Dopo l’incostituzionalità del Porcellum, di fronte a una nuova legge
elettorale con gli antichi vizi, tocca al Quirinale ripristinare le
condizioni di un confronto democratico.
Può un paese, che ha appena ricevuto la condanna della corte di Strasburgo
, permettersi di giocare sulle delicate materie elettorali
e costituzionali affidandosi alla giuliva esuberanza di Boschi
e di Renzi, che scommettono sull’adozione in ogni angolo del
continente delle loro splendide riforme illiberali?
Per ora l’Europa, nel campo del diritto
pubblico, ha ricevuto dalla politica italiana solo la
riesumazione della tortura di Stato, la fioritura delle leggi ad personam
, la comparsa della giustizia penale con ben scolpito un volto di
classe. Un’ennesima legge elettorale di segno illiberale e completo
sarebbe il quadro della deriva dell’ordinamento.
Al posto di tante chiacchiere di
ministri e relatori incompetenti chiamati a redigere le nuove
norme per il voto, il parlamento dovrebbe confezionare una legge
elettorale non sulla base dei sogni di successo del leader attuale,
ma avendo un qualche disegno di sistema. I calcoli di intascare una
vittoria certa, manovrando a piacimento le tecniche elettorali,
peraltro non portano bene.
Ne fece le spese già un De Gasperi
minore, che pagò la forzatura illiberale della legge truffa (premio
del 65 per cento dei seggi al “polipartito” coalizzato) con una
sconfitta, che accelerò il tramonto di un leader.
In nome della democrazia protetta
e dello Stato forte, aveva sospinto il paese nelle incertezze di un
conflitto radicale (clima di stato d’assedio a Roma, incidenti alla
camera, Ingrao fu manganellato dalla celere
, i deputati d’opposizione abbandonarono l’aula cantando l’inno
della repubblica). E anche la strana coppia Occhetto-Segni, che aveva
ottenuto il permesso di scrivere la nuova legge elettorale sotto
dettatura referendaria, uscì di scena con le prime consultazioni
maggioritarie. All’ingegneria elettorale di Calderoli non andò
meglio.
Una democrazia malata che scrive tre
leggi elettorali in vent’anni, e che da dieci lustri convive con una
formula giudicata dalla Consulta incostituzionale, dovrebbe
muoversi con ben altra responsabilità e cultura delle regole.
Il tempo per un consenso allargato del
parlamento dovrebbe essere un imperativo irrinunciabile.
E invece il mestiere delle riforme è appaltato a politici
dell’improvvisazione che pretendono, con il 25 per cento dei voti, di
imporre ad ogni costo, al restante 70 per cento, la regola del gioco
fondamentale, quella elettorale escogitata per vincere.
Qualche solerte giurista all’odor di
regime incoraggia il premier ad affrontare lo scontro in campo
aperto, non esitando a ricorrere al voto di fiducia, che sarebbe un
passaggio legittimato dal precedente della legge truffa, quando
peraltro il parlamento aveva altri regolamenti. E’ vero che De
Gasperi in aula pose la questione di fiducia ma, con il suo gesto (si
appellò a «impellenti ragioni di calendario» e a «circostanze
straordinarie»), provocò una crisi istituzionale lacerante, che
nessuno statista lungimirante può permettersi di scatenare. Lo
stesso presidente del consiglio riconobbe che «la fiducia su un
disegno di legge non appartiene alla procedura usuale». Il
presidente del senato Paratore lo interruppe scandendo: «e non
costituisce precedente!».
Colpito dalle accuse del governo, in
merito ai suoi sforzi di mediazione, e anche ai suoi cenni di apertura
all’ipotesi di un referendum ventilata da Togliatti (si avviò la
raccolta di 500 mila firme per la richiesta del referendum, da
abbinare alle elezioni politiche con la scelta affidata agli
elettori tra l’attribuzione dei seggi secondo la nuova o la vecchia
legge), Paratore rassegnò le dimissioni.
Secondo il governo d’allora, il senato
avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto della legge che riguardava
solo le modalità di elezione della camera dei deputati. Ma, come
rammentò Umberto Terracini, i precedenti storici smentivano la
fretta del governo. Nel 1881–82 il senato non solo discusse i ritocchi
alla legge elettorale ma votò emendamenti di cui fu tenuto conto. Le
opposizioni si scagliarono contro la pretesa dell’esecutivo
centrista di stabilire una data per l’approvazione del testo.
Il senso illiberale della legge
truffa, disegnata per arginare quelli che Scelba chiamava «i
massicci partiti totalitari», lo colse in pieno il giurista
Vittorio Emanuele Orlando che stigmatizzò un’arbitraria
propensione del potere in carica, quella di inventare le nuove regole
a ridosso delle consultazioni elettorali (il progetto di legge fu
presentato solo il 21 ottobre del 1952, con elezioni previste
nella primavera del 1953), che purtroppo farà scuola. In una lettera
Orlando ammonì: «Considero come disonesta ogni legge elettorale
che sia precedente immediatamente le elezioni». E aggiunse: «Ora
siccome il governo attuale vuole questo atto disonesto, precede la
mia ribellione su questo punto».
I riscontri storici mostrano che non
può esserci il sospetto, in un sistema democratico appena decente, di
scrivere le regole “disoneste” della contesa sull’abito delle
convenienze del detentore congiunturale del potere.
Le riforme, soprattutto se varate da un
parlamento illegittimo quanto alla sua composizione alterata
dal premio di maggioranza, non si definiscono seguendo le sirene
del trionfo annunciato ma ipotizzando anche argini alla banalità del
male. In un sistema tripolare, con partiti liquidi e forze
a vocazione antisistema, è segno di pura incoscienza contemplare
la possibilità che dal ballottaggio esca con i galloni del
comando una formazione con il 20 per cento o anche meno dei consensi.
Nell’attuale sistema tutto si è sciolto
e non esistono le condizioni reali per una competizione bipolare.
Per questo la trovata del ballottaggio di lista perde
ragionevolezza, efficacia. Lo scivolamento plebiscitario del
Pd, che invoca i presunti mandati imperativi scaturiti dai
gazebo, rivela un deterioramento del quadro istituzionale.
Costituisce «un pensiero aberrante»,
ha scritto Gianfranco Pasquino, l’idea di invocare la disciplina
parlamentare sulle riforme, come hanno fatto Renzi, Boschi, persino
i giovani turchi. «La disciplina di partito –spiega Pasquino– può
essere richiesta ai parlamentari esclusivamente sulle materie
inserite nel programma che il loro partito ha sottoposto agli
elettori».
Se non una deriva autoritaria, un
grave clima di degenerazione dello spirito costituzionale è già
operante. Non c’è specialista di sistemi elettorali che non abbia
mostrato i limiti strutturali dell’Italicum. Anche tra i giuristi
non ostili verso il riformismo di Renzi si riconosce che l’Italicum
«è molto simile al Porcellum» e non supera «le obiezioni
sostanziali» mosse dalla Consulta, che anzi nel quadro
tripartitico «risultano forse aggravate» (A. Marrone, “Il Mulino”,
2014 n. 4, p. 555).
Senza partiti funzionanti, in grado
cioè di censurare il leader, di sfidarlo alla pari e di non essere
dei passivi nominati agli ordini di chi ha lo scettro, l’Italicum
oscilla tra cadute assembleari e velleità cesaristiche.
All’elezione diretta del capo di governo, il congegno aggiunge anche
il controllo del 55 per cento della camera delineando così un
premierato illimitato. Una postmoderna repubblica delle banane
con la leadership creata dai salotti della tv.
In questo quadro, è indispensabile
la vigilanza critica del Colle, che dovrebbe essere allertato dal
costoso precedente della mancata censura preventiva che nel 2006
consegnò il Porcellum viziato dai guasti illiberali denunciati
dalla Consulta.
Non si tratta della consueta arte di tirare per la giacca il presidente coinvolgendolo nel gioco politico.
E’ invece l’attesa della rigorosa
copertura del ruolo tracciato dalla Carta e che implica l’esercizio
del rinvio per regole che emanano il solo dubbio di
incostituzionalità. Dinanzi alla volontà di potenza di un partito
(diviso) del 25 per cento, che ripropone una legge con antichi vizi
(nessuna soglia è prevista per l’accesso al ballottaggio), tocca
al Quirinale ripristinare le condizioni minimali di un confronto
democratico così gravemente alterato.
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