Non è una legge naturale che i plebei debbano occuparsi di procurare il cibo e i patrizi di digerirlo. Eppure gli ultimi provvedimenti del governo…
L’apologo
di Menenio Agrippa rischia di tornare di un’attualità disarmante nel
dibattito politico attuale su quale politica sia di destra e quale di
sinistra. Menenio Agrippa paragonò i plebei dell’antica Roma alle
braccia e i patrizi allo stomaco. L’apologo dice che se le braccia,
stufe di lavorare mentre lo stomaco attende solo il cibo, decidono di
non procurarne più, la mancanza di nutrimento indebolisce e danneggia le
stesse braccia, oltre che lo stomaco. L’apologo è il prototipo del
ragionamento che, basandosi su un argomento né di destra né di sinistra,
serve in realtà a far accettare una conclusione di destra.
La verità contenuta nell’apologo, fuor di metafora, è che le società e i sistemi economici debbono soddisfare delle condizioni di riproduzione per poter esistere. Se queste condizioni di base non sono soddisfatte, tutti i componenti la società affrontano un peggioramento delle proprie condizioni che può essere anche catastrofico. La conclusione nascosta di destra è che si pretende che i rapporti di forza, di potere e di condizioni economiche della società, cioè i rapporti di classe, coincidano con le condizioni “naturali” della riproduzione, cosicché rispettare queste condizioni significa mantenere o rafforzare questi rapporti. Ma non è una legge naturale che i plebei debbono procurare il cibo e i patrizi occuparsi di digerirlo.
Che questa storia, vecchia di millenni, possa essere considerata il modello per affrontare i cambiamenti in atto, la cosiddetta modernizzazione, è semplicemente deprimente. Per riportare il problema ai dati concreti e non ideologici, è confermato da moltissimi studi e statistiche che l’andamento delle economie sviluppate negli ultimi decenni hanno visto crescere la diseguaglianza nella distribuzione del reddito (la crescita degli indici Gini di distribuzione del reddito) e la diminuzione della quota dei compensi dei lavoratori dipendenti sul reddito, a beneficio delle rendite e dei profitti. È vero che la questione della distribuzione del reddito non esaurisce il campo di una politica di sinistra, ma l’andamento costante di queste tendenze indica in modo molto chiaro che lo sviluppo cui abbiamo assistito dagli anni ottanta ha un connotato di restaurazione rispetto alla cosiddetta età dell’oro del dopoguerra, in cui l’andamento di questi dati era invece opposto (La tesi sostenuta anche dagli economisti liberal americani e quindi rientra in un’idea ampia di sinistra).
A rischio di sembrare per qualche verso semplicistici e riduzionisti, si potrebbero allora chiamare di destra tutte le posizioni che accettano il peggioramento degli indici sulla diseguaglianza come “naturali”, giusti o anche solo inevitabili. Di converso si potrebbero chiamare di sinistra quelle posizioni e proposte che si pongano l’obiettivo di contrastare e rovesciare le tendenze che hanno caratterizzato le ultime fasi dello sviluppo, prevedendo prima e verificando poi la loro efficacia guardando l’andamento di questi indici. Per questo motivo, mi sembra che quelle posizioni che si autoproclamano riformiste, senza offrire nessuna soluzione al problema della crescita delle diseguaglianze e alla perdita di centralità del lavoro, possano essere chiamate di destra senza che nessuno si senta offeso.
La verità contenuta nell’apologo, fuor di metafora, è che le società e i sistemi economici debbono soddisfare delle condizioni di riproduzione per poter esistere. Se queste condizioni di base non sono soddisfatte, tutti i componenti la società affrontano un peggioramento delle proprie condizioni che può essere anche catastrofico. La conclusione nascosta di destra è che si pretende che i rapporti di forza, di potere e di condizioni economiche della società, cioè i rapporti di classe, coincidano con le condizioni “naturali” della riproduzione, cosicché rispettare queste condizioni significa mantenere o rafforzare questi rapporti. Ma non è una legge naturale che i plebei debbono procurare il cibo e i patrizi occuparsi di digerirlo.
Che questa storia, vecchia di millenni, possa essere considerata il modello per affrontare i cambiamenti in atto, la cosiddetta modernizzazione, è semplicemente deprimente. Per riportare il problema ai dati concreti e non ideologici, è confermato da moltissimi studi e statistiche che l’andamento delle economie sviluppate negli ultimi decenni hanno visto crescere la diseguaglianza nella distribuzione del reddito (la crescita degli indici Gini di distribuzione del reddito) e la diminuzione della quota dei compensi dei lavoratori dipendenti sul reddito, a beneficio delle rendite e dei profitti. È vero che la questione della distribuzione del reddito non esaurisce il campo di una politica di sinistra, ma l’andamento costante di queste tendenze indica in modo molto chiaro che lo sviluppo cui abbiamo assistito dagli anni ottanta ha un connotato di restaurazione rispetto alla cosiddetta età dell’oro del dopoguerra, in cui l’andamento di questi dati era invece opposto (La tesi sostenuta anche dagli economisti liberal americani e quindi rientra in un’idea ampia di sinistra).
A rischio di sembrare per qualche verso semplicistici e riduzionisti, si potrebbero allora chiamare di destra tutte le posizioni che accettano il peggioramento degli indici sulla diseguaglianza come “naturali”, giusti o anche solo inevitabili. Di converso si potrebbero chiamare di sinistra quelle posizioni e proposte che si pongano l’obiettivo di contrastare e rovesciare le tendenze che hanno caratterizzato le ultime fasi dello sviluppo, prevedendo prima e verificando poi la loro efficacia guardando l’andamento di questi indici. Per questo motivo, mi sembra che quelle posizioni che si autoproclamano riformiste, senza offrire nessuna soluzione al problema della crescita delle diseguaglianze e alla perdita di centralità del lavoro, possano essere chiamate di destra senza che nessuno si senta offeso.
Tre esempi possono
servire a chiarire di cosa sto parlando.
Dagli anni ’80 e ’90 è stata perseguita una politica di moderazione salariale. Si è cercato di convincere i lavoratori che la rinuncia a rivendicazioni salariali non in linea con le compatibilità stabilite da altri sarebbe stata nel loro interesse. Lo sviluppo economico conseguente avrebbe infatti favorito la diffusione dei suoi benefici anche ai lavoratori. Un caso di scuola, avrebbe detto il Pareto sociologo, nel convincere i governati (i salariati) a porre in essere azioni non logiche che vanno in realtà a beneficio dei governanti. Infatti gli anni novanta sono quelli in cui la quota dei salari sul reddito è diminuita in modo drammatico in Italia, sia in termini assoluti che relativamente agli altri paesi sviluppati.
È davvero estremista proporsi politiche economiche effettive che invertano questa tendenza? Uno dei provvedimenti Salva-Italia del governo Monti più discussi è stata la riforma delle pensioni. Tuttavia, nessuno si è dato la pena di prevedere quali effetti la riforma avrà sulla diseguaglianza dei redditi delle persone in età della pensione. Secondo l’Ocse l’indice Gini dei redditi di mercato per le classi di persone sopra i sessantacinque anni, senza considerare la redistribuzione del reddito dovuta all’intervento dello stato con la tassazione progressiva e con i trasferimenti, cioè l’erogazione delle pensioni pubbliche, è in Italia molto alto in confronto ai paesi per i quali il calcolo è stato possibile (per la precisione al secondo posto, dopo la Repubblica Ceca, su 34 paesi). È solo dopo l’erogazione delle pensioni, che l’indice di diseguaglianza della distribuzione del reddito raggiunge in Italia livelli meno alti (precisamente si colloca all’undicesimo posto tra gli stessi 34 paesi). Non si doveva forse analizzare anche l’impatto della riforma in un paese in cui la distribuzione del reddito di mercato mostra livelli di diseguaglianza tanto più alti rispetto ai paesi con cui siamo soliti confrontarci (compresi i paesi anglosassoni)? L’ultimo esempio riguarda la riforma del mercato del lavoro.
Anche sulla protezione del lavoro dai licenziamenti esistono valutazioni dell’Ocse che sembrano smentire la “saggezza convenzionale” secondo cui in Italia i lavoratori a tempo indeterminato sono meglio garantiti dei lavoratori degli altri paesi europei. I dati sono consultabili all’interno del database dell’Ocse Employment and Labour Market Statistic, Employment Protection Legislation e consistono di indici che cercano di misurare il costo delle imprese nell’assumere e licenziare i lavoratori, compresi i costi di reintegrazione dei lavoratori licenziati senza giusta causa, sia per i lavoratori a tempo indeterminato che per quelli a tempo determinato. Dal confronto degli indici di protezione del lavoro dei “cattivi” garantiti in Italia e negli altri paesi europei, emerge che l’indice della protezione del lavoro a tempo indeterminato nel nostro paese è uguale a 1,77, in Francia a 2,47 e nella Germania addirittura a 3.
Si dovrebbe quindi rovesciare l’impostazione e cercare di stimare l’effetto delle varie le varie proposte sull’indice. In ogni caso l’idea che per aumentare l’occupazione occorra rendere più facile licenziare è l’ennesimo esempio di quella tesi, che persone razionali dovrebbero considerare quantomeno bizzarra, secondo cui il miglior modo per raggiungere una meta è incamminarsi nella direzione opposta.
Dagli anni ’80 e ’90 è stata perseguita una politica di moderazione salariale. Si è cercato di convincere i lavoratori che la rinuncia a rivendicazioni salariali non in linea con le compatibilità stabilite da altri sarebbe stata nel loro interesse. Lo sviluppo economico conseguente avrebbe infatti favorito la diffusione dei suoi benefici anche ai lavoratori. Un caso di scuola, avrebbe detto il Pareto sociologo, nel convincere i governati (i salariati) a porre in essere azioni non logiche che vanno in realtà a beneficio dei governanti. Infatti gli anni novanta sono quelli in cui la quota dei salari sul reddito è diminuita in modo drammatico in Italia, sia in termini assoluti che relativamente agli altri paesi sviluppati.
È davvero estremista proporsi politiche economiche effettive che invertano questa tendenza? Uno dei provvedimenti Salva-Italia del governo Monti più discussi è stata la riforma delle pensioni. Tuttavia, nessuno si è dato la pena di prevedere quali effetti la riforma avrà sulla diseguaglianza dei redditi delle persone in età della pensione. Secondo l’Ocse l’indice Gini dei redditi di mercato per le classi di persone sopra i sessantacinque anni, senza considerare la redistribuzione del reddito dovuta all’intervento dello stato con la tassazione progressiva e con i trasferimenti, cioè l’erogazione delle pensioni pubbliche, è in Italia molto alto in confronto ai paesi per i quali il calcolo è stato possibile (per la precisione al secondo posto, dopo la Repubblica Ceca, su 34 paesi). È solo dopo l’erogazione delle pensioni, che l’indice di diseguaglianza della distribuzione del reddito raggiunge in Italia livelli meno alti (precisamente si colloca all’undicesimo posto tra gli stessi 34 paesi). Non si doveva forse analizzare anche l’impatto della riforma in un paese in cui la distribuzione del reddito di mercato mostra livelli di diseguaglianza tanto più alti rispetto ai paesi con cui siamo soliti confrontarci (compresi i paesi anglosassoni)? L’ultimo esempio riguarda la riforma del mercato del lavoro.
Anche sulla protezione del lavoro dai licenziamenti esistono valutazioni dell’Ocse che sembrano smentire la “saggezza convenzionale” secondo cui in Italia i lavoratori a tempo indeterminato sono meglio garantiti dei lavoratori degli altri paesi europei. I dati sono consultabili all’interno del database dell’Ocse Employment and Labour Market Statistic, Employment Protection Legislation e consistono di indici che cercano di misurare il costo delle imprese nell’assumere e licenziare i lavoratori, compresi i costi di reintegrazione dei lavoratori licenziati senza giusta causa, sia per i lavoratori a tempo indeterminato che per quelli a tempo determinato. Dal confronto degli indici di protezione del lavoro dei “cattivi” garantiti in Italia e negli altri paesi europei, emerge che l’indice della protezione del lavoro a tempo indeterminato nel nostro paese è uguale a 1,77, in Francia a 2,47 e nella Germania addirittura a 3.
Si dovrebbe quindi rovesciare l’impostazione e cercare di stimare l’effetto delle varie le varie proposte sull’indice. In ogni caso l’idea che per aumentare l’occupazione occorra rendere più facile licenziare è l’ennesimo esempio di quella tesi, che persone razionali dovrebbero considerare quantomeno bizzarra, secondo cui il miglior modo per raggiungere una meta è incamminarsi nella direzione opposta.
(Stefano Perri è docente presso l’Università di Macerata)
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