La Bulgaria ha reso noto di non avere interesse all'ingresso nell'Unione
Europea fino a che questa non avrà risolto i suoi problemi. Questa
dichiarazione misura quanto il sogno di un'Europa unita, promosso dai
suoi padri fondatori e condiviso da milioni di cittadini, sia stato
tradito.
Non che le politiche della Comunità, poi Unione, Europea siano mai state tali da accendere l'entusiasmo dei suoi cittadini; ma la crisi scoppiata nel 2008, che ha visto le politiche europee ridursi a una corsa affannosa prima per salvare le banche responsabili del dissesto, e poi per «rassicurare» i cosiddetti mercati, cioè gli speculatori che ingrassano sui debiti pubblici dei paesi membri, ha portato le istituzioni dell'Unione a una resa dei conti. Mentre i governi si trastullano con gli spread in una serie di riunioni inconcludenti che ne evidenziano incapacità e impotenza, ma sostanzialmente la resa ai poteri della finanza internazionale, la coesione sociale della compagine europea - di cui l'economia non è che una manifestazione, e neanche la principale - ha ormai imboccato la strada della dissoluzione.
Di questo disastro che coinvolge un intero continente (e con esso il resto del mondo), e delle scelte che l'hanno provocato, l'Italia è senza dubbio l'espressione più compiuta: l'inconsistenza dei suoi governanti, si tratti di «tecnici», di politici o di clown, è lo specchio (certo deformante) di una mancanza di prospettive e di una miseria intellettuale che accomuna tutto l'establisment europeo; e non a caso, ma per la sua subordinazione senza alternative ai poteri della finanza. Che cosa sarà dell'Europa - e che cosa sarà del mondo - domani, tra dieci anni, tra venti, a metà del secolo? Nessuno di loro sa rispondere (ci mancherebbe...). Ma nemmeno si pone il problema.
La Grecia è certo più avanti di noi lungo il sentiero dello sfascio sociale e politico, ma l'Italia la sta seguendo a ruota. Il pareggio di bilancio e il fiscal compact segnano il cammino lungo un itinerario già tracciato e destinato a travolgere uno dietro l'altro tutti gli altri membri della compagine europea. D'altronde neanche la Germania, che sembra attendere sulla riva del fiume il cadavere degli altri «Stati membri» dell'Unione, sta più tanto bene.
All'intervento pubblico che in Italia, ma non solo, ha avuto nell'industria di Stato uno dei suoi strumenti principali, viene oggi imputato, sulla base dei canoni dell'ideologia liberista, lo stallo in cui è incorso lo sviluppo del «miracolo economico». Senza prendere mai in considerazione l'ipotesi che quello stallo, che ormai riguarda in misura maggiore o minore tutto il pianeta, comprese le economie «emergenti» che si sono lanciate all'inseguimento di quel modello portandolo al parossismo, sia invece riconducibile a problemi di tutt'altro genere: l'insostenibilità sociale e ambientale e la saturazione dei mercati dei beni inutili.
No, ci viene detto ora. La causa di quello stallo e dei disastri che l'accompagnano è l'intrusione di una classe politica squalificata dentro i meccanismi dell'economia, senza ricordare che quella classe politica ha avuto per più di mezzo secolo, e fino a ieri, il sostegno di tutta l'imprenditoria italiana, delle sue associazioni e dei media che l'hanno difesa in tutti i modi. Così, invece di adoperarsi per rinnovarla, il rimedio che la cultura e la pratica liberiste hanno trovato ai guai veri o presunti creati dall'intervento pubblico è stata la privatizzazione di tutto il possibile - in base all'assunto che privato è efficienza e pubblico è spreco, e che il compito del governo è bastonare i lavoratori, mentre produzione e sviluppo sono affare delle imprese - cercando di far dimenticare che a beneficiare di un intervento pubblico oneroso, devastante e arbitrario erano stati, e da sempre, non i lavoratori ai cui «privilegi» viene oggi imputato la crisi delle finanze statali, ma i grandi profittatori di quegli anni: i Moratti, i Rovelli, gli Onorato, gli Orlando; della Fiat che si è fatta costruire o cedere a spese dello Stato buona parte degli stabilimenti che ora abbandona.
Oggi possiamo toccare con mano i risultati della cura delle privatizzazioni adottata con la «svolta» degli anni '80: i disastri dell'Ilva, dell'Alcoa, della Lucchini Sevestal, la scomparsa dell'Alfaromeo in mano alla Fiat, le autostrade in mano ai Benetton, le malversazioni dell'Eni in mano ai Ferruzzi, la sclerosi di Telecom, per non parlare dei rifiuti campani gestiti da Impregilo o dell'importazione e distribuzione di gas in mano agli eredi Ciancimino; e ancora, le Banche di interesse nazionale, accorpate, imbolsite e consegnate a una gestione «imprenditoriale» che, se venisse sottoposta a un autentico stress test, si ritroverebbe - come si ritroverà - nella stessa situazione di quelle spagnole: ripiena di crediti inesigibili dai grandi capitani dell'edilizia privata. Tutto ciò prova non solo che l'industria, le infrastrutture e le stesse funzioni dello Stato sono state svendute - per non dire regalate - ai privati; dimostra anche che la gestione privata è intervenuta solo per spremere fino all'osso quanto era ancora possibile ricavare da quei regali di Stato, per poi abbandonarli al loro destino; forse in attesa che lo Stato intervenga di nuovo, magari mobilitando la Cassa depositi e prestiti, come già sta facendo a favore dei «piani di sviluppo» del Ministro Passera.
Non basta. Oggi abbiamo un governo di «tecnici» in gran parte prelevati da quella Università che ha usato la cooptazione senza verifiche (leggi parentopoli) per soffocare le spinte innovatrici del '68. Così abbiamo un ministro del lavoro che non sa quel che dice e quel che fa, emulo, per competenza, della Prestigiacomo; un ministro dell'istruzione che si trova a suo agio sula scia della Gelmini; un ministro della salute che si occupa delle bollicine invece che dei tumori provocati dall'Ilva. E un primo ministro che non sa che cos'è l'ambiente e che si autonomina «garante» del disastro europeo, dopo aver «garantito» mesi fa i risultati dei suoi provvedimenti (ricordiamo i "numeri" che aveva dato: Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18...); e dopo aver confermato - tra i tanti bluff - il Tav Torino-Lione contro il parere di 360 tecnici, loro sì autentici. Per non parlare di quelli che non sono neppure professori, come Passera, che nell'ignoranza dei problemi del contesto in cui opera non è secondo a nessuno. Più tutti quelli assurti a un Ministero o a un Sottosegretariato - e non sono pochi - per ragioni di famiglia o di conoscenze (alcuni dei quali sono già stati presi con le mani nel sacco). Eccoli i veri «bamboccioni» di cui tanto si parla (altro che quelli costretti a vivere «in famiglia» perché senza lavoro e senza soldi per pagare un affitto): uomini e donne in carriera grazie alla loro adesione al liberismo. Che poi, alla prova dei fatti, fanno solo disastri: tra gli applausi della stampa e dei media di regime, trasformati in altrettante Pravde.
Ma se il «pubblico» non funziona e il privato neppure, che cosa bisogna fare? Il vero problema dell'Italia e dell'Europa non sono gli spread, ma la necessità di un ricambio radicale delle classi dirigenti: in campo politico, in campo economico e imprenditoriale, in campo accademico e culturale. Occorre creare una classe dirigente capace e disposta ad affrontare il ciclo economico, dalla produzione al consumo e al riciclo, come un bene comune; per recuperare un rapporto di reciproca fiducia con i governati che l'attuale establishment ha irrimediabilmente perduto.
Certo, non è un programma di breve periodo (nel frattempo, di fronte alle urgenze del momento, bisognerebbe che due «colossi» come Italia e Spagna, seguiti da molti altri, rinviassero le scadenze di rimborso del loro debito per costringere tutti, Merkel in testa, a correre in qualche modo ai ripari). Ma è un programma che ha la sua premessa nella mobilitazione e nelle lotte dei cittadini e dei lavoratori, il 99 per cento, colpiti dalle misure «imposte dall'Europa»; che certo già oggi non mancano, e non mancheranno domani. Ma che può trovare la strada di una sua affermazione soltanto nella creazione di nuovi istituti di democrazia partecipata, di valorizzazione dei saperi oggi misconosciuti da chi governa e da chi impiega il lavoro altrui, di conversione delle politiche industriali, orientandole verso prodotti e produzioni sostenibili, di rinnovamento della cultura, per riabilitare la solidarietà contro la competizione, la sobrietà contro lo spreco, il rispetto della natura e degli altri contro l'aggressione e il razzismo imperanti.
Non che le politiche della Comunità, poi Unione, Europea siano mai state tali da accendere l'entusiasmo dei suoi cittadini; ma la crisi scoppiata nel 2008, che ha visto le politiche europee ridursi a una corsa affannosa prima per salvare le banche responsabili del dissesto, e poi per «rassicurare» i cosiddetti mercati, cioè gli speculatori che ingrassano sui debiti pubblici dei paesi membri, ha portato le istituzioni dell'Unione a una resa dei conti. Mentre i governi si trastullano con gli spread in una serie di riunioni inconcludenti che ne evidenziano incapacità e impotenza, ma sostanzialmente la resa ai poteri della finanza internazionale, la coesione sociale della compagine europea - di cui l'economia non è che una manifestazione, e neanche la principale - ha ormai imboccato la strada della dissoluzione.
Di questo disastro che coinvolge un intero continente (e con esso il resto del mondo), e delle scelte che l'hanno provocato, l'Italia è senza dubbio l'espressione più compiuta: l'inconsistenza dei suoi governanti, si tratti di «tecnici», di politici o di clown, è lo specchio (certo deformante) di una mancanza di prospettive e di una miseria intellettuale che accomuna tutto l'establisment europeo; e non a caso, ma per la sua subordinazione senza alternative ai poteri della finanza. Che cosa sarà dell'Europa - e che cosa sarà del mondo - domani, tra dieci anni, tra venti, a metà del secolo? Nessuno di loro sa rispondere (ci mancherebbe...). Ma nemmeno si pone il problema.
La Grecia è certo più avanti di noi lungo il sentiero dello sfascio sociale e politico, ma l'Italia la sta seguendo a ruota. Il pareggio di bilancio e il fiscal compact segnano il cammino lungo un itinerario già tracciato e destinato a travolgere uno dietro l'altro tutti gli altri membri della compagine europea. D'altronde neanche la Germania, che sembra attendere sulla riva del fiume il cadavere degli altri «Stati membri» dell'Unione, sta più tanto bene.
All'intervento pubblico che in Italia, ma non solo, ha avuto nell'industria di Stato uno dei suoi strumenti principali, viene oggi imputato, sulla base dei canoni dell'ideologia liberista, lo stallo in cui è incorso lo sviluppo del «miracolo economico». Senza prendere mai in considerazione l'ipotesi che quello stallo, che ormai riguarda in misura maggiore o minore tutto il pianeta, comprese le economie «emergenti» che si sono lanciate all'inseguimento di quel modello portandolo al parossismo, sia invece riconducibile a problemi di tutt'altro genere: l'insostenibilità sociale e ambientale e la saturazione dei mercati dei beni inutili.
No, ci viene detto ora. La causa di quello stallo e dei disastri che l'accompagnano è l'intrusione di una classe politica squalificata dentro i meccanismi dell'economia, senza ricordare che quella classe politica ha avuto per più di mezzo secolo, e fino a ieri, il sostegno di tutta l'imprenditoria italiana, delle sue associazioni e dei media che l'hanno difesa in tutti i modi. Così, invece di adoperarsi per rinnovarla, il rimedio che la cultura e la pratica liberiste hanno trovato ai guai veri o presunti creati dall'intervento pubblico è stata la privatizzazione di tutto il possibile - in base all'assunto che privato è efficienza e pubblico è spreco, e che il compito del governo è bastonare i lavoratori, mentre produzione e sviluppo sono affare delle imprese - cercando di far dimenticare che a beneficiare di un intervento pubblico oneroso, devastante e arbitrario erano stati, e da sempre, non i lavoratori ai cui «privilegi» viene oggi imputato la crisi delle finanze statali, ma i grandi profittatori di quegli anni: i Moratti, i Rovelli, gli Onorato, gli Orlando; della Fiat che si è fatta costruire o cedere a spese dello Stato buona parte degli stabilimenti che ora abbandona.
Oggi possiamo toccare con mano i risultati della cura delle privatizzazioni adottata con la «svolta» degli anni '80: i disastri dell'Ilva, dell'Alcoa, della Lucchini Sevestal, la scomparsa dell'Alfaromeo in mano alla Fiat, le autostrade in mano ai Benetton, le malversazioni dell'Eni in mano ai Ferruzzi, la sclerosi di Telecom, per non parlare dei rifiuti campani gestiti da Impregilo o dell'importazione e distribuzione di gas in mano agli eredi Ciancimino; e ancora, le Banche di interesse nazionale, accorpate, imbolsite e consegnate a una gestione «imprenditoriale» che, se venisse sottoposta a un autentico stress test, si ritroverebbe - come si ritroverà - nella stessa situazione di quelle spagnole: ripiena di crediti inesigibili dai grandi capitani dell'edilizia privata. Tutto ciò prova non solo che l'industria, le infrastrutture e le stesse funzioni dello Stato sono state svendute - per non dire regalate - ai privati; dimostra anche che la gestione privata è intervenuta solo per spremere fino all'osso quanto era ancora possibile ricavare da quei regali di Stato, per poi abbandonarli al loro destino; forse in attesa che lo Stato intervenga di nuovo, magari mobilitando la Cassa depositi e prestiti, come già sta facendo a favore dei «piani di sviluppo» del Ministro Passera.
Non basta. Oggi abbiamo un governo di «tecnici» in gran parte prelevati da quella Università che ha usato la cooptazione senza verifiche (leggi parentopoli) per soffocare le spinte innovatrici del '68. Così abbiamo un ministro del lavoro che non sa quel che dice e quel che fa, emulo, per competenza, della Prestigiacomo; un ministro dell'istruzione che si trova a suo agio sula scia della Gelmini; un ministro della salute che si occupa delle bollicine invece che dei tumori provocati dall'Ilva. E un primo ministro che non sa che cos'è l'ambiente e che si autonomina «garante» del disastro europeo, dopo aver «garantito» mesi fa i risultati dei suoi provvedimenti (ricordiamo i "numeri" che aveva dato: Pil +11%; salari +12; consumi +8; occupazione +8; investimenti + 18...); e dopo aver confermato - tra i tanti bluff - il Tav Torino-Lione contro il parere di 360 tecnici, loro sì autentici. Per non parlare di quelli che non sono neppure professori, come Passera, che nell'ignoranza dei problemi del contesto in cui opera non è secondo a nessuno. Più tutti quelli assurti a un Ministero o a un Sottosegretariato - e non sono pochi - per ragioni di famiglia o di conoscenze (alcuni dei quali sono già stati presi con le mani nel sacco). Eccoli i veri «bamboccioni» di cui tanto si parla (altro che quelli costretti a vivere «in famiglia» perché senza lavoro e senza soldi per pagare un affitto): uomini e donne in carriera grazie alla loro adesione al liberismo. Che poi, alla prova dei fatti, fanno solo disastri: tra gli applausi della stampa e dei media di regime, trasformati in altrettante Pravde.
Ma se il «pubblico» non funziona e il privato neppure, che cosa bisogna fare? Il vero problema dell'Italia e dell'Europa non sono gli spread, ma la necessità di un ricambio radicale delle classi dirigenti: in campo politico, in campo economico e imprenditoriale, in campo accademico e culturale. Occorre creare una classe dirigente capace e disposta ad affrontare il ciclo economico, dalla produzione al consumo e al riciclo, come un bene comune; per recuperare un rapporto di reciproca fiducia con i governati che l'attuale establishment ha irrimediabilmente perduto.
Certo, non è un programma di breve periodo (nel frattempo, di fronte alle urgenze del momento, bisognerebbe che due «colossi» come Italia e Spagna, seguiti da molti altri, rinviassero le scadenze di rimborso del loro debito per costringere tutti, Merkel in testa, a correre in qualche modo ai ripari). Ma è un programma che ha la sua premessa nella mobilitazione e nelle lotte dei cittadini e dei lavoratori, il 99 per cento, colpiti dalle misure «imposte dall'Europa»; che certo già oggi non mancano, e non mancheranno domani. Ma che può trovare la strada di una sua affermazione soltanto nella creazione di nuovi istituti di democrazia partecipata, di valorizzazione dei saperi oggi misconosciuti da chi governa e da chi impiega il lavoro altrui, di conversione delle politiche industriali, orientandole verso prodotti e produzioni sostenibili, di rinnovamento della cultura, per riabilitare la solidarietà contro la competizione, la sobrietà contro lo spreco, il rispetto della natura e degli altri contro l'aggressione e il razzismo imperanti.
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