di Andrea Fabozzi
Una sostituzione su larga scala, una cosa mai vista.
Il richiamo all’ordine di maggioranza colpisce quasi la metà dei
rappresentanti del Pd in prima commissione alla camera, ma il
gruppo dirigente renziano lo presenta come normale
amministrazione: "Era già stato deciso", "sono loro che non se la
sentono", "in commissione si sta per seguire la linea del gruppo".
E così sono dieci i deputati del partito democratico ai quali viene
chiesto di togliere il disturbo dalla commissione affari
costituzionali. Altrimenti avrebbero votato contro la nuova legge
elettorale, contro il mandato ai relatori o almeno a favore degli
emendamenti che, con il sostegno delle opposizioni, sarebbero
certamente stati approvati.
La sostituzione fa a pugni con il divieto di mandato imperativo previsto dalla Costituzione
(articolo 67), eppure si sono già sentite spericolate teorie in
base alle quali il diritto alla libertà di giudizio del
parlamentare sarebbe garantito solo in aula e non in commissione.
Lo si era sentito l’anno scorso al senato, quando il Pd aveva
proceduto ad analoga sostituzione, ma di un solo senatore
contrario alla riforma costituzionale. Una decisione che provocò
l’ammutinamento di altri 14 senatori Pd, poi convinti a rientrare
dopo la promessa del capogruppo che — per carità — non si stava
introducendo il vincolo di mandato. Ieri sera la seconda puntata,
che visti i numeri prevede anche un secondo tempo assai eloquente:
prima di provvedere alle sostituzioni il vicecapogruppo Rosato
(il titolare Speranza è dimissionario) ottiene dai subentranti
l’assicurazione che obbediranno alla linea del gruppo. Cioè del
governo. Cioè di Renzi.
Così selezionato, il gruppo del Pd marcerà compatto verso la bocciatura di tutti i 97 emendamenti,
anche di quelli più insidiosi che vedrebbero la convergenza di
tutte le minoranze e le opposizioni. Si tratta di tre o quattro
proposte di modifica condivise da sinistra Pd, Sel, 5 Stelle e in
qualche caso anche Forza Italia, Lega e potenzialmente persino di
Scelta civica, il cui piccolo gruppo residuo attraversa una fase di
freddezza con il governo. La possibilità di apparentamento tra
primo e secondo turno, la previsione di una soglia minima di
partecipanti al ballottaggio per assegnare il premio di
maggioranza, la diminuzione della quota dei "nominati" e il
contestuale aumento degli eletti in base alle preferenze e infine la
riduzione delle pluricandidature ammesse.
L’approvazione anche di una sola di queste modifiche riporterebbe la legge elettorale davanti al senato.
Per evitarlo, Renzi ha scelto di colpire duro la sua minoranza.
E così si è avviato verso un possibile voto di fiducia che potrebbe
servire a evitare rischi in aula proprio sugli emendamenti. Ma
neanche il capo del governo potrà evitare il voto segreto finale sulla
legge. E a quel punto potrebbe aver bisogno del sostegno non
dichiarato di una parte del gruppo di Forza Italia.
La reazione dei deputati di minoranza sostituiti ieri sera è piuttosto contenuta.
Alcuni, come Bersani e Cuperlo, avevano già espresso la
disponibilità, per quanto polemica, a farsi da parte. Altri come
Pollastrini riconoscono il diritto della maggioranza di imporre la
linea. Un po’ tutti si tolgono un peso, e rinviano ancora la
battaglia in aula. Nessuno fa resistenza, con un richiamo agli
organi di partito o a quelli della camera. Eppure la faccenda lo
meriterebbe, visto che stabilisce un precedente e in pratica
cancella il diritto al dissenso in commissione. Nessuno chiama in
causa la giunta per il regolamento, magari per far notare che nel
testo dell’articolo 19 si parla della possibilità di sostituire "un
commissario con un altro di diversa commissione", non dieci.
E i dieci nuovi designati del Pd faranno oggi pomeriggio il loro esordio in commissione
accanto ai tredici che hanno giurato fedeltà al governo. Cinque
stelle, Sel e Forza Italia proveranno a bloccare i lavori. "È
inutile partecipare alla farsa", dice il grillino Toninelli.
"Tutto è già deciso, il parlamento non conta più nulla, a questo
punto ogni strumento è lecito contro questo strappo alla
democrazia", aggiunge il vendoliano Quaranta. Ritiro degli
emendamenti, ostruzionismo, Aventino, appello a Mattarella.
Tutto già visto, nella marcia delle riforme.
"È solo una formalità". Così Renzi inizia lo strappo
di Daniela Preziosi
Ci è voluto poco, quasi niente, giusto il tempo di una comunicazione ed è partita ’l’operazione epurazione’,
quella con cui Matteo Renzi accetta di mettere a rischio la tenuta
del Pd. È iniziata ufficialmente ieri sera, si concluderà con ogni
probabilità con il voto di fiducia sull’Italicum, che un gruppetto
di dem non voterà, rischiando di mettersi fuori dal partito.
Ieri sera Ettore Rosato, vicecapogruppo vicario del Pd della camera e di
fatto già capogruppo al posto del dimissionario Roberto Speranza,
ha convocato l’ufficio di presidenza del gruppo Pd alla camera e ha
tenuto un breve discorsetto. Tanto gli è bastato per sostituire
d’emblée ben dieci componenti della commissione affari
costituzionali di Montecitorio che già da oggi comincerà
a votare l’Italicum. Incredibilmente, ma anche
provocatoriamente, la faccenda è stata sbrigata come un banale
espletamento di formalità.
E invece è un caso che, almeno in queste dimensioni, non ha precedenti nella storia parlamentare recente.
Una figuraccia , una palese contraddizione per il Renzi che ha
sempre giurato di non voler fare forzature disciplinari. Che però
stavolta ha preferito di gran lunga alla possibilità che il testo
dell’Italicum venisse modificato in commissione per poi dover essere
’ricorretto’ in aula attraverso qualche voto segreto. Che,
raccontano i suoi, sarà un terno a lotto e comincia a fargli paura.
Per questa ragione, giurano stavolta i suoi avversari interni, ormai
ha deciso: sull’Italicum si abbatterà il voto di fiducia, e poco
importa se il precedente parlamentare è nientemeno che la legge
truffa del ’53.
Le polemiche per quest’ultimo atto di imperio non tarderanno.
Ieri sera Rosato ha spiegato che si trattava ’solo’ di dare
esecuzione di un mandato dell’assemblea dei deputati, quella dello
scorso 15 aprile. Dove, forse un po’ prematuramente, Gianni Cuperlo
aveva espresso la sua leale disponibilità ad essere sostituito in
commissione in quanto ’fuori linea’: una ragionevole ’non
resistenza’, la sua. Il dispositivo approvato alla fine del
dibattito (la relazione del segretario, 190 sì su 310, le minoranze
non hanno partecipato al voto) prevedeva la verifica dei numeri
in commissione. Su 23 dem, una dozzina erano della minoranza,
e sommati con le altre minoranze avrebbero fatto una maggioranza
anti-renziana.
Morale: ieri l’ufficio di presidenza non ha neanche votato,
ha solo preso atto che i dissenzienti non si sono dimessi
spontaneamente (Alfredo D’Attorre anzi aveva annunciato battaglia)
e ha provveduto a sostituirli «relativamente al voto della legge
elettorale». A quelli della minoranza presenti non è rimasto che
trasecolare, spiegare l’evidenza che «non si tratta di un
passaggio indolore», poi incassare la sconfitta.
Fra i dieci rimossi ci sono le colonne del Pd pre-renziano: Bersani, Cuperlo, Rosy Bindi.
E poi Andrea Giorgis, Enzo Lattuca, Alfredo D’Attorre, Barbara
Pollastrini, Marilena Fabbri, Roberta Agostini e infine il giovane
Marco Meloni, l’ultimo lettiano in parlamento. Giuseppe
Lauricella, puree della minoranza, resta al suo posto: ha annunciato
che si ’adeguerà’ agli ordini di scuderia. Si tratta di una
sostituzione ad hoc: i dieci potranno restare in commissione finché
verrà esaminato il Def. Poi, all’arrivo dell’Italicum sul tavolo,
dovranno fare la cartella dove riporranno gli 11 emendamenti
presentati — che così saltano — e andare fuori dalla porta, come
scolari poco diligenti.
Alla riunione erano assenti Roberto Speranza, dimissionario
e ormai senza alcuna speranza di rientrare nel suo ruolo, e anche
Barbara Pollastrini, che fa parte dell’ufficio di presidenza ma
anche della prima commissione, e quindi ha ritenuto più elegante non
partecipare a una discussione che l’avrebbe riguardata
personalmente. Di «strappo» aveva parlato Cuperlo a proposito
della possibile fiducia. Lo «strappo» nel Pd è iniziato, è Renzi ad
aver dato il via
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