ad hoc: i dieci potranno restare in com­mis­sione fin­ché verrà esa­mi­nato il Def. Poi, all’arrivo dell’Italicum sul tavolo, dovranno fare la car­tella dove ripor­ranno gli 11 emen­da­menti pre­sen­tati — che così sal­tano — e andare fuori dalla porta, come sco­lari poco diligenti.
Alla riu­nione erano assenti Roberto Spe­ranza, dimis­sio­na­rio e ormai senza alcuna spe­ranza di rien­trare nel suo ruolo, e anche Bar­bara Pol­la­strini, che fa parte dell’ufficio di pre­si­denza ma anche della prima com­mis­sione, e quindi ha rite­nuto più ele­gante non par­te­ci­pare a una discus­sione che l’avrebbe riguar­data per­so­nal­mente. Di «strappo» aveva par­lato Cuperlo a pro­po­sito della pos­si­bile fidu­cia. Lo «strappo» nel Pd è ini­ziato, è Renzi ad aver dato il via

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