L'ideologia è una pessima idea. Specie quando si devono affrontare dai statistici, che in economia e sociologia sostituiscono (troppo) spesso quelli scientifici.
Una prova arriva da IlSole24Ore, organo
di Confindustria, che riesce a mettere insieme un'operazione
giornalistica meritoria – un dossier sulla ricerca pubblicata dalla
Fondazione Hume – e moltra (troppa) ideologia liberista, con un
divertente effetto “arrampicata sugli specchi”.
Il tema della ricerca è la diffusione delle diseguaglianze
sociali nel mondo. E i dati della fondazione sono di lettura abbastanza
semplice: c'è stata una riduzione delle diseguaglianze se si parla del
pianeta come un tutto, sono aumentate nei paesi più avanzati, dove la
riconquista dell'egemonia liberale – dopo la stagione delle conquiste di
diritti, salario e welfare degli anni '60 e '70, quando Margaret
Thatcher e Ronald Reagan emersero come i campioni della restaurazione -
ha prodotto una compressione violenta e costante dei livelli di vita e
benessere delle classi popolari. Dal 1982 fino ad oggi.
Ma
così va un po' dappertutto. Da dove arriva dunque la riduzione della
media complessiva? Quasi soltanto dalla Cina, il cui peso specifico
nell'economia globale è andata aumentando a passo di carica pur mettendo
in atto una redistribuzione interna del reddito (aumentata negli ultimi
anni) tale da diminuire in modo significativo le disparità, anche in
presenza di un numero crescente di multimiliardari. Un aiuto è arrivato
anche dall'America Latina, dove l'alleanza dell'Alba ha permesso alla
quasi totalità dei paesi (meno Colombia, Perù e Cile) di gestire in modo
più equilibrato e giusto le proprie risorse, preoccupandosi un po' di
più delle rispettive popolazioni e un po' meno dei profitti per le
multinazionali.
Un'altra
parte rilevante della ricerca riguarda il ruolo delle diseguaglianze
sulla crescita economica. L'ideologia liberista predica che le
diseguaglianze spingono a “competere”, quindi ad aumentare i livelli di
produttività e dunque anche l'aumento della ricchezza prodotta. Gli
studi più attenti (addirittura del Fondo Monetario Internazionale)
raccontano però il contrario: là dove le diguaglianze sono cresciute
(come nei paesi avanzati) la crescita si è bloccata. Anche un asino in
materia economica capisce che l'abbassamento dei redditi per la
maggioranza della popolazione si traduce in compressione dei consumi,
quindi del mercato interno e – visto il peso delle economie avanzate –
anche di quello globale.
L'intreccio
strutturale tra crescita dei profitti e aumento delle diseguglianze
dipende insomma non solo dalle tendenze immanenti del capitale (ovunque
nel mondo il modo di produzione
è fondamentalmente capitalistico), ma anche dalle politiche economiche
elaborate nelle diverse aree. E là dove si lavora per ridurle in effetti
ci si riesce e si migliorano persino le “prestazioni economiche”. A
scapito di qualche quota di profitto privato.
Ma
è una conclusione troppo distante dall'ideologia che sostiene la
necessità di “riforme strutturali” (taglio della spesa pubblica, quindi
di welfare, sanità, pensioni, salari, nonché eliminazione delle tutele
per i lavoratori dipendenti) per far ripartire la crescita. Ovvero il
racconto “al metadone” (definizione addirittura di Enrico Letta) che ci fanno quotidianamente tutti i media per conto di Renzi, Unione Europea e Confindustria.
Perciò
un ignoto caporedattore ha pensato bene di titolare “La leggenda delle
diseguaglianze crescenti” un articolo assai più problematico di Luca
Ricolfi, in modo da suscitare nel lettore medio – quello che scorre i
titoli, ma solo raramente si legge anche il pezzo – uno slogan da
ricordare, provando fastidio istintivo,
quando sentirà qualcuno parlare di necessità di ridurre le
diseguaglianze e abbandonare le poliiche di austerità (in questa parte
del pianeta).
Un giornale vende informazione. Ma anche ideologia. E pochi lo sanno meglio di direttori e caporedattori.
Di seguito, gli articoli più interessanti del dossier de IlSole24Ore. Le evidenziazioni in grassetto sono nostre.
*****
Un pianeta un po' più «uguale»
di Riccardo Sorrentino | 26 aprile 2015
Più
diseguali, e più eguali. Il dibattito sulla diseguaglianza è esploso
l'anno scorso, con la pubblicazione del libro Il capitale nel XXI secolo
di Thomas Picketty, secondo il quale il rendimento del capitale,
maggiore della crescita economica in assenza di interventi statali, è il
motore della diseguaglianza nell'economia moderna. È però almeno da
inizio secolo che se ne parla: da quando il Fondo monetario
internazionale ha iniziato a esaminare prima i dati sulla distribuzione
del reddito poi gli effetti della diseguaglianza sulla crescita.
Con
la Grande recessione, hanno fatto discutere molto le tesi di Raghuram
Rajan, affidate al libro Terremoti finanziari: secondo l'ex capo
economista dell'Fmi, oggi governatore della Reserve Bank of India, la
politica, di qualunque orientamento, avrebbe affrontato i problemi della
diseguaglianza non più attraverso le tasse ma attraverso gli incentivi
al mercato immobiliare. La crisi – sosteneva Rajan – è nata nel settore
dei mutui subprime, destinati a persone prive di garanzie, che sono
stati sostenuti da agenzie statali e incentivati da 700 interventi
legislativi. Questo dibattito ha solo lentamente scalfito un comune
sentire – un classico uso ideologico di risultati scientifici – che
sottolineava alcune evidenze. Innanzitutto l'inevitabilità di un certo
livello di diseguaglianza: i lavoratori più anziani guadagnano più dei
giovani e questo rende difficile capire quando la diseguaglianza diventa
eccessiva; poi il peso che le politiche “egualitarie” – in genere
basate su imposte – hanno sulla crescita.
Da
un punto di vista politico, se ne deduceva l'irrilevanza del tema della
diseguaglianza purché fosse assicurata la mobilità sociale. In un
sistema sociale ed economico che permette l'”ascesa” dei meritevoli, la
diseguaglianza è l'incentivo giusto: è tornato a parlarne proprio nei
giorni scorsi Tyler Cowen, direttore del Mercatus Center della George
Mason University. Due presupposti di questa argomentazione sono però
saltati. La diseguaglianza in sé – hanno dimostrato gli economisti dell'Fmi – è un freno alla crescita, se eccessiva. La mobilità sociale, inoltre, si riduce sempre più.
Alcuni paesi, come l'Italia, sembrano bloccati, ma anche negli Stati
Uniti, il Paese delle opportunità, si teme sia calata, e sicuramente non
è aumentata). L'intero dibattito si inserisce in quello, parallelo,
sulla globalizzazione: il libero movimento di beni e capitali (e, in
misura minore, di persone, con l'immigrazione) ha davvero ridotto la
povertà? Ha danneggiato o aiutato le classi medie dei Paesi ricchi? Come
risultato di tutta questa discussione, la diseguaglianza è tornata un
tema rilevante; e misurarla, lavoro non semplice, è diventato un compito
fondamentale.
Il
rapporto della Fondazione Hume vuole contribuire a questi studi
ponendosi come obiettivo la misurazione della diseguaglianza sotto tre
aspetti, collegati. La diseguaglianza tra i Paesi – ciascuno “pesato” in
base alla sua popolazione – la diseguaglianza all'interno di ciascun
Paese, e la diseguaglianza del mondo considerato come un'economia unica.
La diseguaglianza tra Paesi, dopo essere salita lentamente tra 1960 e
1980, ha poi iniziato a calare, con una velocità che è diventata
piuttosto rapida dopo il 2000. Ha pesato il successo della Cina, per le
sue dimensioni e per le sue performances, e infatti escludendo questa
economia, la diseguaglianza fra Paesi aumenta fino al 2000, anche se da
allora è comunque in calo. Il rapporto sottolinea come questo andamento
sia anche dovuto al rallentamento delle economie ricche. Soffermandosi
solo sulle economie avanzate, la tendenza appare opposta. La
diseguaglianza tra Paesi cala rapidamente fino al 1982, poi risale
lentamente e torna a calare dal 2000 in poi. Gli ultimi dati mostrano
che è tornata ai minimi di 32 anni fa.
La diseguaglianza interna tra Paesi mostra intanto un forte incremento dal 1982.
Anche in questo caso pesa la crescita della diseguaglianza della Cina, e
dell'India. Anche escludendo queste due economie, però, si nota un
aumento delle diseguaglianze fino al 1996, e poi una sostanziale
stabilità dell'indice. Una suddivisione del mondo in diversi gruppi
mostra però dinamiche molto diverse: è molto aumentata la
diseguaglianza, oltre che in India, Cina e alcune altre economie
asiatiche, nei Paesi ex comunisti, mentre è calata, dalla fine del
secolo scorso in poi, in America Latina e in diversi (ma non tutti) i
Paesi africani. Nelle economie avanzate, la tendenza è stata quella di
una crescita lenta dall'82 in poi, ma ogni Paese sembra avere una storia
a sé. La conclusione comune che si può trarre è che «nelle società
avanzate la diseguaglianza è oggi più alta che quarant'anni fa, ma
attualmente la tendenza dominante è alla diminuzione». Nel mondo intero,
considerato come un'unica economia, ha prevalso infine la tendenza alla
riduzione delle diseguaglianze tra i cittadini del mondo: a partire dal
2000 circa il pianeta è diventato «nel complesso un po' più uguale».
*****
Il successo (e la taglia) di Cina e India hanno contribuito a ridurre le differenze
26 aprile 2015
I
protagonisti sono due. Da qualunque punto di vista si vogliano
esaminare le tendenze della diseguaglianza economica negli ultimi anni,
l'andamento della Cina e dell'India, i due Paesi più popolosi al mondo,
sono dominanti.Non è però soltanto una questione di demografia. Se nel
mondo intero è calata la diseguaglianza tra i Paesi, una buona parte di
questo risultato è legato all'andamento della Cina, che ha fatto
aumentare il prodotto interno lordo pro capite a ritmi rapidissimi e per
diversi anni. L'India, al confronto, è apparsa meno brillante, ma anche
per questa economia, nel lungo periodo, i progressi sono innegabili.
Altri
fattori sono entrati in gioco, a cominciare dal rallentamento delle
economie avanzate, ma il peso dei due grandi Paesi è evidente.È
evidente, allo stesso modo, quando si passa a parlare della
diseguaglianza all'interno dei Paesi, che è aumentata anche perché è
cresciuta in queste due economie, malgrado tutta la retorica del partito
comunista cinese e quella dei tanti partiti egualitari dell'India. In
Cina si è avuto un forte spostamento dei lavoratori dalle campagne verso
le città, ma un impatto importante ha anche avuto la riforma agraria
del 1978.
Non
diversa, anche se più lenta, è stata l'evoluzione dell'India, dove c'è
anche stato un importante miglioramento della situazione economica delle
stesse popolazioni rurali.L'aumento della diseguaglianza durante le
prime fasi dello sviluppo economico è del resto fenomeno ben noto. La
curva di Kuznets, elaborata dall'economista Simon Kuznets, esamina
proprio l'ipotesi di una iniziale crescita, e una successiva decrescita,
della diseguaglianza. La sua validità - dubbia agli occhi del suo
stesso autore - oggi è da più parte contestata sulla base dei dati.
R.Sor.
*****
La leggenda delle disuguaglianze crescenti
di Luca Ricolfi | 26 aprile 2015
Da
quanti anni lo sentiamo dire? Da quanti anni lo leggiamo sui giornali?
Da quanti anni gli studiosi si affannano a ricordarcelo?Il mondo sta
diventando sempre più diseguale, ci ripetono. Un po' ovunque le
disuguaglianze stanno crescendo in modo esplosivo, o esponenziale, come
si usa dire con abuso di linguaggio (“esponenziale” non significa
veloce, ma semplicemente a tasso costante). E l'aumento delle
disuguaglianze, nel giro di pochi anni, è anche diventato il principale
imputato per la crisi che ci attanaglia dall'agosto del 2007.
Se
la crescita si è fermata, ci dicono, è perché vi è stata una spaventosa
crescita delle diseguaglianze.Ma è vero che le diseguaglianze stanno
crescendo in modo così esplosivo? Il dossier della Fondazione David
Hume, che analizza più di 50 anni di storia della diseguaglianza in
quasi tutti i Paesi del mondo, fornisce ora una base di dati ampia e
relativamente completa per provare a fornire qualche risposta (vedi le
pagine 2-5 del giornale). Ed eccone alcune.
Se
consideriamo il mondo come un unico Stato, e misuriamo il grado di
diseguaglianza fra i cittadini del mondo, la diseguaglianza è molto
cresciuta negli anni '80, ma ha smesso di crescere intorno al 1992, ed
ha cominciato a diminuire sistematicamente a partire dal 2000. Dunque,
nel XXI secolo la tendenza della diseguaglianza mondiale è alla
diminuzione.La diseguaglianza fra i livelli di benessere delle nazioni, o
diseguaglianza internazionale, ha invece smesso di crescere già intorno
al 1990, e si sta riducendo a un ritmo molto rapido da circa un quarto
di secolo.E le diseguaglianze interne ai vari Paesi del mondo? Qui tutto
si può dire, tranne che esistano tendenze generali. La diseguaglianza
interna sta crescendo in modo preoccupante in Cina (dal 1982) e in India
(dal 2002), ma nel resto del mondo il grado medio di diseguaglianza,
dopo aver raggiunto un massimo nel 1996, ha un andamento sostanzialmente
piatto, frutto di movimenti molto complessi e diversi da Paese a Paese e
da periodo a periodo.
La
diseguaglianza, ad esempio, nei Paesi ex comunisti ha fatto un balzo in
avanti nei primi anni '90, dopo la caduta del muro di Berlino, mentre
in America latina è in costante diminuzione dall'inizio del XXI secolo.
E nelle società avanzate?
Qui, forse, incontriamo le maggiori sorprese. Se consideriamo l'insieme dei Paesi Ocse (più Singapore e Hong Kong), la tendenza principale della diseguaglianza è stata all'aumento fra gli anni '80 e gli anni '90, ma negli ultimi 10-15 anni non presenta una tendenza netta, e se proprio vogliamo trovarne una, è a una lievissima diminuzione. In alcuni Paesi (ad esempio il Giappone) prevale nettamente la tendenza all'aumento, in altri (ad esempio la Turchia) prevale quella alla diminuzione, in altri ancora non è possibile rintracciare alcuna tendenza sistematica.
Fra questi ultimi vi è anche l'Italia. Da noi è da vent'anni (dal 1993) che il grado di diseguaglianza (misurato con l'indice di Gini) oscilla intorno a 0.33. Un valore più basso della media (ponderata) dei Paesi Ocse (pari a 0.35 nel 2013), e decisamente più basso del valore (0.37) che l'indice aveva in Italia alla fine dei “gloriosi 30 anni”, quelli caratterizzati dall'espansione dello Stato sociale.
Qui, forse, incontriamo le maggiori sorprese. Se consideriamo l'insieme dei Paesi Ocse (più Singapore e Hong Kong), la tendenza principale della diseguaglianza è stata all'aumento fra gli anni '80 e gli anni '90, ma negli ultimi 10-15 anni non presenta una tendenza netta, e se proprio vogliamo trovarne una, è a una lievissima diminuzione. In alcuni Paesi (ad esempio il Giappone) prevale nettamente la tendenza all'aumento, in altri (ad esempio la Turchia) prevale quella alla diminuzione, in altri ancora non è possibile rintracciare alcuna tendenza sistematica.
Fra questi ultimi vi è anche l'Italia. Da noi è da vent'anni (dal 1993) che il grado di diseguaglianza (misurato con l'indice di Gini) oscilla intorno a 0.33. Un valore più basso della media (ponderata) dei Paesi Ocse (pari a 0.35 nel 2013), e decisamente più basso del valore (0.37) che l'indice aveva in Italia alla fine dei “gloriosi 30 anni”, quelli caratterizzati dall'espansione dello Stato sociale.
E negli anni della crisi?
Se guardiamo alle società avanzate, i dati disponibili, talora fermi al 2012 o al 2013, non consentono alcun racconto unitario, perché la dinamica della diseguaglianza varia considerevolmente non solo a seconda dei Paesi, ma anche in funzione del modo di misurare la diseguaglianza, che può riferirsi al reddito o alla ricchezza netta, a tutti gli strati o solo agli strati estremi (i super-ricchi e gli ultra-poveri). E tuttavia, fra le innumerevoli storie che emergono dai dati disponibili, ve n'è almeno una che si presenta con inquietante frequenza, quella che potremmo chiamare della “curva a V”. In parecchi Paesi (fra cui l'Italia) il profilo della diseguaglianza negli anni a cavallo della recessione 2008-2009 sembra essere stato prima calante e poi crescente, come se la crisi avesse prima penalizzato e poi premiato i ricchi. Difficile pensare che questo movimento, laddove si è manifestato, non abbia a che fare con il movimento degli indici azionari, prima calanti e poi crescenti.
Se guardiamo alle società avanzate, i dati disponibili, talora fermi al 2012 o al 2013, non consentono alcun racconto unitario, perché la dinamica della diseguaglianza varia considerevolmente non solo a seconda dei Paesi, ma anche in funzione del modo di misurare la diseguaglianza, che può riferirsi al reddito o alla ricchezza netta, a tutti gli strati o solo agli strati estremi (i super-ricchi e gli ultra-poveri). E tuttavia, fra le innumerevoli storie che emergono dai dati disponibili, ve n'è almeno una che si presenta con inquietante frequenza, quella che potremmo chiamare della “curva a V”. In parecchi Paesi (fra cui l'Italia) il profilo della diseguaglianza negli anni a cavallo della recessione 2008-2009 sembra essere stato prima calante e poi crescente, come se la crisi avesse prima penalizzato e poi premiato i ricchi. Difficile pensare che questo movimento, laddove si è manifestato, non abbia a che fare con il movimento degli indici azionari, prima calanti e poi crescenti.
Se
questa lettura avesse qualche fondamento, sarebbe difficile non notare
un paradosso. I progressisti sono ovunque schierati per le politiche di
espansione monetaria, come il Quantitative Easing di Draghi, ma paiono
non rendersi conto di un punto recentemente sottolineato da Pascal
Salin, in uno dei libri più interessanti sulla lunga crisi di questi
anni (“Tornare al capitalismo per evitare le crisi”, Rubbettino 2011): i
tassi di interesse bassi inflazionano il valore degli asset (titoli e
immobili), favoriscono la speculazione, e per questa via, premiano
innanzitutto i livelli alti della gerarchia sociale.
Insomma, dopo anni in cui la diseguaglianza aveva cessato di crescere, potrebbero essere proprio le politiche pensate per far ripartire la crescita a innescare un nuovo processo di aumento delle diseguaglianze, dopo quello degli anni della globalizzazione. È solo un'ipotesi, ma forse varrebbe la pena rifletterci su.
Insomma, dopo anni in cui la diseguaglianza aveva cessato di crescere, potrebbero essere proprio le politiche pensate per far ripartire la crescita a innescare un nuovo processo di aumento delle diseguaglianze, dopo quello degli anni della globalizzazione. È solo un'ipotesi, ma forse varrebbe la pena rifletterci su.
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