Qualcuno ricorda il video de “le Iene” di qualche mese fa sul caso di Giuseppe Uva,
il giovane di Varese morto in ospedale dopo essere stato fermato dai
carabinieri, caricato a forza su una camionetta e portato in caserma?
Era la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008. Insieme a lui c’era un suo amico, Alberto Biggiogero. “Avevamo bevuto”, racconta alla trasmissione su Italia1. “Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portano via, li mettono in due stanze diverse. Alberto sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. La telefonata viene registrata. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva.
Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo.
La sorella Lucia non è affatto convinta di questa ricostruzione. Tutt’altro. “Era pieno di lividi”, afferma. “Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”.“Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”.
Polizia e carabinieri di Varese denunciano sia la sorella Lucia che il giornalista de “Le Iene”. L’accusa è diffamazione, per aver affermato che il fratello era stato violentato in caserma.
Ieri, dopo quasi quattro anni, nel palazzo di Giustizia di Varese, nel corso del dibattimento sulla morte di Giuseppe Uva, è stato ascoltato il perito del tribunale. Secondo la sua deposizione, all’altezza del cavallo dei pantaloni indossati da Uva c’era una grossa macchia di sangue, composta da cellule di origine anale. A renderlo noto è Luigi Manconi, presidente di “A Buon Diritto”, associazione nata nel 2001 per difendere alcuni diritti riconosciuti dalla Costituzione ma non adeguatamente tutelati.
Sorgono spontanee alcune domande:
- Ora anche il perito del tribunale verrà denunciato?
- Cosa è accaduto realmente quella notte nella caserma di via Saffi?
- Chi ha cercato di ostacolare la ricerca della verità?
- A quale altra prova di forza deve essere sottoposta una famiglia che dopo aver visto il corpo senza vita, livido e tumefatto del proprio figlio o fratello, deve far fronte ad un’ipotesi altrettanto straziante, ovvero la violenza sessuale?
- Perchè ci sono voluti quattro anni per ascoltare la testimonianza dell’esperto di medicina legale?
- “Vittime di Stato” hanno dichiarato i familiari di Cucchi, Aldrovandi e Bianzino che come Uva hanno visto morire i loro cari in circostanze non così diverse. Perchè lo Stato non li smentisce?
- Perchè non si adopera con tutti i mezzi alla ricerca della verità?
- Perchè neanche un plastico per raccontare la loro storia?
- Perché siamo il Paese delle stragi e dei delitti impuniti e qualcuno continua a chiamarle tragiche fatalità o a coprire i responsabili?
Perchè?
Era la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008. Insieme a lui c’era un suo amico, Alberto Biggiogero. “Avevamo bevuto”, racconta alla trasmissione su Italia1. “Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portano via, li mettono in due stanze diverse. Alberto sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. La telefonata viene registrata. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva.
Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo.
La sorella Lucia non è affatto convinta di questa ricostruzione. Tutt’altro. “Era pieno di lividi”, afferma. “Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”.“Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”.
Polizia e carabinieri di Varese denunciano sia la sorella Lucia che il giornalista de “Le Iene”. L’accusa è diffamazione, per aver affermato che il fratello era stato violentato in caserma.
Ieri, dopo quasi quattro anni, nel palazzo di Giustizia di Varese, nel corso del dibattimento sulla morte di Giuseppe Uva, è stato ascoltato il perito del tribunale. Secondo la sua deposizione, all’altezza del cavallo dei pantaloni indossati da Uva c’era una grossa macchia di sangue, composta da cellule di origine anale. A renderlo noto è Luigi Manconi, presidente di “A Buon Diritto”, associazione nata nel 2001 per difendere alcuni diritti riconosciuti dalla Costituzione ma non adeguatamente tutelati.
Sorgono spontanee alcune domande:
- Ora anche il perito del tribunale verrà denunciato?
- Cosa è accaduto realmente quella notte nella caserma di via Saffi?
- Chi ha cercato di ostacolare la ricerca della verità?
- A quale altra prova di forza deve essere sottoposta una famiglia che dopo aver visto il corpo senza vita, livido e tumefatto del proprio figlio o fratello, deve far fronte ad un’ipotesi altrettanto straziante, ovvero la violenza sessuale?
- Perchè ci sono voluti quattro anni per ascoltare la testimonianza dell’esperto di medicina legale?
- “Vittime di Stato” hanno dichiarato i familiari di Cucchi, Aldrovandi e Bianzino che come Uva hanno visto morire i loro cari in circostanze non così diverse. Perchè lo Stato non li smentisce?
- Perchè non si adopera con tutti i mezzi alla ricerca della verità?
- Perchè neanche un plastico per raccontare la loro storia?
- Perché siamo il Paese delle stragi e dei delitti impuniti e qualcuno continua a chiamarle tragiche fatalità o a coprire i responsabili?
Perchè?
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